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						 15 Settembre, 2002  
						Il mio Pd corre un grave pericolo (di Michele Salvati)  
						Anche la fase che fece seguito alla sconfitta del 2001 vide  incertezze e tensioni nel centrosinistra - Cinque nodi -  Da Il Riformista
  
                      Anche la fase che fece seguito alla sconfitta del 2001 vide 
incertezze e tensioni nel centrosinistra. Ma i riformisti avevano 
ancora una carta da giocare e la giocarono, sia pure confusamente e 
in extremis: la trasformazione dell'Ulivo nel Partito Democratico. La 
fase che si è aperta dopo la sconfitta dell'aprile scorso vede 
incertezze e tensioni forse minori di allora, e sicuramente meno 
aperte, ma la carta da giocare non c'è più. Oggi non c'è una via 
d'uscita: o il Partito democratico regge e si consolida, oppure 
crolla l'intero disegno strategico che il centrosinistra ha 
perseguito da dodici anni a questa parte.
  
Poco male, diranno alcuni: la sinistra riformista non muore se muore 
il Partito Democratico. Se così avverrà, vuol dire che il progetto 
era mal congegnato, astratto, antistorico. Oppure - diranno altri - 
vuol dire che sono stati commessi errori irreparabili da parte 
dell'attuale segretario. Io la penso in modo diverso. Continuo a 
credere che il progetto del Pd sia un buon progetto, storicamente 
maturo nel nostro Paese, potenzialmente capace di unificare i 
riformismi che stanno tra il centro e la sinistra. E che, se il 
segretario ha commesso errori - quasi sempre condivisi dai massimi 
dirigenti del partito - questi non sono irreparabili. Penso anche, 
però, che il Pd sia in serio pericolo. Penso infine che, se fallisse, 
di certo la sinistra riformista non morirebbe, ma resterebbe 
tramortita per un periodo imprevedibilmente lungo.
  
Tranne queste ultime, si tratta di opinioni che qui non posso 
difendere: l'ho fatto tante volte in passato e le mie idee in 
proposito non sono cambiate. Posso però motivare il mio allarme per 
lo stato attuale del partito. Prima di entrare nel merito, due 
premesse. (a) La prima è imposta dal momento in cui scrivo, 
dall'esplosione della "questione morale" in riferimento alle 
amministrazioni locali di centrosinistra. Non ne tratto perché, pur 
essendo dannosa per l'immagine del Pd, non costituisce una di quelle 
minacce alla sua identità/sopravvivenza di cui intendo occuparmi ora. 
Anzi, esaurite le polemiche, essa potrebbe persino lasciare due 
conseguenze positive. Una maggiore attenzione del partito 
sull'attività delle persone che esso candida a cariche istituzionali, 
come è prevista con lungimiranza e dettaglio sia dallo statuto, sia 
dal programma. E una maggiore cautela nel fondare su questioni di 
moralità/legalità la distinzione tra il centrodestra e il 
centrosinistra. (b) La seconda premessa è che mi riferisco alle 
condizioni minime di funzionalità del Pd, come di fatto è uscito 
dalla fusione di due partiti e due ceti politici. Detto altrimenti, 
non mi riferisco ad una radicale riapertura del cantiere dell'Ulivo, 
come alcuni sognano e anche a me piacerebbe, ma che trovo al momento 
poco realistica.
  
Le difficoltà del Pd, quelle che ne appannano l'identità e ne 
minacciano la sopravvivenza, non stanno né nelle sue proposte di 
politiche europee e internazionali, né in quelle relative a questioni 
economico-sociali, né in quelle miranti ad una maggiore efficienza 
del settore pubblico. E neppure in quelle, delicatissime, riguardanti 
immigrazione e ordine pubblico. Insomma, per gran parte delle materie 
che maggiormente interessano ai cittadini, non vedo ostacoli che 
impediscano la costruzione di un programma buono e largamente 
condiviso. E infatti era buono e condiviso il programma presentato 
nelle ultime elezioni. Omettendo in questo articolo una dimostrazione 
di quanto ho appena affermato, tento un breve catalogo delle ragioni 
che, a mio parere, minano la credibilità del Partito democratico e 
l'efficacia della sua azione. Si tratta di interna corporis, di 
problemi che normalmente ai comuni cittadini non interessano, ma poi 
si riflettono in una confusione dell'immagine del partito e in 
incertezze della sua leadership.
  
