15 Settembre, 2002
Tanto sconcerto, ma il quadro è abbastanza chiaro
Andreotti: Il giorno dopo, passato lo sconcerto, il quadro è abbastanza chiaro.
Tanto sconcerto, ma il quadro è abbastanza chiaro
di Gianni Cipriani (da l'Unità del 19-11-02)
Il giorno dopo, passato lo sconcerto, il quadro è abbastanza chiaro. Guardando bene le due precedenti sentenze di assoluzione (il primo grado di Palermo e Perugia) erano emersi elementi così gravi che non avrebbero consentito tutto lo sconcerto di queste ore per la sentenza di Perugia. Compresi i passaggi in cui si sosteneva che Andreotti – ad esempio a proposito del suo legame con i cugini Salvo, mafiosi riconosciuti – aveva mentito dicendo di non conoscerli. Bugie che in altri sistemi democratici, ad esempio gli Stati Uniti, sarebbero stati più che sufficienti per il depennamento dalla vita politica attiva.
Tra l’altro, negli altri due processi, le assoluzioni di Andreotti sono avvenute con motivazioni tali da richiamare la vecchia formula della “insufficienza di prove”. In nessun caso era emersa la figura di un perseguitato per motivi politici. Anzi. E quindi è ragionevole pensare che in un processo con un quadro probatorio complicato, dove accanto a “buchi” ci sono anche riscontri oggettivi, un’assoluzione possa diventare condanna e viceversa. Ed infatti, a 24 ore dalla sentenza, l’indignazione del mondo politico si è attenuata, lasciando spazio a quella di coloro i quali avevano sostenuto le ragioni dell’accusa. Come Rosita Pecorelli, sorella del direttore di “Op” e degli avvocati Alessandro Benedetti e Alfredo Galasso, parti civili nel dibattimento di Perugia. “Sono ancora molto confusa, ma sono anche abbastanza indignata – ha detto Rosita Pecorelli - Ci si poteva aspettare un po’ di marasma dopo la condanna, ma non che tutti si sarebbero stretti così attorno al personaggio, e si sono tutti completamente dimenticati di Mino”.
Durissimo anche il commento di Alessandro Benedetti: “Esprimo tutto il mio sdegno per le dichiarazioni rilasciate da numerosi uomini politici e, soprattutto, uomini delle istituzioni, che senza conoscere neppure uno straccio di pagina del processo si sono permessi di offendere ed insultare la corte d’Assise d’appello di Perugia. Persone che ringrazio perché hanno dimostrato di essere uomini liberi e magistrati indipendenti, che hanno avuto riguardo esclusivamente per la loro coscienza e per la verità, per come è emersa nel processo”. L’avvocato Benedetti cita lo storico Nicola Tranfaglia: “Ha ragione quando ha detto che solo chi non conosceva i documenti può essere stupito per l’esito del processo. Tanto più che, nel processo di appello, ci sono state alcune novità rispetto al primo grado. Elementi da noi scoperti e portati all’attenzione della Corte. Aspetto le motivazioni, ma credo che questa nuova ricostruzione abbia influito”.
Infatti, durante il dibattimento, l’avvocato Benedetti ha dimostrato che i due articoli più “compromettenti” sul caso Moro, furono scritti da Mino Pecorelli immediatamente dopo un incontro riservato da questi avuto con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un risultato possibile attraverso un esame incrociato delle agende di Pecorelli, delle testimonianze del maresciallo in candela e dell’esame dei tempi tecnici tra stampa e distribuzione della rivista. Una prova ulteriore della qualità delle informazioni di Pecorelli, che provenivano da una forte di prim’ordine, uno dei pochi a conoscere davvero il caso Moro e i retroscena della lotta alle Brigate Rosse. “Non è un caso – spiega l’avvocato Alessandro Benedetti – che in quegli articoli non solo c’erano scritte notizie clamorose, ma che nessuno poi tirò fuori per dieci anni. Pecorelli, ad esempio, sosteneva che ad assassinare Aldo Moro non era stato Gallinari, come per molto tempo fu detto, ma Moretti, da lui chiamato con il nome di battaglia, Maurizio. Aveva detto che il memoriale era incompleto, quando tutti sostenevano il contrario. Non solo. Quando Buscetta ha fatto la sua famosa deposizione, nel corso delle indagini sono emersi numerosi incontri rispetto, appunto, al caso Moro, ai retroscena, all’attivazione di mafia e banda della Magliana.
Tutte cose che Buscetta non poteva sapere. Riscontri alle affermazioni dei pentiti ce ne sono molti. Basta guardare le motivazioni con cui in primo grado gli imputati sono stati assolti per vedere, ad ogni modo, che il quadro che emergeva non era poi così inconsistente. Ed infatti ora il giudizio è stato ribaltato sul profilo delle responsabilità individuali”.
