15 Settembre, 2002
Memorabile Scena Muta
di Antonio Padellaro - da L'Unita' del 27-11-02
Adesso, tutto il mondo, dal Papa a George W. Bush, sarà autorizzato a chiedersi che cosa diavolo nasconda Silvio Berlusconi, che cosa ci sia di tanto tremendo da costringerlo a tenere la bocca chiusa davanti a un tribunale della repubblica.
Adesso, non soltanto l’opposizione più arcigna e nemica, ma i tanti italiani che gli hanno dato il voto, fidando in lui, convinti della sua buona fede, persuasi dalla teoria della persecuzione giudiziaria ai suoi danni, adesso anche costoro resteranno perplessi, molto perplessi.
Adesso, tutti i bravi cittadini osservanti delle leggi, saranno colti da un antipatico dubbio: perché mai un uomo così per bene, un uomo così innocente, un uomo così al di sopra di ogni sospetto, come mai quest’uomo, a cui il popolo sovrano ha affidato la guida della nazione, ha deciso di tacere? Come mai questo personaggio, ricco come un Creso e ogni giorno più potente, uno che nulla dovrebbe temere da nessuno, si è improvvisamente ammutolito? E come si spiega che un colosso della politica e degli affari decida di nascondersi dietro un articolo del codice, balbettando quella formuletta che al cinema abbiamo sempre visto spuntare sulla bocca di personaggi, in genere, poco specchiati.
Ha detto: «mi avvalgo della facoltà di non rispondere», e lo ha detto per evitare di essere interrogato, come testimone, in un processo di mafia. Sì, in un processo di mafia.
La migliore delle ipotesi, la più garantista, la più innocentista, porta a dire che questa volta, gli astuti legali, i superavvocati dalle superparcelle, i difensori compensati con il seggio parlamentare, insomma questi giganti del diritto hanno suggerito al loro assistito il consiglio sbagliato, il consiglio peggiore, il consiglio che all’uomo dell’immagine, a colui che ha costruito una fortuna immensa sulla parola mai nessuno dovrebbe dare.
Gli hanno detto: è meglio che non risponda. Lui ha eseguito.
Guardiamo le cose nell’ottica più favorevole all’illustre testimone. Si dirà: Berlusconi non si fida dei magistrati, teme il complotto delle toghe rosse, l’estromissione da palazzo Chigi attraverso la via giudiziaria. Nei processi nei quali è imputato, lui non vuole arrivare a sentenza perché è convinto che sarà sicuramente una sentenza sfavorevole, una sentenza di condanna. Per questo ha fatto approvare la legge Cirami. Per questo, i suoi onorevoli avvocati stanno già usando il legittimo sospetto come la macchina del tempo rallentato. Cercando di spostare i processi da Milano a Brescia. E poi da Brescia a Perugia. E poi da Perugia a chissà dove.
Ma questa volta il presidente - padrone non era imputato, non sedeva sul banco degli accusati, non doveva difendersi da addebiti infamanti.
No, questa volta Berlusconi è stato chiamato da un tribunale come persona informata dei fatti. E i fatti si riferiscono a un processo e a una vicenda che riguardano un suo braccio destro, un suo caro amico: Marcello Dell’Utri.
Sì, il bibliofilo Dell’Utri, l’uomo che ha creato dal nulla Publitalia e che attraverso la rete dei pubblicitari sparsi per il paese ha messo le basi organizzative di un fenomeno politico mediatico senza precedenti: Forza Italia, il partito-azienda.
Dell’Utri è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Lui parla di accuse assurde. Che ha l’unica colpa di essere siciliano e amico di Berlusconi. E, infatti, i giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo chiedono di ascoltare il presidente del Consiglio, sicuri che possa fornire elementi utili di conoscenza al collegio giudicante.
Berlusconi si fa pregare. Fissa un paio di appuntamenti. Poi li disdice adducendo importanti impegni internazionali. Finalmente i suoi avvocati fanno sapere che il loro cliente è pronto, ma che il tribunale dovrà cortesemente trasferirsi da Palermo a palazzo Chigi. Un privilegio consentito dal particolare rango del testimone, a cui le perfide toghe aggiungono, di loro, un rispettoso extra: l’udienza si terrà a porte chiuse e i giornalisti resteranno in attesa, giù per la strada. Il pm Ingroia riferirà poi che Berlusconi appariva nervoso, molto nervoso.
Forse perché si era reso conto della trappola in cui lo stavano cacciando i suoi avvocati. Forse, chissà, perché il suo istinto gli avrebbe suggerito di trasformare quella testimonianza obbligata in una formidabile, sensazionale arringa contro il giustizialismo perverso che costringe il primo ministro pensoso dei destini del pianeta, lui che dialoga ogni giorno con George, Tony e Vladimir, a rispondere agli insulsi quesiti di magistrati malati di protagonismo.
Quando e come aveva conosciuto Dell’Utri? E Mangano, lo stalliere di Arcore e di Cosa Nostra? E il mafioso Gaetano Cinà. E il faccendiere Rapisarda?
Domande che si era già sentito rivolgere decine di volte. Risposte che non avrebbero potuto creargli imbarazzo. Potevano forse preoccuparlo gli interrogativi sull’origine patrimoniale della Fininvest, i necessari approfondimenti sull’arrivo, prima del 1978, di quei cospicui capitali della cui origine nessuno ha saputo finora fornire una risposta convincente?
Ma cosa poteva esservi di tanto oscuro in quella improvvisa e fortunata impennata finanziaria, da giustificare quella imbarazzante scena muta? Qualcuno ha detto che la facoltà di non rispondere è un diritto che spetta a tutti i normali cittadini, e quindi anche a Berlusconi. Che però è il presidente del Consiglio. Che quindi dovrebbe agevolare e non ostacolare il corso della giustizia. E del cui passato nessuno dovrebbe mai e per nessun motivo al mondo dover dubitare.
 
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