1 Un residuo problema ideologico-culturale. Quante volte si è detto 
che il successo dell'operazione Pd lo si sarebbe misurato 
sull'effettiva integrazione tra le grandi tradizioni riformistiche 
che in esso confluivano, e soprattutto tra la tradizione cattolica e 
le altre: socialista, comunista, liberale! Che si sarebbe misurato 
sulla formazione di un nuovo patriottismo "democratico", che 
superasse e avvolgesse i precedenti patriottismi. Se questo è il 
metro di misura, si deve concludere che si è trattato di un 
insuccesso. Sinora. Le vecchie appartenenze continuano a dividere il 
partito e un nuovo patriottismo "democratico" non si è ancora 
formato. Perché? 
I motivi ideologici di dissenso sono seri, anche se non insuperabili: 
sui temi della famiglia e delle convivenze, sui temi eticamente più 
delicati, sulla laicità, sui rapporti colla Chiesa cattolica e le 
altre confessioni, ci sono differenze reali, e su di esse si formano 
patriottismi tenaci. Patriottismi che la nuova identità democratica 
fa fatica a inglobare per la debolezza della distinzione tra destra e 
sinistra oggi, per la fragilità del "patriottismo di sinistra". Il 
centrodestra non è più reazionario e codino e il centrosinistra è 
venuto a patti con il mercato e l'individualismo liberale: passare 
dall'uno all'altro schieramento, per molti, non è più sentito come un 
tradimento identitario. Mentre può essere sentito come tale, da non 
pochi cattolici, il venir meno alle indicazioni delle gerarchie 
ecclesiastiche. Su gran parte dei problemi che interessano il 
cittadino comune c'è una notevole omogeneità tra le grandi tradizioni 
riformistiche. Ma anche il divorzio, l'aborto, la procreazione 
assistita, la differenza tra matrimonio e convivenze, l'accanimento 
terapeutico, l'eutanasia, il finanziamento statale delle scuole 
confessionali..., e via seguendo, sono temi che interessano i 
cittadini, e forti differenze nelle esternazioni di autorevoli 
esponenti del partito non avvantaggiano certo la sua immagine. In 
sintesi: il programma dell'Unione era molto incoerente; quello del Pd 
lo è assai di meno, ma residua un'area di incoerenza significativa.
Dunque, motivi di dissenso ideologico ci sono. A mio avviso essi 
sarebbero facilmente componibili se non si sovrapponessero a vecchie 
appartenenze organizzative e ai modi in cui queste si sono trasferite 
nel nuovo partito: non è sempre facile capire se il dissenso 
ideologico è causa di separatezza organizzativa, o se è un puro 
pretesto per giustificarla. Per come si sono svolte, le primarie non 
sono state un'occasione di rimescolamento delle vecchie forze o di 
ingresso di nuove, ma un semplice veicolo mediante il quale si sono 
trasferiti nel nuovo partito i due ceti politici di Ds e Dl, più o 
meno - poche le sorprese - nelle proporzioni fotografate al momento 
della fusione. Dopo d'allora queste proporzioni si sono mantenute, 
sia a livello locale che a livello nazionale. Su questo tornerò 
subito, perché riguarda uno dei temi che dobbiamo trattare, 
l'organizzazione del partito. Ricordavo qui il problema perché la 
somma di differenze ideologico-culturali e di diverse origini 
organizzative ha creato un partito a "canne d'organo", a pilastri 
paralleli, attentissimi alla propria indipendenza e alle proporzioni 
relative, pronti alla polemica tutte le volte che le proprie 
bandierine sono minacciate: un esempio canonico (e noioso) è quello 
del gruppo parlamentare europeo, ma non passa giorno che non ce ne 
offra uno nuovo. Un partito a pilastri o a canne d'organo, oltre ad 
essere poco attraente per l'elettore, è un partito già predisposto 
per la rottura. Il Pd nasce sulla scommessa di fondere i riformismi 
storici, di creare una emulsione fine tra riformismi laici e 
riformismo cattolico. Se si perde la scommessa, si perde il partito.
  
