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15 Settembre, 2002
La resa dei conti: fatti, cifre e impegni non mantenuti del governo Berlusconi
Presentazione del libro con Ariemma, Biondi, Pizzetti e Salvati

Comitato ‘Cremona per l’Ulivo’
Aderente alla rete nazionale dei Cittadini per l’Ulivo

Invito alla presentazione del libro:

“ LA RESA DEI CONTI ”
2001-2006
fatti, cifre e impegni non mantenuti del governo Berlusconi
(Editori Riuniti)

LUNEDI’ 3 APRILE 2006 ALLE ORE 17
in sala Rodi, Piazza Giovanni XXIII a Cremona

Saranno presenti:

IGINIO ARIEMMA
Curatore dell’opera e vice presidente della rete nazionale CpU

GIOVANNI BIONDI
Assessore provinciale e candidato alla Camera nella Lista dell’Ulivo

LUCIANO PIZZETTI
Consigliere Regione Lombardia e segretario regionale DS

MICHELE SALVATI
Economista ed editorialista

*****

LA RESA DEI CONTI
2001-2006 - Fatti, cifre ed impegni non mantenuti del governo Berlusconi
A cura di Iginio Ariemma
Editori Riuniti

INTRODUZIONE

Il vaccino

Questo libro è la conclusione di un lungo viaggio, durato cinque anni. Quando è sorto il governo di centro destra di Berlusconi, nella primavera del 2001, un gruppo di amici, di diversa competenza nei campi della politica economica e sociale, che opera in enti pubblici e privati e in istituti di ricerca, ha deciso di analizzare in modo sistematico l’attività governativa. Da questo lavoro collettivo è uscito prima “Un anno in rosso” nella primavera del 2002, poi “Alla deriva”, nella primavera del 2003. Nel 2004 e nel 2005 ci siamo fermati, anche perché la previsione maggiore che avevamo avanzato nel libro, cioè il dissesto dei conti pubblici, la possibile crisi e le dimissioni del ministro Tremonti, si è avverata. Tuttavia abbiamo continuato a trovarci e a procedere al monitoraggio delle iniziative del governo e del Parlamento e a raccogliere dati e materiali. Nel 2006, a poche settimane dalle elezioni politiche che rinnovano il Parlamento e la maggioranza, tiriamo le fila. Nel lavoro abbiamo sempre cercato di non essere pregiudiziali e di essere severi e rigorosi, innanzitutto verso noi stessi e i nostri orientamenti politici, di essere scrupolosi nelle cifre, nei calcoli e nella documentazione, di concedere nessun spazio alla polemica gratuita, di usare un linguaggio per quanto possibile semplice e diretto, anche al fine di favorire non soltanto la diffusione delle nostre analisi e idee, ma anche la critica più ampia possibile. Spetta al lettore dire se ci siamo riusciti.

