15 Settembre, 2002
Export. Continua l’emorragia di talenti Italiani ( Gian Carlo Storti)
La bilancia, cioè, delle esportazioni, in questo caso, è certamente in deficit.
Export. Continua l’emorragia di talenti Italiani
( Gian Carlo Storti)
Fuga di cervelli dall’Italia come un fiume
in piena.
La bilancia, cioè, delle esportazioni, in
questo caso, è certamente in deficit.
La comunità dei migranti italiani in Europa
è la terza più popolosa, dopo la rumena e
la polacca, con un totale di 1,3 milioni
di unità, come ai tempi della grande migrazione
di inizio Novecento, anche se allora le cifre
erano certamente più grandi.
Attenzione, però, perché questa cifra potrebbe
essere da rivedere. In effetti sono moltissimi
i giovani italiani, in particolare di ‘belle
speranze’, stabilmente domiciliati fuori
dai confini nazionali che il Ministero degli
Esteri non riesce a censire. Non si sa dove
siano finiti e che facciano. In poche parole
molti ‘cervelli’ emigrano per le migliori
condizioni di lavoro, decidono di stabilirsi
all’estero ma non si iscrivono all’Aire ( Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero)
che rimane un’illustre sconosciuta.
Senza l’iscrizione non si può neanche esercitare
il proprio diritto di voto.
Un disinteresse verso il Paese d’origine
che forse tradisce una certa volontà di rivalsa
nei confronti di una società sempre meno
meritocratica.
Il Parlamento italiano si è di recente reso
conto del problema e sta discutendo di una
proposta di legge che mira al recupero dei
nostri talenti oltre confine e ad attirare
anche qualche straniero.
Claudia Di Giorgio nel suo libro “Cervelli
export” edito dalla Adnkronos Libri mostra come la fuga dei cervelli dall'Italia abbia conosciuto
due stagioni, intramezzate da un breve e
felice intervallo .
La prima stagione è quella associata alla
seconda guerra mondiale e inaugurata dalle
leggi razziali sciaguratamente varate dal
regime fascista nel 1938.
In quella stagione l'Italia perse molti cervelli.
Enrico Fermi e tutti i ragazzi di via Panisperna
(tranne uno, Edoardo Amaldi). Bruno Rossi,
il maestro di Riccardo Giacconi. Da Torino
subito dopo la guerra partirono tre giovani
biologi, allievi di Giuseppe Levi, destinati
a vincere, negli Usa, altrettanti premi Nobel:
Salvatore Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi
Montalcini.
Tuttavia, dopo la guerra, quel primo flusso
in uscita sostanzialmente finì.
Iniziò una breve eppure densa stagione di
rinascita. Durante la quale molti scienziati
italiani partivano, ma molti scienziati stranieri
venivano nel nostro paese: basti ricordare
il premio Nobel inglese Boris Chain e lo
svizzero Daniel Bovet, che otterrà il Nobel
per attività di ricerca svolte in Italia.
Insomma, l'Italia sembrava un paese come
gli altri, in Occidente, desideroso di ricostruire
la sua economia post-bellica con la formula
dello "sviluppo attraverso la ricerca".
È impossibile, in questo spazio, ricostruire
con sufficiente completezza quella stagione.
Ma basta ricordare l'impulso che alla Fisica
italiana conferisce Edoardo Amaldi, quello
che alla Chimica italiana conferisce Giulio
Natta, quello che alla Biologia conferisce
Adriano Buzzati-Traverso.
E questo mentre l'industria italiana riusciva
a competere innovando nei settori della Meccanica,
della Chimica, dell'Elettronica, della Farmaceutica.
Poi, all'inizio degli anni '60, la stagione
positiva è finita.
Nel conflitto politico ed economico ha prevalso nel nostro Paese il composito
gruppo di chi riteneva un lusso la ricerca
scientifica e perdente la competizione economica
nei settori di punta. Meglio far svolgere
la ricerca scientifica ad altri e ritagliare
all'industria italiana una nicchia nel campo,
dei beni di largo consumo a bassa intensità
di innovazione.
Risultati di questo conflitto storico sono
stati: la progressiva erosione della grande
industria italiana, ormai virtualmente scomparsa;
lo sviluppo frenato della scienza nelle Università
e nei centri pubblici di ricerca; la mancanza
quasi assoluta di ricerca scientifica e sviluppo
tecnologico nelle industrie.
L'insieme di questi componenti ha alimentato
la "fuga dei cervelli".
L'Università italiana formava (spesso bene)
giovani aspiranti ricercatori che la stessa
Università, gli Enti pubblici di ricerca
e, soprattutto, l'industria non assorbiva.
E così questi giovani hanno iniziato ad andare
all'estero, dove hanno trovato le migliore
opportunità per valorizzare il loro sapere.
L'Italia ha continuato e continua a investire
per formare scienziati che poi hanno lavorato
e tuttora lavorano allo sviluppo dei Paesi
competitori.
I cervelli più significativi “ fuggiti” all’estero.
