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15 Settembre, 2002
Yehoshua: *Livni coraggiosa Israele fermi la destra fanatica*
Umberto De Giovannangeli intervista su L*Unità il più affermato scrittore israeliano contemporaneo

«Di fronte all’attentato a Zeev Sternhell cresce in me la convinzione che uno Stato di diritto non può pensare di reggere a lungo intrecciandosi con un regime di occupazione esercitato alle porte di casa. Questa situazione ha finito per creare una sorta di "terra di nessuno", nei territori occupati e "insediati", in cui frange di oltranzisti hanno ritenuto, purtroppo spesso a ragione, di godere di una assoluta impunità. Ed ora pensano di poter dettare la loro "legge", fatta di furore ideologico e di violenza, anche dentro Israele». Israele, le sue paure e le sue speranze. Siamo ad Haifa, la «città del dialogo», per incontrare il più affermato scrittore israeliano contemporaneo, Abraham Bet Yehoshua. Il suo studio è, come sempre, stracolmo di libri; un caos «ordinato», scherza lo scrittore, sul quale regna sovrana la «donna della mia vita»: la moglie Rivka, psicologa e psicanalista.

Israele s’interroga sul pericolo interno: quello dell’estrema destra. Qual è la sua opinione?
«Per troppo tempo si è sottovalutato questo fenomeno, come se fosse marginale, residuale. Non è così. E l’attentato a Zeev Sternhell ne è una tragica riprova. Per troppo tempo questi fanatici estremisti hanno goduto di comprensione e di impunità. Spero che le cose cambino e al più presto, e le dichiarazioni di Tzipi Livni (la premier incaricata, ndr.) mi sembrano in questo senso incoraggianti. Ma per sconfiggere questi oltranzisti occorre rilanciare con forza il negoziato di pace….».

Quale nesso esiste tra la pace e la sconfitta dell’estrema destra radicale?
«La pace con i palestinesi, e la fine del regime di occupazione nei Territori, non è una gentile concessione al "nemico", ma è la condizione fondamentale per preservare il nostro sistema democratico e quei valori che ne sono a fondamento; sistema e valori contro cui si scagliano coloro che ancora plaudono all’assassinio di Yitzhak Rabin».

Insisto su questo punto: perché la fine dell’occupazione può divenire un efficace antidoto contro l’affermarsi di una cultura e di una pratica estremista in Israele?
«Perché spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi tende a mettere tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi che sono a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette che coloni che risiedono in insediamenti illegali possano compiere atti provocatori contro i palestinesi senza per questo incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro altri cittadini israeliani. Questa logica colonialista e militarista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. L’emergenzialismo diviene sinonimo di impunità; e l’impunità porta con sé la convinzione che tutto sia lecito, anche attentare alla vita di chi la pensa diversamente. Come è accaduto con Rabin, come poteva ripetersi con Sternhell…».

La premier incaricata Tzipi Livni ha avuto parole durissime contro i gruppi oltranzisti dopo l’attentato al professor Sternhell.
«È stata una presa di posizione netta, coraggiosa. Ora mi attendo che alle parole seguano atti concreti. Una minoranza di fanatici non può tenere in scacco un intero Paese e la sua vita democratica».

In Cisgiordania vivono oltre 230 mila coloni. Lei ritiene davvero possibile una loro evacuazione come è avvenuto con quelli di Gaza?
«Credo che molti di loro, quelli che sceglieranno di non rientrare in Israele, potranno rimanere dove sono, come cittadini ebrei di uno Stato palestinese. Nel mondo ci sono tante minoranze etniche che vivono sotto la giurisdizione di un altro Stato. Perché dobbiamo escludere questa possibilità per il futuro del Medio Oriente?».

Negoziare la pace. Qual è per Lei la questione davvero cruciale tra le tante che caratterizzano questo interminabile conflitto?
«La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Mi lasci aggiungere che la definizione dei confini non è solo un esercizio diplomatico ma è, per noi israeliani, anche qualcos’altro, di molto più profondo…».

In cosa consiste questo «altro»?
«Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si realizzava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Lei mi chiedeva cos’è per me la pace? La risposta è semplice e al tempo stesso terribilmente difficile da realizzare: la pace è la conquista della normalità. E quando ci sarà la pace e il quadro normale dello Stato d’Israele consentirà il riconoscimento definitivo del consesso dei popolo, e in particolare dei popoli dell’area in cui ci troviamo, ci renderemo conto che "normalità" non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in una epoca nuova e ricca di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari - come lo è ogni popolo - senza preoccuparci di perdere l’identità. D’altro canto, l’abbattimento del "Muro" che riguarda noi israeliani e i palestinesi non può portare con sé l’idea di una unificazione tra due entità nazionali che restano comunque separate. Voglio essere ancora più esplicito: l’opposto del "Muro", la sua alternativa non è uno Stato binazionale, che era e resta una soluzione impraticabile».

Su cosa fonda questa valutazione?
«Alla base vi sono ragioni molteplici e di diversa natura. In questo conflitto israeliani e palestinesi hanno rafforzato le rispettive identità nazionali, oltre che una diffidenza reciproca. Alla fine, spero e credo, ci sarà pace ma mai "amore". Se pace sarà, sarà la pace dei generali, come Yitzhak Rabin, che combatterono per una vita contro il nemico e da questa esperienza trassero la convinzione che non esiste una via militare alla sicurezza e alla normalità per Israele. E poi alla base della separazione in due Stati c’è anche un’altra ragione che investe l’essenza di Israele, che rimanda alla sua identità ebraica. Ed è proprio per preservare questa identità, insieme ai suoi caratteri democratici, che occorre separarci riconoscendo all’altro, ai palestinesi, il diritto, che porta con sé anche obblighi e doveri, ad un proprio Stato. Mi lasci aggiungere che oggi sono sempre di più gli israeliani consapevoli di quanto sia insensata la presenza di colonie che rischiano di imprigionare israeliani e palestinesi in uno Stato a doppia etnia il quale, col tempo, potrebbe anche diventare a maggioranza palestinese. Il muro può benissimo esistere, ma solo lungo le frontiere legittime del 1967, riconosciute dal mondo intero. E del resto non lo chiamerei più Muro a quel punto, ma semplicemente frontiera».

Nei giorni scorsi, assieme ad altri importanti scrittori israeliani, Lei è stato tra i firmatari di un appello al premier (dimissionario) Olmert perché accetti di liberare 450 detenuti palestinesi in cambio del soldato Gilad Shalit, rapito nel giugno 2006 da un commando palestinese. Quell’appello ha suscitato polemiche…
«So bene che tra i palestinesi che dovrebbero essere liberati ve ne sono molti che sono stati coinvolti in gravi e dolorosi attentati. Ma la vita dei nostri soldati non è mai stata misurata in termini di prezzo ma di valore. E questo vale anche per il soldato Shalit».

 


       



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