15 Settembre, 2002
Il lavoro che ci attende al Nord di Lucinao Pizzetti.
Se la più seria anomalia italiana non fosse il berlusconismo ma l’assenza di un’alternativa....
Il lavoro che ci attende al Nord di Lucinao
Pizzetti.
Se la più seria anomalia italiana non fosse
il berlusconismo ma l’assenza di un’alternativa,
in grado di dare voce alle tante speranze
di un’Italia migliore e più giusta, muovendo
dalla qualità più che dalla quantità della
spesa pubblica per assicurare agli italiani
eguali opportunità e migliori diritti di
cittadinanza?
Un interrogativo quasi pleonastico, in particolare
dopo le elezioni regionali e nel mentre si
riaffacciano quelle politiche anticipate.
Estremizzo così l’esito del voto avvenuto
dalle mie parti: chi si accontenta spesso
si tura il naso e vota Berlusconi, chi si
oppone sovente pure si tura il naso e in
buona parte vota PD, chi è arrabbiato o molto
deluso vota il non voto, chi vuole il cambiamento
vota la Lega.
La nuova Lega. Oltre la destra, oltre la
sinistra, oltre il centro. La Lega che pretende
-ed ottiene- la guida dei processi di riforma
statuale. Non più nel segno della secessione
ma del federalismo.
Scorgo letture antiche e un poco intellettualmente
indolenti sulle ragioni del voto alla Lega.
Il fisco, gli immigrati, la sicurezza. Insomma
la difesa di sé dalle paure indotte dalla
globalizzazione, la quale certo crea nuove
opportunità a sud e a est del mondo ma ingenera
fortissime tensioni a nord e a ovest.
A mio modo di vedere non c’è più prevalentemente
questa motivazione “enclavista” nelle ragioni
del voto alla Lega. C’è molto di maggiormente
strutturato in quelle ragioni.
Nel mentre noi torniamo stancamente a dibattere
di partito del nord, la Lega si “snaturalizza”
e tende ad espandersi nazionalmente, scendendo
per li rami. Sulla base di una doppia azione
sociopolitica posta in essere, capace di
generare rappresentanza: patto di cittadinanza
e patto dei produttori. Risposta mediaticamente
efficace alle domande di tutela familiare,
di protagonismo individuale, di efficienza
del sistema pubblico, di dinamismo imprenditoriale.
Vale la pena rifletterci anziché riaprire
discussioni stantie e inutili. Del tipo:
a differenza nostra la Lega è radicata nel
territorio. Non sono i gazebo a portare linfa
alla Lega, né i circoli che in tanta parte
del nord, dove viaggia sopra il 25%, semplicemente
non esistono o sono assai meno dei nostri.
Né la coesione interna, visto che ovunque
è animata da uno scontro di potere, spesso
personalistico. Né la forza evocativa della
leadership di Bossi, oggettivamente ridottasi,
tanto che è più facile che la Lega viva oltre
Bossi che il PdL senza Berlusconi.
Il radicamento vero è nella sintonia tra
aspirazioni di una parte larga di italiani
e promessa politcoidentitaria. Dico promessa
non proposta. La promessa evoca molto di
più e nasconde tutti i vizi della prima repubblica
che la Lega ha ben assimilato. La proposta
resta in gran parte indefinita, nel dubbio
tra CSU italica e partito non più padano.
È la promessa, che raccoglie la protesta
e la volge in speranza, a fare della Lega
il partito chiave di questo tempo politico.
Capace di evocare il cambiamento. Anche contro
Galan, anche contro Formigoni. Anche contro
Berlusconi se servisse.
Temi che in diversi abbiamo posto in questi
anni, anche dalle colonne di Europa. Per
lo più inascoltati. È sufficiente richiamare
per tutti il Documento sul Nord, laddove
si poneva con forza la questione che nella
parte più dinamica del Paese noi fossimo
minoranza culturale prima ancora che politica,
delineando piste di lavoro.
Purtroppo in due sole occasioni, le definisco
così dato il loro tempo breve, abbiamo cercato
di agire per reimpostare la rotta e il lessico.
Con l’avvio di politiche concrete di modernizzazione
di Bersani ministro, con la piena acquisizione
culturale della rappresentazione dei problemi
e della rappresentanza degli interessi avvenuta
al Lingotto.
Per me l’atto fondativo del PD non è costituito
dalle primarie, ma dall’immaginazione socioculturale.
