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 Politica

15 Settembre, 2002
Che cosa é stato il PCI per te?
Intervento di Iginio Ariemma ad un seminario di approfondimento tenutosi a Torino il 25 maggio 2007

La risposta è difficile. Perché buona parte della mia vita di lavoro, ma anche personale, è stata intrecciata con quella del PCI. E ciò nonostante ho contribuito, non in secondo piano, a determinarne la fine come partito, come ho raccontato in “La casa brucia”.

Mi sono iscritto al PCI nel 1960, allorché ci fu il tentativo del governo Tambroni e dopo le manifestazioni del luglio di quell’anno contro l’ingresso del movimento sociale nel governo, Avevo quindi già vent’anni. La molla è stata dunque l’antifascismo, più che il comunismo. Anzi sul comunismo avevo dei dubbi, nonostante mio padre comunista, che mi portava regolarmente a casa l’Unità, Rinascita e le altre pubblicazioni del partito. Dubbi che avevano soprattutto due motivazioni: in primo luogo l’insegnamento a scuola, nel liceo e all’università (i miei professori sono stati Bobbio, Barbano, Alessandro Passerin D’Entreves, Gallo, Quazza, Firpo, tutti antifascisti, ma critici verso il comunismo); in secondo luogo le perplessità sul mondo del socialismo realizzato. Tra l’altro nel 1956- frequentavo la prima liceo - partecipai alla manifestazione studentesca a favore della rivoluzione ungherese e contro l’ invasione sovietica, con disappunto di mio padre, che venne a sapere della mia presenza da una vicina di casa.

L’antifascismo è stato più forte dei dubbi e delle riserve. Del resto dopo la rottura dell’unità nazionale era sopraggiunta una sorta di identificazione tra antifascismo e PCI, che impoveriva la Resistenza e la lotta di Liberazione, ma faceva comodo sia al partito che alla DC. Era dunque normale per un giovane vedere nel PCI il baluardo contro il fascismo. Anni dopo ho pagato questo mio antifascismo, con una scritta a caratteri cubitali sui due stipiti del portone di ingresso di casa mia: “ A morte Ariemma”. Un analogo avvertimento me lo sono trovato davanti, sempre sulla porta di casa, anni dopo, nel 1981 a Venezia. Ma invece del fascio c’era la stella a cinque punte delle Brigate Rosse.

Quando mi iscrissi conoscevo già abbastanza bene il partito. Sono nato e abitavo al Lingotto, in un quartiere dove forte era la presenza operaia e quella comunista. Ho partecipato alla riscossa operaia dei primi anni Sessanta (“il ghiaccio si è rotto”) alla Emanuel, alla RIV, allora in via Nizza, alla Fiat, fino ai fatti di piazza Statuto dell’estate ’62, di cui sono stato testimone. Ho un ricordo meno arcadico sulle sezioni del partito di allora di quello di Diego Novelli nel suo “Come era bello il mio PCI”. Nel partito ho fatto tutta la trafila: da segretario di sezione a redattore del giornaletto di barriera, fino alla zona, che nel 1964 era enorme e comprendeva il Centro, Borgo San Salvario, Barriera Nizza e il Lingotto, a membro del comitato federale Soprattutto il 1964 fu un anno per me pesante, perchè oltre all’attività di partito, stavo redigendo la tesi di laurea, impegnativa, “Il concetto di rivoluzione nel pensiero di Gramsci” e inoltre avevo iniziato a svolgere il lavoro di ricercatore sociale con la Soris, diretta da Ruggero Cominotti e Siro Lombardini, che mi portava anche fuori Torino per le inchieste.

Soltanto dopo essermi laureato ed avere fatto il militare, alla fine del 1966 o all’inizio del 1967 non ricordo bene, mi è stato chiesto da parte di Adalberto Minucci di diventare funzionario del partito e di fare il segretario della FGCI torinese. Non ero mai stato iscritto alla organizzazione giovanile. Vi ho fatto però una carriera rapidissima tanto è che alla fine del 1968 –l’anno degli studenti - sono stato designato dalla direzione della FGCI come segretario nazionale. In questa veste, ma ancora non pubblica, sono intervenuto al XII° Congresso nazionale del partito, nel febbraio 1969; per la prima volta venni eletto membro del comitato centrale del partito. Ma dopo poche settimane rinunciai e ritornai a Torino, alla scuola della classe operaia torinese, come era uso dire allora.