Vicini allo zero

“Dove ci porta Berlusconi?”, questo l’ interrogativo da cui siamo partiti. E la politica dei primi cento giorni, varata prima dell’estate del 2001, è stato il primo esame a cui abbiamo sottoposto il governo. I primi cento giorni sono decisivi per qualsiasi governo: perché si delineano gli intendimenti futuri, al momento della luna di miele, in cui il governo è più libero, ha meno vincoli rispetto al passato e all’avvenire, e ancora fresco è il rapporto con l’elettorato che l’ha votato. Berlusconi si presentò con una mole veramente notevole e significativa di provvedimenti: abolizione totale della tassa di successione, condono per i capitali rientrati dall’estero e condono per il sommerso, generose agevolazioni fiscali alle imprese, annunci di rilancio faraonico delle infrastrutture e delle grandi opere pubbliche, minacce di privatizzazioni a largo raggio, specialmente nei settori sociali, richiesta al Parlamento di una concessione quasi illimitata di deleghe all’esecutivo: sul fisco, sulla previdenza, sul lavoro, sulla scuola e così via.
Alla radice di questa politica c’era un modo di pensare abbastanza semplice, anche se poco originale, perché cercava di mutuare esperienze avvenute in altri Paesi, in particolare quella della destra repubblicana statunitense, sotto la leadership di Ronald Reagan. Occorreva – questo il succo - puntare sull’offerta ( supply side), lanciare al galoppo gli “spiriti animali” capitalistici se si voleva cambiare e far progredire il Paese. A tale scopo bisognava abbassare le tasse, innanzitutto dei ceti più ricchi e delle imprese che così potevano investire. Gli sgravi fiscali, producendo una iniezione vitale di spiriti imprenditoriali, avrebbero innescato, quasi naturalmente, una forte accelerazione della crescita economica e quindi avrebbero creato essi stessi le nuove e aggiuntive basi imponibili per dare più risorse alla finanza pubblica. Accanto a ciò andavano eliminati i vincoli che ostacolavano il fare impresa, a partire da quelli, sindacali, inerenti al lavoro. Era una ricetta palesemente e drasticamente liberista.
Sulla base di tale assunto Berlusconi e Tremonti, per tutto il 2001, ma anche dopo, nonostante l’attacco terroristico alle “Torri gemelle” dell’11 settembre, dichiararono che era non soltanto auspicabile, ma possibile una crescita dell’economia superiore al 3% all’anno. Tanto è vero che si parlò (ne parlò anche Antonio Fazio, il governatore della Banca d’Italia) di un possibile nuovo miracolo economico.
Ma il galoppo non c’è stato. Il capitalismo italiano, che ha al suo interno forti energie vitali, è stato costretto ad arrancare, come se, per mancanza di indirizzi chiari, fosse affetto da insufficienza respiratoria e da bolsaggine, L’unica cavalcata l’hanno compiuta non gli investimenti produttivi, ma le rendite, soprattutto quella immobiliare, anche perché aiutata da generosi aiuti fiscali sulle plusvalenze. E in particolare gli autonominatosi “furbetti del quartierino”. Nei cinque anni della legislatura il tasso di crescita effettiva è stato davvero superiore al 3% e precisamente il 3,7%, ma cumulativamente, cioè sommando gli anni dal 2001 al 2005. In realtà abbiamo avuto una crescita annua media dell’0,7% e due recessioni tecniche, cioè un calo del PIL, a distanza ravvicinata. Si calcola che nel quinquennio si siano persi , rispetto a quello precedente, almeno 5,5 punti di PIL che è una cifra enorme.
Crediamo sia giusto ricercare indicatori diversi e più complessi, relativi alla qualità generale della vita, che non si limitino al denaro e all’andamento del PIL, ma è indubbio che senza crescita economica diventa velleitario eliminare o almeno ridurre gli aspetti più negativi della società italiana, a partire dal fatto che è una società oramai “grassa” e corporativa che tende più all’autoconservazione che all’innovazione. Con una crescita al di sotto dell’1% soprattutto i giovani, le nuove generazioni non hanno spazio per affermarsi.

Cina versus Italia?

