15 Settembre, 2002
Storia e destino - di Aldo Schiavone
Apriamo gli occhi sulla terza rivoluzione senza nostalgie o paure di naufragio etico (di Claudia Mancina, da Il Riformista)
Nel fortunato pamphlet "Occidentalismo", Buruma e Margalit hanno
illustrato come gli intellettuali europei abbiano sviluppato, a
partire dal primo romanticismo, una visione del mondo occidentale
incentrata sull'idea di decadenza e di caduta, di perdita
dell'innocenza e dell'autenticità, la cui causa veniva attribuita
alla mente moderna, calcolatrice e tecnologica. Quindi da un lato
allo sviluppo della manifattura e dei commerci (che poco più tardi
si manifesterà come sviluppo capitalistico), dall'altro allo
sviluppo scientifico e tecnico. La rivoluzione industriale, nel suo
insieme e nei suoi molteplici esiti - dall'urbanizzazione senza
precedenti alla rottura delle comunità tradizionali, al
sovvertimento del principio di autorità nella famiglia e nella
società - non ha mai avuto buona stampa presso gli intellettuali di
formazione umanistica, che (a parte la breve parentesi positivistica
e quella del tutto minoritaria del marxismo scientifico) da allora
si sono prevalentemente schierati per il passato piuttosto che per
il progresso, per un non ben identificato senso della vita piuttosto
che per la conoscenza scientifica, e infine sempre e comunque per la
nostalgia del noto e dell'usuale e il rifiuto del nuovo.
Oggi siamo di fronte a una terza rivoluzione, che è quella
bioinformatica, e ancora una volta gli intellettuali europei voltano
le spalle e guardano indietro. Nostalgia e misoneismo sono tuttora
le chiavi principali della maggior parte della letteratura
sociologica, filosofica, e perfino giornalistica. Siamo sommersi di
libri e articoli sul disagio della modernità, sulla liquefazione dei
legami sociali, sulla disumanizzazione dell'uomo. E un'opinione
pubblica da oltre due secoli formata in questo modo si nutre con
entusiasmo di tali categorie, guardando al futuro come a una
minaccia.
Il breve libro di Aldo Schiavone, dal titolo impegnativo "Storia e
destino", va coraggiosamente in tutt'altra direzione. Ci vuole
infatti coraggio intellettuale per esporsi alla inevitabile accusa
di scientismo. La sua piccola mole - cento paginette da leggere d'un
fiato, come dice l'autore - non deve trarre in inganno: si tratta di
un saggio ambizioso. Il punto di partenza è appunto che siamo nel
pieno di una rivoluzione paragonabile, per i suoi effetti non solo
materiali, ma anche intellettuali e etici, alle due grandi
rivoluzioni che hanno scandito i principali mutamenti nella storia
dell'umanità: quella agricola e quella industriale. Questa
rivoluzione richiede di essere pensata e governata; pone quindi
problemi di natura conoscitiva così come di natura etica e politica.
Ma anzitutto si tratta di capire, di valutare ciò che sta succedendo
e quale sia il futuro che si apre.
Il mestiere di storico si fa sentire: il primo passo del
ragionamento è una riflessione sulla storia della natura, comparata
con la storia della specie. Una storia naturale contro una storia
culturale, si direbbe. Ma ciò che Schiavone sostiene è proprio
l'inverso: che tutto è storia, l'universo così come l'uomo. La
differenza sta nella misura temporale: un tempo lentissimo, che può
apparire immobile, per l'universo; un tempo veloce, e poi sempre più
veloce e infine velocissimo, per l'uomo. Nell'un caso e nell'altro,
una storia che non può essere intesa come governata da leggi
necessarie né tendente a un fine, ma è sottoposta al caso e alla
probabilità, quindi al mutamento continuo. Da quando è apparsa la
vita sulla terra, il mutamento segue la logica casuale e
probabilistica dell'evoluzione. All'interno di questa storia si
colloca la vita umana, non centro né fine, certamente; ma posta al
vertice dell'evoluzione, perché solo in essa si è sviluppata
l'intelligenza come autocoscienza e capacità conoscitiva e tecnica.
Una specie di successo, così Schiavone definisce l'uomo: un
risultato eccezionalmente importante dal punto di vista evolutivo,
che dovrebbe convincerci che il caso non solo è potentissimo, ma fa
parte a pieno titolo della logica dell'esistente. Il caso e la
necessità, come ci dice la migliore tradizione neodarwiniana, non
devono essere contrapposti come materia e forma, come invece ancora
fa il pensiero religioso e non solo quello.