Il movimento operaio torinese mi ha insegnato molto. Innanzitutto a sperimentare nella pratica le mie idee e la mia passione gramsciana. Ho trovato all’Istituto Gramsci piemontese alcuni documenti e persino un appunto di mio pugno del 1970, pochi mesi dopo l’autunno caldo, che si intitola presuntuosamente “ La strategia del PCI e i delegati”. E’ mia impressione che questi materiali non siano stati consultati da nessuno, nemmeno dai ricercatori che si sono cimentati a ricostruire la storia dei comunisti torinesi. La mia visione della classe operaia, forse a causa delle mie origini, è sempre stata poco ideologica ma analitica, concreta, quasi fattuale. Me la sono portata dietro anche dopo, quando diventai responsabile nazionale dei problemi del lavoro. Una visione che mi conduceva a considerare l’egemonia operaia in termini politici e persino sociologici: peso specifico e politico, ruolo nel processo produttivo, processi di unità e così via.

Anche per me, come per tanti funzionari di partito, il PCI è stato una scelta di vita, per riprendere il titolo del bellissimo libro di Giorgio Amendola. Almeno fino alla fine degli anni Settanta. Quindi tutto il periodo torinese, fino al 1976, gli anni 1976-1979, in cui ho lavorato come vice di Giorgio Napolitano al dipartimento economico nazionale e poi con Gerardo Chiaromonte. E’ all’inizio degli anni Ottanta, dopo l’assassinio di Moro e la sconfitta del compromesso storico, che cominciò a cambiare qualcosa in me (allora ero segretario regionale del Veneto). Non mi riferisco alla messa in discussione della strategia del partito, che pure avvenne in quegli anni, ma all’affievolirsi di quella concezione della politica, troppo totalizzante, che in una certa misura mi aveva dominato fino ad allora.

Scelta di vita ha significato tante cose: il partito come priorità quasi assoluta e quindi la subordinazione al partito di tanti aspetti della propria vita personale; la nevrosi del funzionario che non riesce mai a “staccare” completamente dal lavoro di partito; l’organizzazione al di sopra dell’individuo. E per contro, quasi come compensazione: l’appartenenza ad una comunità in cui ti sentivi difeso e protetto; il ritenere di essere dalla parte giusta del progresso e della ruota della storia e quindi di possedere la verità, o per lo meno più verità degli altri. Quest’ultimo aspetto, a dire il vero, era più presente nei dirigenti più anziani, specialmente in quelli appartenenti alla generazione dei fondatori. In loro più marcato era un certo modo di intendere la politica: non soltanto come coscienza storica, ma come consapevolezza della necessità storica, che, come è ovvio, è un concetto notevolmente diverso, quasi deterministico e dunque molto più vincolante per l’iniziativa politica. Il culmine era la categoria di “errore provvidenziale”, che giustificava i passaggi più drammatici della storia comunista. La provvidenza è il senso verso cui muove la ruota della storia. Noi giovani eravamo più disincantati, ma certamente non esenti dall’ “aristocraticismo” e dal “finalismo storicista”, che dall’alto scendeva su tutto il PCI.

Il PCI infatti è stato anche una scuola di vita, un luogo di formazione politica e intellettuale e per molti versi anche morale. Non sono mai stato ad una scuola di partito, nè alle Frattocchie, né altrove. In queste scuole ci sono andato più tardi, ma per tenere qualche lezione. Tuttavia dal PCI ho appreso molto. Nel bene e nel male. I “vizi” del PCI non erano pochi. E non si coglievano soltanto da fuori, si vivevano anche dentro. Per mia fortuna non ho vissuto lo stalinismo del partito che ha avuto il suo acme a cavallo degli anni Cinquanta dopo la parentesi della nascita del partito nuovo togliattiano. Ma altri vizi o errori sì: la doppiezza nelle sua varie versioni, la primazia del partito fino all’autoreferenzialità, cioè il considerare l’organizzazione non uno strumento, ma il fine (la cosiddetta strategia dell’obesità descritta da Luciano Cafagna), la santificazione dell’unità e dell’unanimismo e così via. Tuttavia io credo che la scuola del PCI sia stata più un bene che un male, che maggiori erano le virtù rispetto ai vizi o agli errori o soltanto alle cattive abitudini. Almeno per me.