Perché in questi anni si è verificata una crescita così bassa? La tesi ufficiale, soprattutto da parte del ministro dell’economia, Giulio Tremonti, è che la colpa principale del mancato sviluppo vada addossata alle difficoltà internazionali. In un primo tempo sotto tiro è stato messo il terrorismo, che, a partire dall’attentato del 11 settembre, avrebbe sconvolto il quadro dell’economia mondiale. Poi , dal momento che neppure la crescita USA si era arrestata, i bersagli sono diventati l’euro e più in generale la politica europea che non ha saputo dare una risposta persuasiva ai nuovi processi di globalizzazione, e soprattutto la Cina che ha sottratto consistenti quote di mercato alla produzione nazionale.
Non c’è motivo di dubitare che i mutamenti a livello europeo e internazionale abbiano generato problemi e difficoltà al sistema produttivo Italiano. Il nostro Paese perde quote sul piano del commercio internazionale, nel rapporto tra importazioni ed esportazioni. Ma se si procede, come noi abbiamo fatto, a qualche confronto internazionale, a cominciare dai Paesi europei, anche quelli meno forti del nostro, la spiegazione non soltanto appare incompleta e parziale, ma talmente insufficiente da sembrare assolutoria per il governo in carica. Invece è proprio qui, negli orientamenti e nelle politiche del governo, che occorre scavare per comprendere come mai la crescita dell’economia del nostro Paese è notevolmente inferiore non soltanto a quella degli USA ma anche a quella di quasi tutti i Paesi europei, sia quelli nuovi ed emergenti dell’Est, sia quelli consolidati come la Germania o la Francia o il Regno Unito o la Spagna. In altre parole noi siamo convinti che il governo Berlusconi abbia commesso fin dall’inizio scelte di politica economica sbagliate, che invece di ridurre hanno aggravato i “rischi fatali” di cui parla Tremonti nel suo libro più recente.
Il ministro dell’Economia si è reso conto (altro discorso si dovrebbe svolgere sul permanente ottimismo di maniera di Silvio Berlusconi) che il nostro Paese è immerso in una crisi non congiunturale, ma strutturale; e che i processi di globalizzazione e l’ingresso nel mercato mondiale di Paesi di grandissima dimensione e di alta potenzialità, anche culturale, come la Cina e l’India, collocano l’Europa e in particolare l’Italia in una situazione nuova sul piano della competitività internazionale e della divisione del lavoro. Ma quali sono state le politiche del governo di centro destra per fronteggiare tale situazione? Per allontanare lo spettro del declino o il crepuscolo, come hanno scritto il Time e l’Economist. Per fermare la perdita periodica, anno per anno, di competitività del nostro sistema produttivo. Per aiutare l’industria manifatturiera a ricercare un nuovo e più elevato modello di specializzazione produttiva.
Qui casca l’asino. Per due ragioni sostanziali. La prima ragione: la Cina non può essere considerata soltanto uno spauracchio, “una drammatica negatività” dice Tremonti, ma anche una opportunità. Ha ragione Carlo Azeglio Ciampi, il capo dello Stato, quando ricorda che è anche un grande, enorme mercato. E’ stato osservato che i prodotti italiani, persino l’italian food, vengono venduti a Pechino da aziende tedesche e americane. Il nostro Mezzogiorno, che, in questi anni è stato particolarmente tartassato dai prevalenti orientamenti vetero-nordisti della leadership governativa, se attrezzato nel modo dovuto, potrebbe trarre notevole slancio dallo sviluppo orientale e asiatico, come insegna la storia secolare del Paese. Purtroppo sono stati persi anni preziosi, in cui la velocità del cambiamento non ha paragoni con il passato. Ma di chi è la colpa?
La seconda ragione : ci sono imprese nazionali che hanno saputo adeguarsi, che hanno investito nella qualità dei prodotti e dei processi, che hanno conquistato nuovi spazi di mercato anche nei Paesi asiatici. La nostra è una società, che ha tanti limiti, ma vitale. Tuttavia è indubbio che per una sfida di questa portata il capitalismo italiano, da solo, non ce la fa. Da anni è in crisi, che ha colpito in particolare la grande industria. Da anni non c’è un establishment che abbia la forza di proporre un disegno generale di sviluppo del Paese e di darsi regole, anche etiche, condivise e rispettate, come dimostra la torbida e drammatica vicenda di scalate bancarie, di aggiotaggio e di insider trading che ha coinvolto anche il governatore della Banca d’Italia. Vicenda che, tuttavia, ha il suo fondamento in una scelta economica precisa: il protezionismo. Anche a questo proposito che cosa ha fatto il governo Berlusconi? Verrebbe da rispondere:si è curato del perseguimento degli interessi particolari di questa o quella forza politica della maggioranza, di questo o quel ministro e del premier.
Tutto questo ragionamento diventa più limpido e concreto se si prendono in esame le linee generali della politica economica governativa in questi cinque anni. E’ vero che Giulio Tremonti è rimasto fuori dal governo per oltre un anno e ci è ritornato soltanto da pochi mesi, ma Domenico Siniscalco non ne ha cambiato sostanzialmente gli indirizzi. Tra l’altro la sostituzione tra i due, alla fine di settembre 2005 è, per alcuni aspetti, ancora oscura: perché Fini, Casini e Follini, che nel 2004 avevano fatto un durissimo braccio di ferro con Tremonti per farlo dimettere, hanno acconsentito al suo ritorno, a capo dell’Economia, senza battere ciglio? Perché la Confindustria che fino al giorno prima aveva chiesto, quasi apertamente, le elezioni anticipate poi è stata zitta? E tutto in meno di 24 ore, dopo che, inizialmente, il premier aveva dichiarato che avrebbe assunto l’interim.
Nel volume il lettore troverà in modo più completo e argomentato le motivazioni che stanno alla base delle nostre valutazioni e i fatti e le cifre che le supportano. Qui ci limitiamo ad indicarne i punti fondamentali.