Già, ma cosa diceva la sentenza di primo grado? Ad esempio che Buscetta era comunque attendibile. Anche se, avendo riferito “de relato”, poteva sempre aver saputo cose inesatte. E gli altri collaboratori? Avevano detto i giudici di primo grado: “Il giudizio di attendibilità è fatto proprio da questa corte non essendo sorti, nel corso di questo processo, seri elementi di fatto da inficiare quel giudizio di attendibilità”. Quindi anche allora era stato stabilito che si era trattato di un processo basato su testimoni attendibili.
Mentre Andreotti – diceva sempre la corte – aveva cercato di inquinare le prove ed aveva mentito. Come, ad esempio, quando aveva cercato di non far dire ad un testimone che Rovelli gli aveva dato alcuni assegni. Era stato detto nell’altra sentenza: “Il comportamento di Giulio Andreotti, a parere del collegio, trova la sua logica spiegazione non nel desiderio di evitare la pubblicità di un suo coinvolgimento nella vicenda, come da lui sostenuto, ma perché sapeva che instaurare un collegamento tra gli assegni ricevuti da Nino Rovelli e la morte di Carmine Pecorelli era per lui un rischio che non poteva correre perché a base della corresponsione degli assegni vi era un suo comportamento illecito”.
Andreotti, anche a Perugia, aveva smentito i suoi rapporti con i cugini Salvo e, anche, di aver regalato un vassoio d’argento in occasione delle nozze di una delle figlie degli esattori: “Ritiene la corte che, malgrado le secche e reiterate smentite di Giulio Andreotti, il regalo di nozze, consistente in un vassoio d’argento, è stato fatto. (…) tra la famiglia dei cugini Nino e Ignazio Salvo e Giulio Andreotti vi erano rapporti tali da giustificare da un lato la spedizione della partecipazione a Giulio Andreotti del celebrando matrimonio e dall’altro il piacere di Giulio Andreotti di ricambiare tale partecipazione con un regalo”. Altra bugia del senatore a vita, dunque.
Peggio ancora, nel processo di primo grado, era stato trattato Claudio Vitalone, all’epoca dei fatti magistrato della Repubblica, ma descritto più come attento esecutori degli interessi andreottiani che altro. Le pagine di censura – in primo grado – erano tantissime. Ma le più gravi riguardano i contatti diretti di Vitalone ed esponenti della Banda della Magliana. La corte aveva dato per certo che l’ex pm aveva regalato un anello a Fabiola Moretti, donna di uno dei capi della banda, ed aveva avuto due incontri con il boss Renato De Pedis. Aveva scritto la corte: «Essi sono "uno schizzo di fango" che rimarrà attaccato alla persona di Claudio Vitalone non trovando alcuna giustificazione, se non in rapporti a dir poco non chiari, che un magistrato della repubblica italiana, un senatore che ha rappresentato l’Italia all’estero intrattenga rapporti con esponenti di spicco della malavita organizzata romana».
Insomma, quelle pagine non sono esattamente la descrizione delle attività benefiche di un gruppo di padri della patria. E allora perché l’assoluzione? Ritenne allora la Corte che nel processo non era stato dimostrato a sufficienza il ruolo di Cosa Nostra nell’omicidio. E se non era dimostrata la presenza della mafia, non si poteva sostenere che Andreotti si fosse rivolto alla mafia. Così era stato assolto Andreotti: “Sempre per mancanza di idonea prova, non essendo emerso alcun coinvolgimento di Cosa Nostra nell’organizzazione dell’omicidio, né alcun elemento probatorio, al di là della sussistenza di un valido movente, che colleghi Giulio Andreotti alla banda della Magliana e all’omicidio di Carmine Pecorelli, Giulio Andreotti va assolto per non aver commesso il fatto”. Come dire che il movente c’era.
Ora bisogna aspettare le motivazioni, ma nulla di più facile che la Corte d’assise d’Appello abbia rovesciato il ragionamento: forse la Cupola mafiosa non c’entra. Ma i mafiosi si mobilitarono per fare il “favore” chiesto da Andreotti. Insomma una “correzione”. Che può essere condivisa o no. Ma sicuramente chi conosceva le carte processuali forse è rimasto sorpreso. Ma non scandalizzato.
Sempre per mancanza di idonea prova, non essendo emerso alcun coinvolgimento di Cosa Nostra nell’organizzazione dell’omicidio, né alcun elemento probatorio, al di là della sussistenza di un valido movente, che colleghi Giulio Andreotti alla banda della Magliana e all’omicidio di Carmine Pecorelli, Giulio Andreotti va assolto per non aver commesso il fatto.
Pur sussistendo un valido motivo e la prova di rapporti tra Claudio Vitalone e la banda della Magliana in persona di Enrico de Pedis, i predetti elementi probatori non sono univoci e non permettono di ritenere riscontrata la chiamata in correità fatta nei suoi confronti. Claudio Vitalone va, pertanto, assolto dal delitto a lui ascritto per non avere commesso il fatto.
 
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