Ho avuto la fortuna di lavorare con quasi tutti i dirigenti comunisti. Con alcuni di loro c’è stata anche continuità di lavoro e, in alcuni casi, è sorta anche una reale amicizia. Li ho visti da vicino, per usare un luogo comune. E da un punto di vista abbastanza singolare, perché sono stato molto vicino al vertice, ma non sono mai entrato di fatto nella cima della piramide. Ciò mi ha consentito un certo distacco. Ognuno aveva la propria personalità e il proprio carattere, ma vi posso assicurare che, quasi tutti, affascinavano per lo spessore non soltanto politico e culturale,ma umano. La loro peculiarità che in una certa misura li accomunava era la serietà e direi persino la severità verso se stessi, prima che con gli altri e con il partito. Non mentivano a se stessi, innanzitutto. Il che comportava una notevole autodisciplina e coerenza nei comportamenti e prima di tutto nel lavoro e nello studio. Non ignoro che vi era anche una punta di compiacenza elitaria.

Sul piano delle idee il PCI, a partire dal suo gruppo dirigente, era molto più variegato di quanto apparisse e comunemente si pensa. Il PCI era un partito complesso in cui convivevano visioni e concezioni diverse. Nei colloqui personali ho sentito parlare di comunismo sia come religione terrestre sia come instrumentum regni, di ricerca della verità e di perseguimento della rivoluzione come verità, della necessità della laicizzazione della storia e della politica e della loro ideologizzazione. Il massimalismo (il modello sovietico, tutto subito, la negazione del riformismo, il sogno dell’insurrezione, l’ambiguità sulla democrazia ecc), era minoritario o collocato in un orizzonte quasi irraggiungibile. Di gran lunga prevalente era la ricerca della via democratica e italiana al socialismo attraverso gli obiettivi intermedi, dal progetto a medio termine agli elementi di socialismo, all’assunzione della democrazia come valore.

Il PCI è stato un ibrido, una giraffa, un animale strano, ma reale, non un liocorno che esiste soltanto nelle favole. La sua forza era il suo radicamento territoriale e popolare – una sezione ogni campanile- il partito di massa e nuovo, che Togliatti volle subito dopo la Liberazione dal fascismo. Forza che derivava soprattutto da due fattori: in primo luogo considerare il comunismo e soprattutto la lotta del partito non come un ideale astratto, ma come una prefigurazione viva e concreta della società del domani, in cui tutti, anche i più umili, si sentono utili e valorizzati. Grande umanità che derivava innanzitutto dalla piena disponibilità ad aiutare gli ultimi. In secondo luogo un rapporto di verità con gli starti popolari fondato sulla coerenza tra parole e fatti, cioè cercare di fare esattamente quello che si dice e di dire esattamente quello che si può fare. Il massimalismo è la negazione di tutto ciò. Per questo il PCI veniva accusato dall’estremismo di svolgere una politica moderata. Ma ingiustamente e con magri risultati sul piano dei consensi.

Questi elementi, l’antifascismo, il fascino intellettuale del partito e il radicamento operaio e popolare, sono alla base della mia adesione al partito e della mia scelta di vita. Accanto ad un quarto fattore che dirò tra poco. Ho conosciuto tre generazioni di dirigenti comunisti: quella dei fondatori e della clandestinità durante il fascismo, quella della Resistenza e del partito nuovo togliattiano, che nel 1956 dopo la rivoluzione ungherese accettò il compromesso sul nesso Unione Sovietica e via italiana al socialismo, i Berlinguer, Natta, Napolitano, tanto per indicare i nomi più illustri. E quella, infine, del 1968. Dopo, una vera e propria generazione, caratterizzata da un sentire comune, non c’è stata. Sulla spinta del 1968, invece, si è formata una generazione nuova di dirigenti comunisti. Quando si parla del Sessantotto si rammentano e si intervistano i leader di Lotta continua, di Potere operaio, di Avanguardia operaia e degli altri gruppi di estrema sinistra, ma non si tiene conto che una parte della cosiddetta “meglio gioventù”, una parte che negli anni successivi è diventata sempre più massiccia, ha aderito al PCI sull’ onda di quella svolta culturale. Senza considerare D’Alema, Mussi e sia pure un po’ più tardi lo stesso Veltroni, è sufficiente ricordare il panorama torinese: Fassino, Violante, Livia Turco, Chiamparino, Bontempi. Alcuni purtroppo, come Domenico Carpanini, Bruno Ferrero, Angelo Oliva non ci sono più. Nel periodo in cui sono stato segretario della federazione, nella prima metà degli anni Settanta, l’apparato mutò completamente con l’ingresso di questa generazione. La generazione più anziana andò a fare i sindaci o gli assessori o in Regione o nei Comuni della cintura torinese, con notevole profitto di quei Comuni. Io non faccio parte della generazione del 1968, sono di qualche gradino precedente, allora ero già laureato. Mentre quella generazione si è formata soprattutto negli anni Settanta e nell’ultimo periodo della leadership berlingueriana, io mi sono formato prima.