Il più famoso è, certo, Riccardo Giacconi.
Premio Nobel per la Fisica 2002 e "cervello
in fuga"
dall'Italia 1954. Riccardo Giacconi è nato
a Genova, si è laureato a Milano ma è solo
negli Stati Uniti d'America che, verso la
metà degli anni '50 del XX secolo, ha avuto
la possibilità di lavorare e cogliere risultati
giudicati di assoluta eccellenza dalla Reale
Accademia delle scienze di Stoccolma.
Altri casi di cervelli in “ fuga” .
È il caso di Ignazio Marino, il cardiochirurgo
che lasciò Palermo per gli Stati Uniti dopo
uno scontro, perduto, con la burocrazia e
la politica locale . Oggi è parlamentare
del PD.
Ed è il caso di Giovanni Bignami, fisico
e direttore scientifico dell'Agenzia Spaziale
Italiana, che ha lasciato l'Italia per la Francia, vittima
di un'interpretazione piuttosto radicale
e autolesionista dello spoils system .
Altri, la maggioranza, sono andati e continuano
ad andare via senza suscitare clamore. In
genere, sono giovani che riescono a valorizzare altrove
quel sapere che hanno coltivato in Italia.
Non sappiamo, esattamente, quanti siano.
Ma sappiamo che i "cervelli in fuga"
dall'Italia stanno dando un contributo rilevante
allo sviluppo della scienza e, quindi, della
tecnoscienza e, quindi, dell'economia dei
paesi ospiti (leggi Stati Uniti, soprattutto,
Gran Bretagna, Germania, Francia).
Ma perché l'Italia acconsente a questo drenaggio
dei suoi cervelli? E quale prezzo paga per
questa sua distrazione?
Cominciamo dalla seconda domanda. La più
facile. Non prima, però, di aver premesso
che
la scienza è un'impresa umana che non conosce
frontiere. E che la cultura scientifica di
un paese aumenta se il flusso di scienziati
in uscita e in entrata è continuo e robusto.
Naturalmente il flusso deve essere bidirezionale.
Se il movimento dei cervelli è unidirezionale
e dopo la partenza non c'è ritorno, allora
lo scambio salutare diventa dannoso drenaggio.
La differenza tra l'Italia e gran parte dei
Paesi avanzati è questa: da noi il flusso
di scienziati è quasi interamente in uscita
e, per di più, chi parte raramente ha in
tasca il biglietto di ritorno.
Più semplicemente: l'Italia esporta gratuitamente
cervelli.
Le conseguenze culturali di questa singolare
esportazione sono certo gravi, anche se difficili
da quantificare. Ma quelle economiche sono
sotto gli occhi di tutti. Il nostro Paese
è l'unico, tra i circa trenta dell'Ocse (l'organizzazione
dei Paesi più industrializzati), ad avere
un deficit strutturale nella bilancia dei
pagamenti relativa alle tecnologie più avanzate.
E la forbice aumenta non solo nei confronti
dei Paesi più avanzati, ma anche dei Paesi
emergenti.
La fuga degli italici cervelli è connessa
con la scarsa competitività del Paese nei
settori economici di punta.
Per tutti questi motivi - e altri ancora
- l'Italia ha visto rapidamente diminuire
la sua competitività complessiva negli ultimi
anni.
Cosicché la "fuga dei cervelli"
è parte di un problema diventato di priorità
assoluta per il nostro paese: possiamo continuare
nel nostro originale percorso di "sviluppo
senza ricerca"?
In questa domanda c'è racchiusa parte della
risposta al nostro primo quesito: perché
l'Italia acconsente a che altri paesi drenino
i suoi cervelli e ne ricavino vantaggio?
Sicuramente gli ultimi provvedimenti assunti
dal governo Berlusconi sui tagli alla ricerca,
all’università ed alla cultura aggraverà la situazione.
E’ noto infatti che altri paesi europei ,
pur tagliando costi dello Stato per far fronte
alla crisi economica di questa fase , hanno
invece aumentato le risorse in ricerca, per
l’università e la cultura.
Ed infine uno dei motivi della fuga dei cervelli
è la questione del merito.
Nel nostro bel paese il merito stenta a diventare il pass per
l’assunzione. Vale, purtroppo , ancora il
criterio della conoscenza e della raccomandazione
di “ italica “ memoria.
Molti in questo periodo sono i giovani che non trovano sbocchi professionali nel nostro
paese e che invece superano i colloqui di
assunzione nei paesi europei pur non avendo
conoscenze o raccomandazioni.
Di questo fenomeno se ne trova traccia sia
nelle radio ( quella del Sole 24 ore in particolare)
che nel web.
Insomma sembra che il nostro paese abbia
rinunciato al futuro. Purtroppo non è nemmeno
in grado di preservare il passato. Emblematico
è il crollo di una Domus a Pompei.
Necessita una svolta forte e netta. Oggi
non la si vede ma dobbiamo essere ottimisti.
Gian Carlo Storti
storti@welfareitalia.it
Cremona 24 novembre 2010
 
|