Da lì occorrerebbe ritessere la tela del
PDPenelope.
Abbandonando scorciatoie che non aiutano
e false metafore.
Sei anni fa ci inventammo il modello Penati
laddove c’era solo la tripolarizzazione,
oggi esaltiamo la vittoria a Lecco che in
realtà è la Mantova del centrodestra. Ovviamente
senza nulla togliere ai protagonisti democrat.
Voglio dire che nel buio il punto di luce
può non essere un faro ma un’illusione ottica.
Le risposte vanno trovate tessendo la tela
della modernità includente.
Lavoro difficile per un partito aperto che
opera in una società chiusa. Eppure l’unico
lavoro possibile per riprenderci la bandiera
del cambiamento condiviso ed evitare la marginalità
incombente.
Ecco perché queste elezioni non possono essere
trattate con l’addolcitore.
Può darsi che elettoralmente abbiamo tenuto,
politicamente subiamo una sconfitta seria.
Tanto più seria se guardiamo alle condizioni
generate dalle difficoltà dell’economia,
ai sommovimenti da tempo presenti nel centrodestra
accentuatisi in modo prevedibile e previsto
con la vittoria di Cota in Piemonte, al timore
innaturale con cui guardiamo alle elezioni
anticipate.
Tempo fa, con una battuta efficace e prospettica,
Bersani descrisse il nostro procedere come
una “traversata del deserto”. Assumendo quella
metafora le elezioni rappresentano per noi
il kit di sopravvivenza. Non certo la salvezza.
A maggior ragione dobbiamo riandare alle
ispirazioni e alle aspirazioni di fondo che
in qualche modo hanno dato vita al PD. È
un lavoro di medio periodo che ci attende,
ben più intenso di un’intervista.
Evitando discussioni francamente sconcertanti
sulla modellistica. Magari semplificando
e rendendo più sensata la struttura barocca
che agisce senza soluzione di continuità
da Veltroni a Bersani.
Discutendo seriamente, non ideologicamente,
delle primarie. Strumento che se non modificato
sarà fonte di ulteriori amare sconfitte,
perché di fatto subordina la partecipazione
alla balcanizzazione, impoverendo drammaticamente
la qualità della classe dirigente Altro che
grande evento democratico. Forse più che
primarie tra candidati territoriali e di
corrente in un partito similconfederato,
dovremmo immaginare primarie del merito e
dei contenuti in un partito si plurale ma
unitario.
Mi hanno colpito due aspetti che indicano
tratti degenerativi preoccupanti. Il primo
è che davanti alla sconfitta che si andava
materializzando, in molti erano incollati
ai monitor per sapere le preferenze di questa
e di quello, incuranti totalmente dell’esito
del PD. Lo slogan potrebbe essere: preferenze
non voti. Il secondo è che spesso il più
pirla dei capetti paracorrentizi locali usa
il termine “i miei”. Non il noi, non l’io,
ma i miei.
Occorre interrompe questa spirale autodissolvente.
Di questo e di altro dovremmo discutere seriamente,
anziché di quote territoriali che già ci
sono, di trentenni già immersi nelle reti
subcorrentizie o animati dal desiderio di
farne una in proprio. È proprio il caso di
dire che ben altro è il rinnovamento.
Discutere in modo sintonico e non schizofrenico
di riforme. Ad esempio di presidenzialismo,
considerando che noi stessi siamo presidenzialpopulisti
nella struttura partitica. Il filo della
narrazione reclama coerenza e taglio dei
nodi gordiani non biforcazioni.
O di riforme elettorali, evitando di diventare
un partito appenninico, secondo un infausta
previsione tremontiana che temo si avvererebbe
scambiando semplicemente la legge porcata
col mattarellum.
Di giustizia giusta, affermazione aborrita
ma quanto mai precisa.
Occorrerebbero gusto e luoghi per affrontare
tutto ciò e molto altro, declinando valori
e pensieri, per ben cogliere i frutti dello
showdown nel PdL.
Viceversa la vera emergenza democratica del
Paese sarà l’alternativa che non c’è. Come
l’Araba Fenice. E la paura del voto.
Luciano Pizzetti
n.b. l'articolo di Luciano Pizzetti dal titolo
"Il lavoro che ci attende al Nord"
pubblicato oggi ( 28 aprile) sul
quotidiano "Europa".
 
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