Un politica europea claudicante

Il governo Berlusconi ha condotto una politica europea esitante, claudicante e subalterna. Il ministro Renato Ruggero si è dimesso per questo. L’Unione Europea è stata vista dalla maggioranza di centro destra come problema, mai come opportunità politica. Perciò, all’interno di essa sono via via prevalse posizioni che hanno indebolito il peso dell’Italia in Europa e dell’Unione europea nei confronti degli altri Paesi e degli stessi Stati Uniti. Ci riferiamo a cose note: l’appiattimento sugli Usa a proposito della guerra in Irak, anche se adesso a pochi mesi dalle elezioni si tenta di rivendicare una autonomia di cui nessuno si era mai accorto; il permanente balbettio euroscettico; la continua messa in discussione del patto di stabilità europeo, cercando di sfuggire alle sue regole, sia attraverso la rinegoziazione sia interpretandolo nel modo più morbido possibile. Non c’è stata alcuna pressione da parte dell’Italia per la costruzione di un governo economico europeo, che affiancasse la politica monetaria comune.
Anche in rapporto all’euro, considerato dal governo come uno dei responsabili principali della crisi economica e sociale, tante sono le pecche. Perché se è vero che l’industria nazionale non ha saputo adattarsi rapidamente alle nuove regole del gioco monetario, è altrettanto vero che il governo di centro destra non ha fatto nulla per favorire l’adattamento del sistema produttivo e soprattutto per aiutare le famiglie meno agiate che potevano trarre beneficio dai più bassi tassi di interesse e dal consolidamento del debito pubblico che l’euro comportava. Invece il debito pubblico è cresciuto di parecchio, il potere di acquisto delle famiglie a reddito fisso è diminuito, e si è verificata una corsa senza controllo al rialzo speculativo dei prezzi. Se al Paese è stata evitata una pericolosa deriva finanziaria, economica e sociale dalle imprevedibili conseguenze ciò è dipeso in gran parte alla stabilità della moneta unica europea.

Una finanza che si avvita su stessa

La politica finanziaria del governo è stata contrassegnata da una parte da un evidente e proclamato lassismo, soprattutto in campo tributario. Condoni quasi su tutto, concordati preventivi, una tantum a iosa. Nel volume pubblichiamo l’impressionante elenco, ufficiale, delle sanatorie tuttora vigente, a testimonianza della sua ovvia incidenza sulla sfiducia e infedeltà dei contribuenti. Dall’altra parte il segno è dato dalla incapacità di contenere e qualificare la spesa pubblica. Nel campo pensionistico che è la spesa corrente più robusta, le uniche misure valide sono quelle assunte prima dal governo Dini e poi da quello Prodi; l’attuale governo ha rinviato gli effetti delle proprie riforme previdenziali , molto discutibili, a dopo le elezioni, a partire dal 2008.
Il risultato è che il debito pubblico, dopo i primi anni di modesta discesa, ha ripreso a salire in percentuale del PIL, che l’avanzo primario che con il centro sinistra era al 5% si è quasi del tutto azzerato, che praticamente non ci sono risorse per gli investimenti pubblici fondamentali, tanto meno per coprire le minori entrate, effetto della tanto strombazzata riforma fiscale. Si è fatto un così largo uso della cosiddetta finanza creativa che, alla fine, si è impacciata e avvitata su stessa.

