15 Settembre, 2002
Quell’agosto del ’68 eravamo a Praga di Gian Carlo Storti
In quelle ore pensammo che fosse un anticomunista e quindi per forza contro. Purtroppo stava descivendo il futuro e dava un giudizio sulla storia di un secolo.
Quell’agosto del ’68 eravamo a Praga. Il
nostro gruppo “ Laici per il socialismo”
aveva stabilito contatti con una scuola tecnica
di Praga. La primavera di Dubcek, che seguiva
il maggio francese e tedesco ci aveva stimolato.
Il contatto fu stabilito tramite un indirizzo
apparso sul giornale francese Le Monde che
descriveva un nuovo modello di gestione in questa scuola
tecnica, di cui non ricordo il nome ma situata
vicino all’allora quartiere olimpico.
Partimmo in quattro su una macchina. Ottenere
i visti fu un’impresa titanica. Credo che
ci vollero dieci viaggi al consolato di Milano.
Arrivammo a Praga passando velocemente dall’Austria
ed attraversando la frontiera in prossimità
di Bratislava. Città che poi divenno la prigione
di Dubcek, deposto da segretario generale
del partito e promosso giardiniere del locale orto botanico.
Con me c’erano Claudio, Gigi, Renato. La
macchina, una Fiat 1100 era del papà di Claudio. Claudio era il più
anziano: aveva 20 anni ed era il responsabile
del gruppo “ Laici per il socalismo” che
aveva sede nel cortile della sede staccata
della scuola elementae del quartiere: la Villetta. Il padre di Claudio era fratello di un noto
pittore della nostra città.
Costruimmo il gruppo in quella primavera,
attaccati alla radio ed ai giornali per capire che cosa stava succedendo nel mondo.
Alcuni di noi erano impegnati già nel movimento
studentesco, altri già lavoravano nelle fabbriche.
Il viaggio fu lungo e durò quasi un giorno.
Le città ed i paesi scorrevano veloci. Mi ricordo
solo la periferia di Vienna: una immensa distesa di casupole di legno
in mezzo al verde, con le macchine parcheggiare
lontane e molta gente che girava in bicicletta.
Il controllo alla frontiera austriaca verso
la cecoslovacchia fu veloce. Le macchine
, quell’inizio di agosto , erano poche ed
i poliziotti con la stella rossa dell’esercito
cecoslovacco erano allegri e dispensavamo
molti sorrisi e con le braccia larghe ci
invitavano ad accellerare. La sera dormimmo
in una locandina moltro graziosa. Mangiammo
quello che c’era. Intingolo di carne con
purè, formaggi e molta molta birra, dolce
e non fredda.
Ad una certa ora forse il cuoco, forse il barista, si presentò
in sala con una fisarmonica ed iniziò a suonare
“ rosamunda”. Nessuno di noi la sapeva e
quindi facevamo solo con la bocca la rima
e per quel che si poteva mantenevamo il ritmo.
Credo che per loro fun una grande delusione.
Noi avevano voglia di capire, di parlare
di politica, loro di suonare, di divertirsi.
Tutti, in uno stentato italiano o francese,
ci dicevano che noi eravamo fortunati perché
potevamo essere li e loro no. In cecoslovacchia,
dicevano, manca libertà, per noi “ no passaport”. Ma Dubcek… insistavamo noi….
La risposta era stata affidata al cuoco: alzava le braccia e sconsolato
diceva “ Dubcek bravo, no durare, no possibile, no
liberare dai russi”, socialismo no libertà
“, voi avete libertà”.
In quelle ore pensammo che fosse un anticomunista
e quindi per forza contro. Purtroppo stava
descivendo il futuro e dava un giudizio sulla
storia di un secolo.
Andamo a dormire comunque felici.
Il mattino di buon ora eravamo già in viaggio.
A mezzogiorno eravamo alla periferia di Praga.
Per raggiungere la scuola tecnica escogitammo il trucco del
taxi. Uno di noi sul taxi e gli altri che
seguivano. La loro lingua era incomprensibile.
In poco più di mezz’ora eravano di fronte
alla scuola tecnica. Il simbolo, posto nella
piazzetta antistante, era una grande ruota
dentata. Presentammo la lettera, di accredito in portineria. Dopo pochi minuti ci venne ad accogliere
un gruppetto di persone giovani, guidate
da un signore brizzolato.
Parlavano un italiano quasi perfetto. Ci
invitarono subito in mensa. Solito intingolo di carne,
polenta o purè di patate, pane scuro, formaggi,
salumi e birra dolce.