Veniamo ora ai nodi di natura etica che il libro affronta. Sono i
nodi intorno ai quali si è sviluppato e avviluppato il dibattito di
questi ultimi anni: il futuro della specie umana, il rapporto tra
natura e tecnica, il ruolo della religione e le scoperte delle
scienze della vita, le difficoltà della democrazia ad affrontare
questi problemi. Il futuro della specie è, secondo Schiavone, quello
di andare «oltre la specie». Ovvero di sottrarsi al pieno dominio
della selezione naturale per intervenire in essa attivamente. Questo
è precisamente lo scenario che appare così inquietante ai più, e che
evoca utopie negative, previsioni catastrofiche, insomma un'immagine
paurosa del futuro. È la sindrome di Frankenstein, l'idea che
l'enorme capacità tecnica dell'uomo moderno sia portatrice di
disumanizzazione o - si sarebbe detto una volta - di alienazione.
Perfino un filosofo serio come Habermas è caduto vittima di questa
sindrome, quando ha visto nella manipolazione genetica la
distruzione della libertà dell'individuo e quindi della sua umanità.
A Habermas Rusconi ha risposto che non si capisce come chi pensa che
esista una ontologia dell'uomo possa ritenere che una applicazione
tecnica - che può tutt'al più riprogrammare alcuni aspetti
funzionali - possa cambiare quell'ontologia. La risposta di
Schiavone va ancora più a fondo: la capacità e l'inventività tecnica
sono precisamente ciò che è più naturale nell'uomo, ciò che
attraverso un lunghissimo percorso di selezione naturale ha prodotto
quel che siamo. È proprio la separazione originaria tra natura e
cultura che viene dunque meno: perché il processo evolutivo ha
selezionato una cultura capace di sostituirsi con la propria tecnica
alla stessa selezione naturale che l'ha prodotta.
D'altra parte la natura, come si è già detto, non è meno storica
della cultura, anche se la sua storia segue ritmi temporali molto
più lenti: tanto lenti da creare l'illusione dell'immobilità e della
permanenza. Allora si contrappone al mutamento, all'invenzione, al
nuovo, ciò che è naturale, come se fosse un valore assoluto,
autofondato (o fondato sulla creazione divina). Ma il naturale non è
altro che un prodotto storico, anche se di lunga durata. Per decine
di secoli è stata considerata del tutto naturale la schiavitù;
ancora sino a ieri è stata considerata naturale la subordinazione
materiale, legale e spirituale delle donne (in buona parte del mondo
lo è ancora). Con la stessa convinzione vengono oggi considerati
naturali dai più il matrimonio, la famiglia, l'eterosessualità.
Ma la natura non può essere una fonte oggettiva e indipendente di
valori e di indicazioni normative. La natura non ha un fondamento
ontologico o una dignità etica maggiore di quella che ha la specie
nella sua attuale configurazione e nel suo sviluppo futuro. Perciò
anche la resistenza che la religione oppone alle conquiste
scientifiche e tecniche non è del tutto comprensibile. Perché mai un
cattolico non dovrebbe accettare la visione evoluzionistica della
vita, al posto di quella creazionistica e quindi sacrale, così come
non ritiene di dover ricorrere al soprannaturale per spiegare la
battaglia di Austerlitz o la fusione termonucleare? Perché la Chiesa
vuol trovare Dio nella biologia, e quindi difendere la biologia così
com'è, rifiutandone la modificazione artificiale? La risposta di
Schiavone è che qui c'è un nodo di potere: il potere sulla vita e
sulla morte, che la Chiesa non vuole cedere. Mi pare forse più
pertinente rilevare che la più profonda ispirazione teologica del
cristianesimo dà un grande spazio al male, all'errore, e rifugge
dall'ottimismo umanistico. E se il male positivamente c'è, dov'è più
facile trovarlo se non nell'artefatto umano, nella volontà di
trasformare il mondo e se stessi, nella hybris di chi vuol essere
come Dio? Forse è proprio questo il luogo del conflitto, come del
resto suggerisce anche il nostro autore, con una suggestiva lettura
della Genesi.
Molte altre cose ci sono in questo libretto; alcune possono apparire
sconcertanti, come l'anticipazione quasi visionaria di una prossima
liberazione dalla morte, o della perdita di senso della differenza
dei sessi, o della scomparsa degli imperi. Non tutto può esser
condiviso. Ma ciò che conta di più, una volta finita la lettura, è
il richiamo etico e politico a guardare in faccia il cambiamento, a
capirlo senza catastrofismi, a cercare nuove categorie per
affrontare i problemi nuovi. Non è vero, ci dice Schiavone, che se
abbandoniamo l'etica tradizionale ci troviamo nella terra ignota in
cui tutto è permesso; non è vero che l'unico modo di evitare il
naufragio morale e spirituale è attaccarci a qualche autorità fuori
del tempo - che sia Dio o la natura. La specie umana ha gli
strumenti per affrontare anche questi grandiosi mutamenti senza
perdersi, come ha fatto in altri tornanti della sua storia: non per
nulla è una specie di successo. Purché li usi, i suoi strumenti, e
non si seppellisca nella nostalgia di un mondo che in verità non c'è
mai stato.
nella foto: Aldo Schiavone 
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