Le tre generazioni erano diverse nel modo di pensare e di essere. In particolare parecchio diversi erano la concezione del socialismo e il rapporto con l’Unione sovietica e il campo socialista. Il peccato originale del PCI, cioè il legame con la rivoluzione di ottobre, mano a mano che si allontanava nel tempo, si stemperava. Per fare un esempio che ho vissuto da vicino Giancarlo Pajetta continuava a considerare l’URSS quasi come casa sua, per certi versi una seconda patria, per Berlinguer non era sicuramente così – negli ultimi anni era soprattutto il contrappeso geopolitico nei confronti degli USA ed anche il retroterra per i movimenti di liberazione e per le stesse forze di sinistra, comuniste e socialdemocratiche - ancora meno era per me o per la generazione del ’68. Diverse erano anche la statura e soprattutto la saldezza politica e intellettuale, e minore era il grado di affidabilità.

Eppure esiste un tratto comune , che si trasmetteva tra l’una e l’altra generazione: il sogno di un comunismo democratico, che si manifestava non soltanto nel progetto politico, ma anche nel modo di essere del partito, il quale non si accontentava di indicare il sole dell’avvenire, l’orizzonte, e di predicare l’ideale, la lotta all’oppressione, ma cercava di prefigurare la società che intendeva costruire, almeno sul piano delle relazioni umane. Non credo di fare una forzatura. Chi ha portato alle estreme conseguenze questo sogno è stato Enrico Berlinguer, allargando il sogno anche a chi comunista non era. Adesso so che il comunismo democratico è una contraddizione in termini, una aporia, una strada senza uscita, destinata a infrangersi. Ma questo è stato il rovello, l’assillo per tanti anni. Anche per me.

La svolta del 1989, che ha condotto allo scioglimento del PCI, per le cose dette, non mi ha colto di sorpresa. Non è stata un fulmine a ciel sereno, è maturata lentamente in me. Su di essa ho già scritto ampiamente in “La casa brucia”. Mi preme però dire ancora alcune cose soprattutto sul dibattito che si è svolto dopo che ho pubblicato il libro nel gennaio del 2000. Continuo a ritenere ancora oggi che la svolta non soltanto fosse necessaria, ma sia venuta troppo tardi. Non credo che ci fossero le condizioni interne e internazionali per compiere la svolta del PCI in direzione della socialdemocrazia già nel 1956 (rivoluzione ungherese) o, dieci anni dopo, nel 1968-69 (rivoluzione cecoslovacca), ma alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli anni Ottanta sì. E questo per alcune ragioni sostanziali.

La prima è che negli anni Ottanta a livello internazionale mutano i due fattori prevalenti dei cinquanta anni precedenti, cioè la guerra fredda e l’Unione sovietica. E ‘ vero che il crollo del comunismo avverrà soltanto nel 1989 con la caduta del muro di Berlino (e nel 1991 la caduta dell’URSS), ma i segni di crisi e di dissoluzione già erano presenti prima alla fine degli anni Settanta (crisi polacca, Afghanistan, ecc). Berlinguer lo capisce, tanto è vero che compie il cosiddetto strappo dall’URSS (1981), ma né lui né gli altri leader ne traggono in modo completo tutte le conseguenze. Il PCI, nella storia della Repubblica, è stato e si è comportato come un partito socialdemocratico (o se si vuole dire più esattamente come un partito riformista di fatto), ma non ha mai abbandonato il rapporto con la sua matrice originaria che era la rivoluzione d’ottobre, e che definisco come il suo peccato originale.