La loro era una scuola tecnica professionale
che preparava gli operai per le fabbriche.
In particolare disegnatori, tornitori, fresatori, manutentori
e saldatori. La maggior parte degli operai
della Skoda erano stati reclutati in quella
scuola.
Ci fecero subito visitare i reparti. Grandi
officine, grandi aule da disegno, aule con
i banchi normali alle nostre e piene di ragazzi
e ragazze.
Dal punto di vista della struttura sembrava
una scuola tecnica, molto simile alla nostra.
Ci consegnarono del materiale e ci indicarono
sulla cartina il luogo ove avremmo pernottato,
a nostre spese, poco distante dal centro
di Praga, poco distante dalla mitica p.zza
S. Venceslao. L’appuntamento era il lunedi
mattina alle 10 presso la scuola. Quel giorno infatti era venerdi.
Ci salutammo con calorosi abbracci. Solo
in quel momento feci caso che nel gruppo
c’erano anche alcune ragazze biondine.
Raggiungemmo l’ostello. Ci fu assegnata una
camera a sei letti con degli armadietti. Le docce ed i bagni erano comuni in fondo al corridoio.
A quell’ora in ostello non c’era nessuno.
Deposte le poche cose, lo zaino ed il sacco
a pelo, con la macchina ci precipitammo in città.
Parcheggiammo dietro la Biblioteca Nazionale. La piazza S. Venceslao, vista dalla balconata
della bilioteca appariva in discesa, larga
e lunga, perimetrata da colonnette di marmo scuro ( i vecchi paracarri
delle nostre strade) tenuti assieme da catene
di ferro. Nel mezzo la statua dell’eroe e santo praghese.
Ai lati della piazza le strade erano prive
di traffico. Pochissime erano le skoda in
circolazione o posteggiate.
Erano circa le 19 di sera e la piazza si
stava riempendo di persone allegre e vaiopinte.
Ci buttammo nella fila di persone che saliva
verso il castello residenza di Svoboda ,
Presidente della Repubblica Cecoslovacca.
La cartina con la guida dei touring era in mano al Gigi che ci guidava. Avendo
la biblioteca di fronte e prendendo la stradina
a destra leggermente in salita, vi va al
castello. Cominciava a venire sera, la temperatura era fresca
e tirava una leggera brezza. Ogni 30-40 metri , sfalsate a destra e sinistra, vi erano
delle lampade , ancora ad olio, a forma di
piramide pentagonale tagliata e capovolte
, cioè con la base in alto. Due uomini, uno
con un bastone e l’altro con un bidoncino
ed una scala, passano da un lato all’altro
della strada ad accendere le lampade ad olio.
Lo spettacolo era molto suggestivo. Mentre
calava la sera ed avanzava il buio queste
luci, prima fioche , poi più forti e luminose, ridavano vita alla strada piena di gente.
L’operazione di accensione della lampada
era accurata , precisa e ripetitiva.
Uno dei due uomini appoggiava la scala al
muro, l’altro saliva, toglieva il coperchio
e controllava il livello dell’olio e la consistenza
dello stoppini. L’altro , a terra, con il
bastone allungava il barattolo che conteneva
l’ olio; l’uomo sulla scala, prendeva il
barottolo, lo apriva e versava l’olio mancante nella lampada , fino a livello; sistemava
lo stoppino e con lunghi fiammiferi accendea
una luce fioca; aspettava un attino e poi
riponeva il coperchio; scendeva dalla scala
ed assieme all’altro si spostavano dall’altro
lato della strada, attraversandola per la diagonale. Nel giro di mezz’ora erano anche loro nella
piazza del castello e tutte le lampade erano
accese. Erano state accese nel frattempo
anche tutte le lampade della strada parallela,
sulla balconata della bibloteca nazionale
e negli edifici di fronte. Tutta la piazza
era illuminata da queste luci fioche ma calde che davano forza e vigore.
Il contrasto era bellissimo. Ci spiegarono
poi che questa era l’illuminazione di fine
ottocento che fu appunto ripristinata in
quegli anni.
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Continua..
In allegato il testo completo del racconto
di Gian Carlo Storti
Nota Bene: questo scritto è il racconto di
fatti realmente accaduti e vissuti in quell’agosto ’68 a Praga. Come sempre la realtà supera la fantasia…
Racconto in prima stesura scritto nel agosto
1980 e rivisto nell’agosto 2006.
Ultima revisione 20 agosto 2008
 
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