15 Settembre, 2002
Salvemini parola di laico (di Bruno Gravagnuolo)
Supplemento a L'Unità del 6 settembre in collaborazione con Editori Riuniti
Tutte le parole chiave di un grande maestro, e lo era davvero,
da «analfabeti» a «verità». E passando per lemmi
come «Fascismo», «Quistione
meridionale», «Laicità», «Socialismo», «Razionalità», «Risorgimento»,
«Nazione», «Mezzogiorno», «Federalismo», «Cattaneo», «Democrazia», «
Libertà», «Individuo», «Scuola», «Liberalismo» e altro ancora. In
pratica tutte le idee di Gaetano Salvemini, uno dei padri della
democrazia italiana e della sua sinistra, inclusa quella comunista.
E senza il quale né la democrazia italiana né la sinistra avrebbero
genealogia culturale e orizzonti da inseguire.
Tutto questo troveranno domani in edicola i lettori de l'Unità, a
6,90 Euro oltre il prezzo del quotidiano, in occasione del
cinquantennale della morte dello storico pugliese, e nella
collana «Le chiavi del tempo», i classici di ieri e di oggi per
capire il mondo in cui viviamo, in collaborazione con gli «Editori
Riuniti»: Salvemini. Dizionario delle Idee, a cura di Sergio Bucchi.
Oltre centotrenta pagine essenziali più la bibliografia su Salvemini
e due scritti del curatore, biografico l'uno e di inquadramento
culturale l'altro.
Ma introduzioni a parte, è un libro che si può leggere anche passim,
saltando di palo in frasca, con la curiosità e la libertà di chi
sceglie di «spigolare» tra le cose che Salvemini pensò e per cui
lottò controcorrente.
E nondimeno siamo sicuri che comincia a spigolare tra le pagine e le
voci, sarà irrestibilmente trascinato ad approfondire e a vederci
più chiaro. Per capire chi fu quel meridinale ostinato e
rompiscatole (così si autodefiniva) che non si accasò mai con
nessuno, salvo la breve parentesi socialista dal 1919 al 1921 e che
tuttavia fu schieratissimo. Con la ragione critica, la laicità
intransigente, l'Illuminismo, i ceti subalterni e il socialismo,
declinato a modo suo.
Cominciamo dalle prime parole che formano «l'abbecedario» di questo
volumetto. Anzi dalla prima e dall'ultima: «Analfabeti», e «verità»,
tratti da scritti di occasione (ma il più delle voci viene dalle
Opere vere e proprie). Ebbene «esordisce» Salvemini, «gli analfabeti
almeno non pretendono di saperla lunga». E chiude così, nell'ultima
pagina: la «verità fabbricata»- quella di despoti e politicanti - è
facile da inventare e imporre e «difficile da amministrare». E
l'inganno alla lunga vien fuori. Invece la «verità ricercata»-
prosegue lo storico - è difficile da tirar fuori, ma «rimane sempre
la stessa e perciò è facile da amministrare».
A guardar bene c'è tutto Salvemini, in questo apparente buon senso.
C'è la tenacia «contadina» del figlio di agricoltori che non si fa
fregare e capisce altresì l'oppressione patita dagli umili. E c'è la
sapienza storiografica di chi sa che la scienza è fatica etica,
lavorìo di ipotesi da comparare e pesare, fino a elidere quelle che
non reggono. E c'è persino un'idea di politica: arte del
miglioramento umano. Che s'appoggia alle cose come sono, ma non
rinuncia a mutarle. Come? Diffondendo il sapere e il potere a tutti
e a partire dai «senza potere», dai subalterni. L'interesse dei più
diventava così in Salvemini la molla del progresso, il lievito della
trasformazione democratica innestata sui diritti sociali, una
trasformazione dove l'universalità democratica coerente con se
stessa era ipso facto e in divenire «socialismo». Detto in altri
termini: era la democrazia che non s'arrestava alla soglia dei
diritti liberali (privilegio dei pochi fino al primo suffragio
universale del 1911) ma invadeva anche la sfera dell'economia.