La seconda ragione riguarda invece il disegno strategico nazionale. IL PCI ha avuto durante e dopo la Liberazione dell’Italia dal fascismo un asse strategico, rimasto fermo negli anni, basato sull’unità delle tradizioni di massa del popolo italiano (socialista, comunista e cattolica) e sui governi di unità nazionale. Il PCI poteva andare al governo soltanto in un quadro di questo tipo. Il governo di solidarietà nazionale del 1976-1979 era una variante che rientrava pienamente in questo disegno. Il di più era dato dal respiro che Berlinguer ci metteva con il compromesso storico. Con l’assassinio dell’on. Moro questa strategia ha termine. O meglio viene definitivamente sconfitta. Illustrare le ragioni di tale sconfitta ci porterebbe molto lontano( pressioni internazionali, terrorismo, mutamenti della società italiana e sua secolarizzazione, deterioramento dei partiti e della politica, inaffidabilità degli interlocutori, ecc), ma è un fatto che l’ipotesi della grande coalizione di unità nazionale si estingue. E parallelamente viene emergendo nel PCI la discussione sulla necessità di costruire una alternativa democratica. La piena discontinuità con la cultura precedente è avvenuta però soltanto con la svolta del 1989.

La terza ragione è conseguente al venir meno del suo maggiore perno ideologico. Perno ideologico che si basava sulla classe operaia , la cui liberazione, attraverso il predominio dello Stato nella economia e nella società, avrebbe emancipato la nazione italiana e tutta l’umanità Il progetto del PCI ruotava intorno all’egemonismo operaio, mentre quello della DC, che in definitiva è stato vincente, si rivolgeva al ceto medio. Negli anni Ottanta la grande fabbrica di tipo fordista entra in un crisi profonda (il caso Fiat) e con essa il PCI : perde iscritti e voti, soprattutto nelle aree in maggiore trasformazione economico e sociale (tutto il nord ovest), l’età media dei suoi tesserati diventa di 52 anni, molto basso è il numero dei reclutati e al di sopra dei 20 anni è l’anzianità di iscrizione, che corrisponde al periodo di maggiore espansione della grande industria. Anche il gruppo dirigente centrale mostrava qualche segno di usura dovuto all’età. Mentre premeva alle porte della Direzione nazionale una nuova generazione di quaranta- cinquantenni. E’ indubbio che la svolta è stata anche una svolta generazionale.

Ci furono pressioni esterne? Le pressioni sul PCI per una sua trasformazione in direzione socialdemocratica duravano da molto tempo. Data la discussione interna, molto più animata rispetto a prima, soprattutto da parte dell’ala migliorista, le pressioni negli anni Ottanta erano certamente più forti e massicce. Ma parlare, come continua a fare qualcuno, di subalternità della svolta a giornali come “la Repubblica” e all’ “Espresso” e quindi a gruppi capitalistici ben individuati mi sembra una favola che non ha alcun fondamento. Proprio in quegli anni, prima e dopo il 1989, con Natta e con Occhetto, ero responsabile dell’ufficio stampa della Direzione del PCI e quindi posso a ragion veduta testimoniare il contrario. Inoltre non credo che sia giusto rimproverare al gruppo dirigente attorno ad Occhetto la sottovalutazione - o addirittura la subalternità - alle ambizioni e ai progetti delle forze e dei poteri forti che attraverso le privatizzazioni intendevano impadronirsi del ricco boccone dell’industria e del patrimonio dello Stato e di mettere al riparo le proprie fortune dalla concorrenza internazionale e dai guasti compiuti. Quella delle privatizzazioni à una vicenda troppo complessa e con troppe facce che perdura tuttora per ridurla in questo modo. Negli anni Novanta il debito pubblico nazionale era arrivato ad una soglia tale che senza la politica delle privatizzazioni ci poteva essere la bancarotta.