2 Il modello di partito. Sale ovunque la richiesta di un partito 
solido, radicato nel territorio, con organi dirigenti ben definiti e 
ragionevolmente stabili: insomma, il vecchio modello del Pci e dei 
grandi partiti socialdemocratici europei. In modo diverso, della 
stessa Democrazia cristiana. E nello stesso tempo è forte 
l'attrazione per un modello di partito aperto ai potenziali elettori, 
continuamente rimescolato da elezioni primarie: l'Ulivo è nato su 
questo disegno, soprattutto perché è attraverso le primarie, primarie 
vere e competitive, che si pensava di sparigliare le vecchie 
appartenenze. Ora si tocca con mano che tra i due modelli c'è una 
forte tensione, se non una contraddizione di principio. E che 
l'attuale statuto è un compromesso precario e instabile tra i due. 
Non c'era bisogno di aspettare il pasticcio di Firenze per rendersi 
conto dell'effetto dirompente che primarie vere, fortemente 
competitive, esercitano sul vecchio modello: non è certo per ignavia 
che Bersani non volle affrontare la competizione con Veltroni. Per 
dirla con D'Alimonte «in gioco ci sono due diverse concezioni della 
democrazia e del ruolo dei partiti. Non si può avere tutto e il 
contrario di tutto - partiti forti e primarie vere, democrazia dei 
partiti e democrazia diretta - senza aver approfondito come questi 
diversi elementi possano coesistere in una sintesi coerente». Ma una 
qualche sintesi provvisoria, più spostata verso il partito 
tradizionale o verso il partito all'americana, bisognerà pur 
raggiungerla. Come bisognerà pur raggiungere una qualche sintesi tra 
il modello federale o nazionale: i due problemi sono parzialmente 
collegati, perché un modello di primarie regionali ben si adatta a un 
modello federale, a… un modello di "cacicchi", qualcuno direbbe. Ma 
il collegamento non è necessario: si possono avere primarie vere su 
un impianto nazionale e si può avere un modello federale anche con 
primarie finte e organizzazione di partito tradizionale. Comunque, 
per entrambi i problemi, è difficile presentare agli elettori un 
profilo convincente nel contesto delle continue polemiche suscitate 
dalla loro mancata soluzione. Da una soluzione tradizionale, o da una 
innovativa. O da un qualche compromesso tra le due, ma chiaro e 
lealmente accettato dalle parti in contesa. Il problema è serio, 
anche se, per fortuna, non si sovrappone al problema precedente, 
giacché "tradizionalisti" e "primaristi", con una netta prevalenza 
dei primi, sono ben distribuiti nel ceto politico che proviene dai 
due vecchi partiti.
  
3 La forma di stato e di governo. Anche la problematica istituzionale 
e costituzionale poco interessa gli elettori, ma è fonte di tensioni 
e polemiche interne e dunque raggiunge i comuni cittadini attraverso 
la cattiva immagine che da di sé un partito diviso e litigioso. Un 
pezzo importante di questa problematica è all'ordine del giorno, il 
federalismo fiscale, ma altri sono in lista d'attesa: in tema di 
giustizia, di forma di governo, di sistema elettorale. Sul 
federalismo fiscale, e ancor di più sugli altri temi di riforma 
costituzionale, i dissensi sono molto forti (lo sono anche nel 
centrodestra, ma è magra consolazione). C'è chi pensa (anche se non 
lo dice) che la riforma del titolo V sia stata una grande 
sciocchezza, un cedimento nei confronti della Lega, e che la 
Costituzione non dev'essere rimessa in alcun modo in discussione, né 
per quanto attiene alla forma di Stato, né per la forma di governo. E 
ci sono federalisti convinti e innovatori forti sulla forma di 
governo, disposti a significative modificazioni dell'intero 
ordinamento della repubblica, parlamento, presidenza, governo, ordine 
giudiziario. Per fortuna, anche in questo caso, i contrasti cui 
abbiamo accennato non si sovrappongono alla frattura tra i due ceti 
politici di provenienza, e dunque non l'aggravano, essendo largamente 
trasversali a entrambi. Ma creano tensioni e incertezze, ostacolano 
la libertà di movimento e l'iniziativa politica, specialmente quando 
il governo è impegnato in un programma di riforma costituzionale che 
esigerebbe una risposta chiara da parte dell'opposizione.
  