Più disuguali

E’ nostra convinzione che una mancanza di politica dei redditi abbia prodotto non soltanto una iniqua e cattiva distribuzione del reddito e pertanto abbia accresciuto le disuguaglianze, in modo tale da provocare germi di frattura sociale, ma abbia anche ostacolato lo sviluppo dell’economia. Coesione sociale e innovazione sono entrambe necessarie come volani dello sviluppo. In un regime di forte disuguaglianza chi ha poco non ha o ha meno possibilità di realizzare le proprio capacità e il proprio talento (soprattutto i giovani e tra questi quelli meno abbienti) e, in secondo luogo, viene favorita la rendita , cioè chi già ha un proprio patrimonio.
In questi anni , secondo l’indagine della Banca d’Italia, la ricchezza delle famiglie operaie è diminuita, mentre è di molto accresciuta la ricchezza patrimoniale legata alle azioni e al possesso immobiliare. Usando le categorie e la classificazione del compianto Paolo Sylos Labini, è aumentata in modo sensibile la distanza sociale tra borghesia e classe operaia e all’interno dei ceti medi tra la piccola borghesia impiegatizia a reddito fisso e la piccola borghesia relativamente autonoma, per usare la classificazione cara a Paolo Sylos Labini. E’ sufficiente considerare la crescita dei consumi di lusso; e sul versante opposto il numero crescente di famiglie di ceto medio che vivono in ristrettezza e non riescono più a risparmiare nemmeno un centesimo. La politica governativa, che non ha esercitato alcun controllo sui prezzi, che ha favorito l’elevamento delle tariffe per i servizi essenziali e dei tributi locali, che non ha restituito il drenaggio fiscale pur di fronte ad una inflazione superiore al 2% (6,5 miliardi di euro non restituiti tra il 2002 e il 2005 secondo la Banca d’Italia) ha aggravato la condizione di vita dei ceti meno abbienti. Un peso negativo lo ha avuto anche la privatizzazione strisciante del welfare state e dei servizi sociali.

Le mancate scelte strategiche

Tutti le più importanti riforme strutturali, che concernono sia liberalizzazioni, sia la tutela e lo sviluppo riformatore del welfare state e dei beni comuni, a dimensione universalista, non sono state affrontate dal governo di centro destra. O, se lo sono state, gli obiettivi sono del tutto mancati. Sviluppo del Mezzogiorno, politica di integrazione degli immigrati, contenimento della spesa previdenziale, lotta alle posizioni dominanti e alle lobby e privatizzazioni, rilancio della formazione e della ricerca e sviluppo, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, estensione del lavoro femminile e più in generale del tasso di popolazione attiva, piano delle infrastrutture e delle grandi opere pubbliche. Su ognuno di essi abbiamo inteso svolgere nel volume una verifica puntuale della politica governativa e dei risultati. Il bilancio consuntivo è desolante. Tanto più deludente, in quanto noi siamo persuasi che questi nodi strategici abbiano un doppio volto. Sono sì problemi, talora storici, ma, nello stesso tempo, sono risorse per l’intero Paese. Se viene dato ad essi un giusto abbrivio , con politiche pubbliche adeguate, possono divenire miniere di sviluppo sociale ed essere volani della crescita complessiva dell’economia nazionale.
Manca un capitolo specifico sulla politica energetica, che è, sicuramente, una priorità. Ma, in cinque anni, il governo- nonostante la legge Marzano o forse proprio a causa di essa- non ha combinato pressoché nulla.
In questo ambito in particolare colpisce l’inerzia della sedicente Casa delle Libertà nel campo della liberalizzazione dell’economia, per accrescere la concorrenza e soprattutto per normalizzare i “nuovi ingressi”. Praticamente non ha fatto nulla. Gli oligopoli sono rimasti tali e quali. Non una delle decine e decine di lobby è stata smantellata o riformata. Sta diventando opinione comune che quello del Cavaliere sia stato un governo poco o punto liberale.