Anche sulla critica che la svolta sarebbe stata gestita male non sono d’accordo. Certamente ci sono stati molti errori e limiti di cui dirò in seguito, ma non quelli che comunemente vengono indicati. Chi sostiene questo, infatti, sono soprattutto coloro o che erano contrari alla svolta oppure avevano in testa un altro disegno o un altro sbocco per la svolta. Sui contrari c’è ben poco da dire. Il tentativo di evitare la scissione che avvenne a Rimini nel febbraio del 1991 è stato molto intenso e lungo. Fausto Bertinotti, l’attuale leader di rifondazione comunista, per fare un esempio, non era tra gli scissionisti nel 1991; lo è diventato dopo, quando il PDS ha appoggiato il governo Ciampi nel 1993. A mio parere questo trascinamento temporale è stata una delle cause non secondarie della riuscita parziale e un po’ triste della svolta. Dall’inizio a Rimini sono passati infatti quattordici mesi, dando tutto il tempo all’opposizione interna di riorganizzarsi a livello di base e al trasformismo interno di prevalere. Dopo Bologna- marzo 1990- ero del parere che occorresse andare al nuovo partito prima dell’estate: a giugno, non oltre.

Ma non è stato così. Dopo Bologna ebbero la meglio due tendenze che puntavano ad uno sbocco della svolta diverso da quello originario nella proposta di Occhetto. Una di queste tendenze, maggioritaria nel partito, considerava la svolta e innanzitutto il mutamento del nome tout court una necessità, dato il crollo del comunismo sovietico, e quindi con una visione di ripiegamento tattico piuttosto che strategico. Temeva, pertanto, l’indebolimento della tradizione comunista e del partito e quindi puntava non alla edificazione di un nuovo partito, anche con altre forze esterne, ma ad una sorta di costituente-riorganizzazione interna che pur cambiando il nome, evitasse a tutti i costi la scissione a sinistra. Una seconda tendenza invece tendeva a vedere la svolta come l’avvio di un processo che avrebbe portato sia pure gradualmente alla unificazione con il PSI. Craxi, segretario, proprio dopo Bologna aveva lanciato l’unità socialista. E quindi a immergere dalla testa ai piedi il nuovo partito, passato e presente, nella tradizione socialdemocratica. Personalmente consideravo queste due tendenze sbagliate. Perché poco innovative e sostanzialmente conservatrici. Ciò che non viene mai messo in luce, parlando della svolta è che Occhetto è stato in quei mesi – da Bologna a Rimini – in minoranza all’interno del partito. Infatti a Rimini non raggiunse il quorum necessario per essere eletto segretario.

Eppure –ne sono convinto anche adesso- le scelte di fondo che sono state compiute allora erano giuste. In particolare era giusta la scelta non soltanto di trasformare il PCI in un nuovo partito, ma di dare vita ad un partito effettivamente nuovo che ricevesse l’apporto anche di esperienze, culture e forze che erano esterne e persino critiche della tradizione comunista. Non era sufficiente innervare la cultura socialista e socialdemocratica per procedere a questo rinnovamento, occorreva attingere anche ad altre tradizioni come quella cristiana, quella azionista o quella che emergeva dai fermenti nuovi dei giovani e della società (ambientalismo, femminismo, ecc.). Di qui il nome proposto, partito democratico di sinistra.

Altrettanto giusta era la scelta di fare tutti i passi necessari, fin dall’inizio, per aderire alla Internazionale socialdemocratica e di essere fondatori – cosa che è del tutto dimenticata- del partito socialista europeo. Ma a testa alta, immettendo in essa il nostro autonomo patrimonio di idee ed esperienze. Entrambi gli avvenimenti hanno luogo nei primi mesi del 1992. In questo modo uno dei problemi maggiori – la dimensione internazionale del nuovo partito – aveva un punto di riferimento certo, che diventava anche un luogo di ricomposizione nazionale con il PSI e con il PSDI che già aderivano all’Internazionale.

