15 Settembre, 2002
Pd: soluzione congresso (di Gianfranco Pasquino)
da L'Unità del 24 giugno 2008
Molti erano i chiamati, molto pochi quelli che sono arrivati, a Roma,
all'Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Eppure, l'Assemblea
aveva un ordine del giorno importante: l'elezione della Direzione.
Quando su circa tremila componenti dell'Assemblea, certamente troppi,
ne pervengono fra 600 e 800, allora c'è sicuramente un problema
(forse più di uno), non organizzativo, non logistico, ma politico.
La grande maggioranza dei componenti non disdegna l'onore di "fare
parte" dell'Assemblea del Pd, ma, purtroppo, non si cura di "prendere
parte" alle sue attività. È un segnale che ha due interpretazioni
possibili. La prima è la delega, più o meno convinta, al gruppo
dirigente, quello, per intenderci, che, al tavolo della Presidenza,
mentre Veltroni pronunciava il suo discorso, si sprofondava nella
lettura dei quotidiani oppure parlava al telefonino. Per questi
delegati assenti (assenteisti?), dopo la sconfitta. non c'è nulla su
cui riflettere, nulla da rimproverare/rsi, nulla da fare.
Semplicemente, la sconfitta non la si poteva evitare. Ne conseguono
delusione e/o rassegnazione. Dunque, non è neppure il caso di
discuterne, individuarne le cause, approntare una strategia diversa.
Sono, credo, atteggiamenti gravi che spiegano l'afasia/apatia
dell'opposizione. La seconda interpretazione è che gli assenti,
almeno una parte di loro, impossibile dire quanto piccola oppure
grande, hanno deliberatamente deciso, magari anche ricordandosi di
precedenti, non felici, esperienze, di non partecipare ad un evento
pre-confezionato, nella consapevolezza di non avere la possibilità di
cambiare nulla.
La lista della Direzione, inemendabile e, se posso permettermi, non
impeccabile, è stata calata dall'alto esattamente come erano stati
formati i comitati per Statuto, Manifesto dei Valori, Codice Etico.
Quello che molti (o pochi) dentro il Partito Democratico e, in
verità, anche fuori, vorrebbero non è una resa dei conti, ma almeno
un rendiconto di tutto quello che non ha funzionato con la
conseguenze assunzione di responsabilità e la possibilità di
formulare una linea politica che la dura lezione dei fatti impone che
sia significativamente, qualitativamente diversa. Nel frattempo
Veltroni dovrebbe cercare le modalità per rilanciare il sostegno
molto ampio e diffuso, ben oltre gli argini di partito, che ebbe per
la sua elezione popolare, per coinvolgere attivamente quegli elettori
anche per sfidare il dissenso che non viene espresso apertis verbis,
a voce alta, chiara e forte, ma che striscia nelle dichiarazioni e
che si annida nelle Fondazioni. Le operazioni culturali, se è questo
quanto faranno le oramai numerose fondazioni, proliferate al di fuori
di un Partito che non ha affatto proceduto al rimescolamento delle
culture politiche sulle quali è nato, sono, non una "risorsa", ma una
sfida diretta contro il segretario e contro il partito in quanto
struttura e luogo, potenziale, di elaborazione culturale. D'altronde,
in mancanza di un modello organizzativo chiaramente delineato, che
avrebbe qualche possibilità di radicarsi sul territorio, con tutti
gli aggiustamenti per tenere conto delle differenze di aree, ovvero
di essere presente e di fare politica, le correnti rappresentano
qualche cosa di facile da costruire e di sperimentato.
Probabilmente, esiste una maggioranza a sostegno di Veltroni, che,
più che sostenerlo, lo ingabbia. Sicuramente, non c'è grande sostegno
per le idee di Arturo Parisi, che rimane l'interprete autentico
dell'Ulivo che fu e del Partito Democratico che dovrebbe essere.
Emarginarle con fastidio, quasi con punte di autoritarismo
burocratico, ha poco di "democratico", ancor meno se l'emarginazione
si accompagna all'augurio che Parisi se ne vada. Qualcuno, forse,
ricorda che il pregio maggiore dei grandi partiti è consistito e
continua a consistere nella valorizzazione del dissenso, non nel
dileggio, e che le idee si valutano, non guardando ai numeri che le
sostengono, ma al loro merito. La via d'uscita, da perseguire non
soltanto perché è probabilmente l'unica, ma soprattutto perché
contiene molti elementi positivi, è la convocazione del primo
Congresso Nazionale del Partito Democratico. Per farlo bisogna
disporre di un elenco, non gonfiato, di iscritti, non fasulli, magari
garantendo pari dignità a tutte le posizioni. Quanto ai tempi, la
primavera del 2009 è una stagione propizia: un Congresso democratico,
caratterizzato da un confronto di idee e con esito aperto, può anche
sprigionare effetti positivi di mobilitazione elettorale, per le
amministrative e le europee.
Infine, i leader (posso fare riferimento a John e a Robert Kennedy e,
persino, con la speranza, a Barack Obama?) non nascono a tavolino, ma
emergono nel conflitto fra persone e fra linee politiche, non fra
prospettive di carriera che, purtroppo, la legge elettorale nazionale
incoraggia in maniera sgradevole e riprovevole e con conseguenze
pazzesche di conformismo. Mi sembra che nel Partito Democratico, il
conflitto, ancorché sotterraneo, esista e che possa costituire, come
hanno sempre sostenuto i grandi teorici delle liberaldemocrazie, il
lievito del cambiamento. Mi attendo, dunque, le persone democratiche,
queste sì sarebbero "coraggiose", che vogliano impegnarsi senza rete
per dare alle idee le gambe sulle quali camminare.
 
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