Liberismo e populismo sono inconciliabili

Perché? E’ colpa dell’antico spessore conservatore della società italiana, delle resistenza che le barriere corporative oppongono ad ogni sorta di modernizzazione? Oppure ci sono anche cause specifiche che vanno ricercate nell’ intreccio –molto anomalo- che caratterizza la leadership berlusconiana? Un intreccio che lega insieme non soltanto liberismo e populismo , ma anche liberismo e protezione statale. Come era noto anche prima, liberismo e populismo si sono dimostrati incompatibili e inconciliabili. Il populismo infatti esalta al massimo grado le tendenze illiberali al qualunquismo e al rivendicazionismo anche estremistico di tipo corporativo e localistico. Nello stesso tempo la fortunata avventura imprenditoriale di Berlusconi, prima nel settore edilizio e poi nella comunicazione commerciale, basata innanzitutto sulle concessioni pubbliche e su leggi ad personam, sul duopolio televisivo e sul mercato protetto e pertanto sulla protezione da parte dello Stato, inquina e inficia significativamente il proclamato liberalismo, con la conseguenza che alla fine di esso resta soltanto la retorica o meglio l’apoteosi mediatica.
Il paradosso forse più singolare della politica italiana, che emerge con più risalto negli anni berlusconiani, è questo: il rigore dei conti pubblici e il risanamento finanziario e le liberalizzazioni in economia non sono più patrimonio della destra, come era sempre accaduto storicamente e accade ancora negli altri Paesi europei, ma sono diventati bandiere della sinistra.

Un decisionismo sempre meno democratico

Le difficoltà e i fallimenti della politica economica e sociale hanno accentuato la vocazione decisionista, in senso sempre meno democratico, del governo. Le forzature verticistiche sia nei confronti del Parlamento, sia nel rapporto con le parti sociali sono state all’ordine del giorno. Le procedure democratiche, costruite con fatica in tanti anni, nel dopoguerra, con la nuova Costituzione repubblicana, sono state vanificate o lacerate da pratiche unilaterali. Ci riferiamo non soltanto ai provvedimenti secondari, ma agli atti fondamentali della vita dello Stato: il bilancio, la legge finanziaria, l’uso smodato della decretazione d’urgenza e della delega governativa, anche nei processi riformatori fondamentali, che richiederebbero una approfondita discussione e un largo consenso. Il Parlamento , dati i continui voti di fiducia, ne esce svuotato e screditato. La concertazione sociale non conta più quasi nulla. Anche patti solenni e veri, (non come quello finto e mediatico del contratto con gli Italiani), come il “Patto per l’Italia” del 2002, stretto con le parti sociali, eccetto la CGIL, dopo la pompa iniziale, sono stati quasi subito disattesi, nei suoi aspetti essenziali. Il rapporto tra lo Stato centrale e le Regioni e le autonomie locali è andato via via peggiorando, nonostante i proclami sul federalismo. Lo stessa maggioranza governativa, mentre prometteva la devolution e nuovi poteri alle Regioni approvava in Parlamento leggi e decreti che non soltanto rinverdivano le tradizionali pratiche centralistiche, ma addirittura le accentuavano, anche nelle materie che la Costituzione affida, in modo esclusivo, agli enti territoriali.
Non c’è stato alcun tentativo di individuare le istituzioni della cooperazione tra i vari livelli di governo, nelle materie trasversali, che sono la stragrande maggioranza , in cui è quasi impossibile delimitare le competenze tra Stato e Regioni. La riforma costituzionale approvata dalla maggioranza di centro destra , che prefigura un Senato che del modello federale ha soltanto il nome, aumenterà quasi sicuramente il caos legislativo e la vertenzialità tra i poteri dello Stato. Non abbiamo nulla da aggiungere a quanto abbiamo scritto in “Alla deriva”proprio nel capitolo dedicato al federalismo tradito. “Di fronte ai problemi concreti del paese, della società e dell’economia, che richiederebbero interventi di riforma certamente di portata più modesta, ma comunque faticosi e impegnativi, - dicevamo- il centrodestra manifesta sempre più chiaramente la sua incapacità di governare. In affanno per la impossibilità di realizzare le promesse della campagna elettorale del 2001, preferisce rifugiarsi nei grandi, palingenetici disegni di riforma delle istituzioni, sui quali, con l’ausilio delle campagne mediatiche in cui indubbiamente Berlusconi eccelle, è possibile forse recuperare il consenso del proprio elettorato”.
“In altre parole – aggiungevamo- come in una partita a poker, è meglio rilanciare. E ricompattare le tensioni della maggioranza su un pacchetto che concede la devolution alla Lega Nord, il presidenzialismo ad Alleanza Nazionale (e a Berlusconi), la riforma della legge elettorale (con il ritorno dal maggioritario al proporzionale) ai centristi. Ma la coerenza complessiva del disegno riformatore, i vantaggi concreti per il paese, il centro destra non li spiega, li declama. Un salto in avanti, appunto: forse, un salto nel buio.”
Queste frasi sono state pubblicate tre anni fa’, nel febbraio 2003. Ora c’è solo da augurarsi che il referendum cancelli e annulli la riforma costituzionale approvata dalla maggioranza di centrodestra.