La svolta è stata improvvisata? In “La casa brucia” racconto dettagliatamente i precedenti, la genesi e la cronaca, che dimostrano che non lo è stata. Ma è indubbio che Occhetto si è difeso male da questa accusa. Infatti invece di riconoscere la discontinuità , ha sempre cercato di dimostrare la continuità tra la svolta di novembre e il congresso del partito, avvenuto pochi mesi prima, a marzo, che era stato incentrato sul nuovo PCI sull’onda della perestroika di Gorbaciov. Tutto nel 1989. Ultimamente ha peggiorato le cose dichiarando (cosa che non gli ho mai sentito dire allora, né in pubblico né in privato) che la svolta secondo lui era una uscita dal comunismo da sinistra, mentre, dopo, i DS si sarebbero spostati a destra. In realtà mi è sempre stato difficile capire anche allora quale fosse il reale intendimento di Occhetto. In lui infatti sono sempre convissute sia l’anima per così dire ingraiana, vicina e sensibile ai movimenti e ai nuovi fermenti culturali e sociali, ma un po’ integralista, sia l’anima genericamente progressista che mirava a unire tutte le forze di progresso, a prescindere dai contenuti. Queste due anime trovavano la loro composizione nella metafora del partito carovana, che – insieme all’eccesso di nuovismo- faceva irritare molti dirigenti ed anche militanti di base perché ritenuta eccessivamente avventurosa. A mio parere l’ errore di fondo che Occhetto ha compiuto nella gestione della svolta è stato quello di non essere riuscito a elaborare un disegno credibile di riforma del sistema politico e istituzionale, di cui il nuovo partito o meglio il processo politico che doveva condurre alla nuova formazione politica fosse parte. Il nuovo partito aveva bisogno di un nuovo sistema politico. Invece la transizione, sia sul piano istituzionale che su quello dei processi politici, a quindici anni dalla svolta è tuttora incompiuta. Ciò è dovuto anche e forse innanzitutto –questa è la mia opinione- alle incertezze, ambiguità, oscillazioni, in grande parte dovute a divisioni interne non composte del gruppo dirigente DS. A dire il vero Occhetto ha avuto all’inizio alcune intuizioni giuste: ammettere non solo l’alternativa, ma l’alternanza nelle maggioranze governative, la non demonizzazione del presidenzialismo democratico, la ricerca di una riforma elettorale che favorisse l’alternanza, il ricorso alla strada referendaria per superare le barriere partitiche , anche interne al PCI, per arrivare alla riforma del sistema politico. Occorre riconoscerlo se si è obiettivi.

L’errore riguarda il passo successivo, il progetto di riforma che è stato ambiguo e carente. Ciò viene in luce se si esamina in particolare la risposta all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Cossiga dopo il 1989, anche in discorsi pubblici, avanzò l’idea che in Italia si dovesse uscire dalla guerra fredda (che secondo lui aveva avuto anche aspetti di guerra civile) stringendo un patto di verità tra gli eredi del PCI e gli eredi della DC, tramite il quale, autoconfessandosi e autoassolvendosi, si mettesse una pietra sopra al passato. Il patto però conteneva anche una seconda parte: l’attuale repubblica doveva trasformarsi in una repubblica presidenziale sul modello francese e quindi di tipo gollista. Concorde con tale disegno era un blocco di forze che, sebbene in modo non completamente omogeneo, comprendeva parti del PSI, compreso Craxi, settori del MSI, ecc. La debolezza del PDS e di Occhetto in particolare è stata quella di combattere questa strategia non a viso aperto, opponendo ad essa in modo chiaro, credibile e popolare, un altro progetto di riforma dello Stato. Invece del disegno sono prevalse quelle che potrebbero essere definite furberie tattiche : l’empeachement a Cossiga , che non aveva alcuna possibilità di esito, il proporre, da parte di Occhetto, in modo velleitario, la elezione diretta del premier, in contrapposizione a quella del capo dello Stato;e soprattutto il non avere avuto il coraggio prima e specialmente dopo la vittoria referendaria che ha introdotto il maggioritario di mettere in campo una proposta complessiva .e unitaria di riforma politica e istituzionale. Ma questo problema lo abbiamo avuto anche dopo, tanto è vero che D’Alema, presidente della Commissione bicamerale, cade proprio per questa debolezza e all’opposto Berlusconi rinasce dopo la sconfitta del 1996, facendosi portatore della pessima e antidemocratica riforma della Costituzione che per fortuna è stata bocciata dal referendum popolare.

Ma c’è un secondo errore di fondo che riguarda la gestione della svolta da parte di Occhetto. Il partito aperto, che superasse la cultura originaria comunista, preconizzato da Occhetto, comportava una forma partito diversa da quella esistente. Invece tutto è rimasto come prima. E’ rimasto persino il nome di partito nella ragione sociale: partito democratico di sinistra si è chiamato dal 1991 al 1998. Negli anni successivi il termine partito è caduto, ma la sostanza resta tale e quale. I DS, di fatto, erano una federazione di correnti, distanti le une dalle altre; ma non si è avuto il coraggio di dare al partito la forma della confederazione che era più corrispondente alla realtà e per giunta avrebbe obbligato ad una discussione seria sui fondamenti del nuovo partito ( cultura di base, disegno politico, dimensione internazionale), su quelli che erano i vincoli che tenevano insieme, sulla democrazia interna e sulle regole per farli rispettare, e così via. So bene che ci sono stati vari tentativi in tale direzione per riformare il partito. Ma il risultato è magro. Pertanto, per garantire l’unità del partito si è formata una sorta di oligarchia che dura tuttora e che sembra inamovibile.