Dunque sapere come liberazione, scienza come etica universale,
storiografia come democrazia e conflitto di classi. Fuori da
metafisiche provvidenziali, da destini imperiali, determinismi
settari e fatalistici (anche marxistici). E in tal senso fortissima
fu la polemica di Salvemini contro l'idealismo italiano, vuoi nella
versione filofascista di Gentile, vuoi in quella
liberalconservatrice di Croce, la cui «libertà» - diceva - era
generica e proprietaria (la libertà dei «galantuomini»). Ma al di là
di queste inclinazioni «filosofiche» di metodo - la sua era una
filosofia razional/empirista malgrado «l'antifilosofismo» -
Salvemini ebbe tanto da dire da ridire nel concreto della vicenda
italiana del 900.
Vediamo alcuni suoi cavalli di battaglia. La «Quistione meridinale»
anzitutto, di cui sulle orme di Fortunato fu lo scopritore moderno.
Sua l'idea, passata a Gramsci, di un Meridione reso subalterno dalle
élites manifatturiere ed agrarie del Nord, in alleanza con il ceto
dinastico legato alla Corona e con il latifondo agrario e
assenteista del sud: il «patto scellerato», come lo chiamò Gramsci.
E a sigillo di ciò Salvemini indicava
la «burocrazia», «meridionalizzata» alla bisogna dal nord, per
meglio controllare l'altra Italia. Sua l'idea che fu di Banfield (e
prima di Lepopardi) del «familismo amorale»: tradizionalismo e
familismo dell'individuo italico. Individuo cinico e generoso,
scettico e creativo, furbo e antipolitico.
Sua l'idea dell'«antipolitica», che Salvemini allora
chiamava «antiparlamentarsmo». Un circolo vizioso e sovversivo tra
notabilati e popolo, contro la separazione dei poteri, contro le
regole e le istituzioni, volto a travalicarle in nome dell'«azione
diretta» sorretta da miti: nazione, popolo, individui carismatici
e «ammazzacattivi». Sua infine l'idea del fascismo come moderna
reazione di massa, figlia dell'antiparlamentarismo e della crisi di
riconversione seguita alla prima guerra mondiale, con la
sua «piccola borghesia sbandata». Perciò fascismo come arte retorica
massificata e « blocco tra ceti», ciascuno dei quali riceveva il suo
piccolo o grande tornaconto trasformista. E il tutto favorito
dall'impotenza dei socialisti, divisi tra riformismo imbelle e
rivoluzionarismo altrettanto imbelle e inutilmente sovversivo. Il
fascismo quindi come «sovversione dall'alto», né «rivoluzione», né
progresso. Orchestrato al vertice da un uomo geniale nella tattica e
nella propaganda, ma meschino e disonesto nella costruzione di fini
comuni: Mussolini. Infine il «trasformismo». Salvemini, nato al sud
e che al sud aveva fatto tanti viaggi elettorali tra braccianti e
contadini, lo individuò non solo come convergenza al «centro»
sorretta dal malaffare. Ma anche come liquefazione delle identità
politiche nazionali, a vantaggio di blocchi locali e corporativi che
lavoravano a fornire al centro politico una base parlamentare di
consenso. E con mezzi legali e illegali. Per questo lo storico
polemizzò contro Giolitti «ministro della malavita». Perché a
sostegno della sua base consociativa (operai del nord e industria)
spezzava l'unità delle classi subalterne, le privava di una visione
nazionale. E al contempo inaugurava un costume «democratico»
destinato a perdurare fino ad oggi. Non fu tutto giusto il giudizio
di Salvemini su Giolitti (e del suo allievo Gobetti). Poiché il
giolittismo con le sue aperture poteva favorire - se ben usato dal
Psi - equilibri di centrosinistra, capaci di scongiurare oltretutto
il fascismo. Ma giusto era il richiamo di Salvemini alla necesità di
un socialismo di massa e in prospettiva governante. Contro ogni
trasformismo identitario e subalterno, e contro il massimalismo
sterile. E basterebbe soltanto questa polemica, tra le tante, a fare
del nostro Salvemini un autore straordinario, profetico e attuale.
 
Fonte L'Unità
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