Il contratto disonorato

Il contratto con gli italiani è forse la più nitida metafora del berlusconismo.
In quel gesto – la firma sotto un presunto rogito davanti ad un presunto notaio, Bruno Vespa, in un finto salotto televisivo – si può cogliere , nella sua pienezza, la concezione della democrazia di Silvio Berlusconi. Una concezione non soltanto populistica, ma consumistica della democrazia. Berlusconi ha immesso qualcosa di più e di diverso nel populismo tradizionale: il suo strapotere nel campo della comunicazione ed anche le sue eccellenti e indubbie capacità di comunicatore. Ciò che conta per lui è l’annuncio, è la comunicazione, è il mondo virtuale.
Non il fatto reale. A meno che lo interessi e lo tocchi personalmente. Il fatto conta meno della sua descrizione e del suo annuncio. Il massimo di virtualità si raggiunge quando si riesce a far credere che una cosa è successa prima ancora che sia davvero accaduta o quando è ancora allo stato potenziale, o meglio di mera promessa, magari senza possibilità alcuna di essere realizzata. Il fatto che oggi Berlusconi prometta l’aumento delle pensioni minime a 800 euro, dopo avere mancato, in larghissima parte, il traguardo dell’innalzamento a 500, fa parte di questa sorte di marketing, del suo modo di essere e soprattutto di apparire.
Qualcuno ha parlato di antropologia berlusconiana. C’è una parte di verità in questa definizione. Già Pier Paolo Pasolini, agli inizi degli anni Settanta, aveva accennato ai mutamenti antropologici della società italiana, soprattutto in relazione alla straripante omologazione consumistica. Berlusconi è espressione e interprete e insieme autore e propagatore di questa concezione antropologica, che, ripetiamo, pervade anche la nostra democrazia.
Tutto si vende, tutto si compera. Dipende dalla cifra offerta. Siccome sono il più ricco, posso comperare tutto. Questo è il sillogismo del Cavaliere.
Il simbolo è appunto il contratto degli italiani. Dopo cinque anni, in tutte le piazze e in tutte le strade, un manifesto 3x6 annuncia , con la sicumera del volto di Berlusconi: ”stiamo mantenendo gli impegni… andiamo avanti!” E’ vero? Le nostre cifre dicono, con tanto di analisi e calcoli accurati, che non è vero. Lavoro, sicurezza, trasporti e viabilità, pensioni minime, la tassazione non hanno subito miglioramenti sostanziali e continuano ad essere le priorità del popolo italiano. Lo dicono non soltanto le nostre cifre, ma anche l’esperienza quotidiana reale di ogni cittadino. Berlusconi aveva garantito che avrebbe mantenuto fede ad almeno quattro su cinque dei traguardi. Invece, gli impegni non sono stati mantenuti. Neppure negli obiettivi quantitativi, che si era posto al momento della firma, che pure non erano eccezionali. Il contratto, dunque, è stato disonorato.
Berlusconi, sedicente uomo di parola, dovrebbe trarne le conseguenze e quindi, come aveva promesso, non ripresentare la propria candidatura al governo del Paese. Berlusconi però non ama le dimissioni. Perciò è bene auspicare che il 9 aprile, grazie al voto, la democrazia reale, dopo cinque anni di malgoverno, abbia la meglio sulla democrazia virtuale, dando ragione alla saggezza conservatrice di Indro Montanelli allorchè ammoniva che gli italiani si vaccineranno contro il berlusconismo soltanto dopo averlo provato al governo.

20 dicembre 2005

 


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