Ad oltre quindici anni dalla svolta va riconosciuto che lo scioglimento del PCI ha dato vita ad un partito incompiuto. Non è soltanto colpa di come è stata gestita. Come ho detto in precedenza l’incompiutezza ha radice anche nella transizione infinita dalla prima alla seconda repubblica. Infatti scherzosamente si potrebbe definire questo passaggio di grande confusione istituzionale e politica come la prima repubblica e mezzo. In questi anni i DS sul piano elettorale sono oscillati dal 17 % a poco più del 21%. Sono quindi un partito medio, che non è mai riuscito a fare il salto che li avvicinasse alla forza degli altri partiti socialdemocratici in Europa che supera il 30%. Gli iscritti sono rimasti intorno ai 600 mila nonostante l’ingresso di altre componenti e di altri raggruppamenti. Una forza consistente, che ha nel sistema di gestione amministrativa e pubblica, più che nell’attività volontaria, un discreto radicamento territoriale, certamente superiore ad ogni altro partito. Meno incisiva è la sua influenza sui sindacati, sulle organizzazioni di categoria e sulle realtà associative, ma non del tutto assente. Ripetuti sono stati i tentativi di essere il perno di una forza più grande, ma le non poche cooptazioni di altre componenti non hanno avuto successo, per lo meno sul piano numerico; sono state “ingressi” di gruppi dirigenti. Ma di seconda fila. Il comando è rimasto ben piantato sul ceppo ex comunista. Questo percorso gli ha dato una natura anfibia, di partito coalizionale, che ha una forza propria , ma contenuta. Infatti la sua massima potenzialità la esercita nella capacità di fare alleanza. Anche sul piano progettuale e programmatico è un partito che, in una certa misura, è ancora a metà strada. Sicuramente è un partito di governo, ma talora troppo condizionato da spinte, se non massimalistiche, radicaleggianti che non sempre si accordano con le esigenze di decidere e di governare. Il riformismo è oramai nel suo codice genetico, ma spesso dà l’impressione che la sua cultura di base continui ad essere quella della tradizione comunista più vecchia e che la sua identità sia ancora oggi più rivolta al passato che al futuro.

Sono convinto non da ora che i DS avrebbero dovuto mettersi in gioco più coraggiosamente e unirsi in modo organico ad altre forze e ad altre tradizioni riformiste, senza egemonismi vecchia maniera ,ma con dignità pari alla propria, per dare vita non soltanto alla ennesima nuova coalizione elettorale(ce ne sono state almeno quattro in dieci anni), pur necessaria in un sistema maggioritario ed anche proporzionale con premio di maggioranza, ma al partito dell’Ulivo o democratico che di si voglia. La mia convinzione, rafforzatasi nell’ultimo decennio con l’avvento del berlusconismo, è che occorrer dare compimento e nuovo vigore al processo fondativo della democrazia italiana. Questo processo non è stato compiuto. Sono state poste le fondamenta con la Costituzione repubblicana, ma poi, nonostante le cose realizzate, si è interrotto e addirittura corre il rischio di andare indietro. E’ venuta a galla una destra egoista e tracotante che sembrava sommersa. Una destra che vive e cresce negli spazi della democrazia incompiuta. Una destra che ha riscoperto l’anticomunismo: non quello democratico, che, a mio parere, ha svolto un ruolo positivo anche sul PCI, ma quello antidemocratico. Il processo fondativo della democrazia non è compiuto sul piano del sistema politico e delle istituzioni e soprattutto a livello etico e di cittadinanza. Il Partito Democratico è necessario a questo fine. E ancora di più se si considerano gli sconvolgenti processi di globalizzazione in corso. Senza una democrazia compiuta , in grado di selezionare una nuova classe dirigente, non si affronta nel modo dovuto la mole di tali problemi. Ma questa è storia di domani.

Iginio Ariemma

 


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