15 Settembre, 2002
Europa tra finanza e politica: l'inarrestabile ritorno dei leader
Il ritorno in auge della politica sembra inarrestabile e in questa prospettiva la settimana passata rimarrà memorabile per i Governi europei (Carlo Bastasin da Il Sole 24 ore del 22 ottobre 2008)
Il ritorno in auge della politica sembra inarrestabile e in questa
prospettiva la settimana passata rimarrà memorabile per i Governi
europei. Il premier britannico Gordon Brown, un cadavere politico
fino a dieci giorni fa, è diventato nella pubblicistica
anglosassone "il salvatore dell'universo". Nicolas Sarkozy ha
rivelato risorse di leadership tramutando in un successo gli iniziali
fallimenti nel coordinamento europeo.
Il presidente francese e Silvio Berlusconi hanno superato il 60% dei
consensi, un livello che il premier italiano ha definito «quasi
imbarazzante» in democrazia. Angela Merkel ha ottenuto, come accadeva
ai sovrani, sia la gratitudine dei banchieri tedeschi sia la loro
umiliazione e quindi il consenso nell'opinione pubblica.
Nella facciata rassicurante dei Governi che fanno barriera alla crisi
c'è tuttavia una crepa. In tutte le risposte pubbliche c'è stata una
notevole dimostrazione di leadership, ma un'altrettanto notevole
assenza di confronto democratico. I Parlamenti sono stati
irrilevanti, il dibattito su cause e rimedi è rimasto schiacciato
sotto la retorica millenarista della fine del mondo. L'opinione
pubblica non sembra però avere dubbi, non c'è preoccupazione per la
sbrigatività delle procedure parlamentari. La paura del crollo
epocale del sistema ha offerto una base di legittimazione irrazionale
in cui ciò che disperde la paura non è frutto del faticoso e
fallibile negoziato umano, ma di una necessità storica. Così nei
sondaggi la leadership è premiata a costo di sacrificare, quasi di
buon grado, la democrazia.
E di sacrificio di democrazia si è certamente trattato. Negli Stati
Uniti il Congresso, che aveva bocciato il primo piano Paulson, è
stato costretto a rivotarlo e a rinnegare se stesso. «Non c'è
alternativa» aveva spiegato Bush. Invece l'alternativa c'era: solo
una settimana dopo Paulson aveva dovuto ritirare il piano e
sostituirlo con uno migliore e copiato dagli europei. Più di chiunque
altro era stato John McCain a esemplificare l'inconciliabilità tra
crisi e democrazia, proponendo di sospendere la campagna
presidenziale americana finché il crollo di Wall Street non fosse
finito.
In Germania una procedura di approvazione parlamentare che sarebbe
durata quattro mesi è stata sbrigata in una settimana con votazioni
che al Bundesrat sono state prive anche di un solo voto di dissenso.
In Germania e Francia la dialettica politica si è spostata così fuori
dal Parlamento e inevitabilmente ha assunto connotati populistici; si
discute non del miglior modello di salvataggio dell'economia, ma di
quali punizioni infliggere ai banchieri per placare l'irritazione
popolare. In Italia la denuncia dell'opposizione del rischio di
regime è parsa rituale, le proteste sull'assenza di un dibattito
parlamentare sono sembrate d'intralcio anche perché il dibattito
mancato sui contenuti è stato sovrastato dalle retoriche sulla fine
del capitalismo. Perfino la voce degli economisti, titolati a
discutere le diagnosi, è ripudiata.
Sappiamo tutti quale sia la giustificazione: quando una casa brucia,
l'incendio va spento. Le analogie con le guerre e le catastrofi
naturali sono giunte spontanee: l'emergenza era troppo grave per
perdere tempo a discutere di alternative. Gli interventi inoltre
erano «esorbitanti» anche per la loro dimensione: estranei alle
orbite normali dei bilanci parlamentari. Le risorse mobilitate dai
Governi dovevano intimidire i mercati, facevano capo ai contribuenti-
elettori ma hanno finito per rafforzare il ruolo pubblico dei capi di
governo, in un collasso dello Stato dentro al potere esecutivo.
Ma possiamo davvero permetterci di rinunciare a discutere nel merito
quello che sta avvenendo? No per alcune ragioni:
1. Il principio delle decisioni d'autorità rischia di evolversi da
metodo a sostanza della politica. Non sono in fondo le ricette che
emergono dalla crisi - la statalizzazione delle banche, la protezione
degli assetti proprietari dei campioni nazionali, la distribuzione di
sussidi pubblici - una forma di concentrazione del potere, in una
misura di cui non si aveva memoria da decenni? Ieri Sarkozy ha
proposto la creazione di fondi sovrani nazionali, una soluzione molto
meno accettabile di quella di Giulio Tremonti di un fondo "sovrano"
europeo e che finirà per creare conflitti tra Paesi della Ue. «Ognuno
torni davanti alla propria porta di casa» chiede il ministro delle
Finanze tedesco e nel farlo rivela la contraddizione: nel momento in
cui i Governi europei sentono la necessità di un coordinamento
globale – una nuova Bretton Woods – riaffermano la logica della
sovranità esclusiva, condannando al fallimento lo sforzo di governare
la globalizzazione.
2. L'affermazione di leadership raccoglie molto consenso quando le
cose - per capacità o per fortuna - vanno bene e gli eventi della
scorsa settimana ne sono testimonianza, benché se la crisi sarà
riassorbita i mercati e la politica torneranno a disciplinarsi
vicendevolmente rendendo inutile l'esercizio di autorità. Ma che cosa
succede se l'allentamento delle procedure democratiche coinciderà con
fasi infelici della società? I prossimi due anni saranno di
recessione economica, renderanno una moltitudine di imprese e
individui dipendenti dall'aiuto dello Stato. In Paesi come l'Italia è
prevedibile che il debito pubblico torni ad aumentare. Tornerà la
pressione dei mercati che finanziano il debito e la tentazione di
isolarsene d'autorità. La contrapposizione tra interessi nazionali e
vincoli esterni si farà più grave.
3. Un problema della globalizzazione è di aver fallito in uno dei
suoi aspetti più interessanti: l'espansione del benessere attraverso
strumenti finanziari che consentivano anche a famiglie povere di
diventare proprietarie della loro abitazione. Il problema della
distribuzione del reddito – che presuppone meccanismi di decisione
democratici a maggioranza – e l'obiettivo di una certa uguaglianza,
sono decisivi nel garantire consenso all'apertura delle frontiere e
d'ora in poi non potranno non essere affrontati da chi vuole
discutere di mercati globali.
Una politica di concentrazione di potere nelle mani degli Esecutivi
mal tollera il laborioso processo di condivisione delle decisioni:
l'arbitrio si scontra con regole comuni. Ma poiché quasi tutti i
problemi che ci affliggono – dalle crisi finanziarie alle condizioni
dell'ambiente, dalla recessione agli sviluppi demografici – non sono
governabili su scala nazionale, la retorica autocratica rischia di
distanziarsi dalla soluzione dei problemi e il meccanismo
dell'emergenza finisce inevitabilmente per diventare uno stato
permanente, aggravando il problema democratico. Ora che si affronta
il tema di riscrivere le regole globali dell'economia, i temi della
democrazia e dell'integrazione politica non dovrebbero rimanere ai
margini.
 
Fonte Il Sole 24 ore
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