4 Il futuro del sistema partitico, le alleanze e la legge elettorale. 
Questo è un tema che divide il partito in profondità, anche se vale 
la stessa osservazione già fatta per i due precedenti: la linea di 
divisione non passa tra ex-Ds ed ex-Dl, essendo trasversale a 
entrambi. Insieme con la mancata integrazione dei due ceti politici, 
si tratta del (potenziale) conflitto più minaccioso per la 
sopravvivenza del Pd. Finora è rimasto latente perché lo strumento 
che potrebbe trasformarlo in conflitto aperto - una riforma della 
legge elettorale - non è disponibile: al centrodestra va benissimo la 
legge attuale, o comunque qualsiasi legge proporzionale con premio di 
maggioranza per la coalizione, e finché le cose stanno così ci si 
deve rassegnare al bipolarismo in cui ci troviamo. Si tratta di una 
condizione molto sfavorevole per il centrosinistra, perché non ha 
funzionato né la strategia di chiamare a raccolta l'intero fronte 
antiberlusconiano (2006, esito pari, e poi governo affannato e 
litigioso), né quella dell'"andare da soli" (2008, pesante 
sconfitta). Come reagire? Anche se l'attuale governo scontentasse 
profondamente gli elettori, montare una coalizione antiberlusconiana 
tipo 2006 difficilmente garantirebbe una vittoria: l'Udc e altri 
gruppi centristi mai parteciperebbero all'alleanza e, nel caso 
improbabile di una vittoria, sarebbe invece probabile un governo 
incoerente. Quanto all'alternativa dell'"andare da soli", essa può 
essere stata utile per affermare l'identità del neonato Pd nel 2006, 
ma si è visto quali esiti elettorali produce. È per questo che molti 
nel Pd, sia di provenienza Ds che Dl, guardano con interesse ad una 
possibile alleanza con l'Udc e - se e quando sarà possibile - ad una 
legge elettorale di tipo tedesco, proporzionale con sbarramento, ma 
senza premio di maggioranza per la coalizione. È evidente che, in 
questo caso, l'alternanza come si è praticata negli ultimi 
quattordici anni sarebbe finita, i governi non sarebbero scelti dagli 
elettori ma formati in parlamento, e sarebbero fortemente 
avvantaggiati i partiti che si collocano al centro dello schieramento 
politico e possono allearsi sia a destra che a sinistra. La strategia 
dell'Ulivo, strettamente legata ad una legge elettorale 
maggioritaria, alla possibilità di alternanza, alla formazione di due 
coalizioni contrapposte e tra le quali gli elettori devono scegliere, 
non sarebbe più praticabile e la stessa sopravvivenza del Pd com'è 
adesso, come tentativo di fusione delle tradizioni riformiste laiche 
e cattoliche, sarebbe probabilmente minacciata. Si creerebbe infatti 
lo spazio per un partito centrista moderato, a prevalente ispirazione 
cattolica, un partito che parteciperebbe a tutti i possibili governi, 
e il suo potere di attrazione sui cattolici moderati, ora costretti a 
schierarsi a destra o a sinistra, sarebbe molto forte. Il Pd, in 
questo caso resterebbe un partito a prevalente ispirazione 
socialdemocratica, che al governo potrebbe partecipare solo 
alleandosi con il partito (o i partiti) di centro, probabilmente 
destinato/i a rafforzarsi.
  
5 Come fare opposizione. Le incertezze che il Pd ha manifestato in 
questi otto mesi di opposizione non possono essere imputate solo al 
mutato atteggiamento di Berlusconi o al pressing incessante di Di 
Pietro, ma ad oscillazioni nel gruppo dirigente circa l'immagine che 
il Pd vuole dare di sé. Quale immagine? L'immagine di un partito 
responsabile, con idee proprie su ogni problema di governo, pronto a 
contrastare i provvedimenti della maggioranza se da quelle idee si 
discostano, ma anche a collaborare se è possibile trovare una 
mediazione benefica per il Paese? Insomma, l'immagine che si è data 
al Lingotto e in campagna elettorale, e che si voleva dare col 
governo ombra? Oppure l'immagine di un partito ostile in via 
pregiudiziale, che approfitta di ogni passo falso del governo per 
segnalarne l'inettitudine o lo spirito partigiano, senza curarsi più 
di tanto di proporre alternative realistiche ai provvedimenti che 
critica? Affermare la prima immagine non è facile e nel breve periodo 
può essere costoso: significa abbandonare il principale privilegio 
dell'opposizione, che è quello di criticare senza fare contro-
proposte realistiche e di sostenere le ragioni di tutti gli interessi 
colpiti dai provvedimenti dei governo. Significa avere idee 
sufficientemente chiare e condivise su una vasta gamma di problemi, e 
abbiamo appena visto che su alcuni questa condivisione manca. 
L'immagine alternativa è più facile ed è quella cui buona parte del 
popolo di sinistra è stato assuefatto nei lunghi anni di 
demonizzazione reciproca tra centrodestra e centrosinistra. E siccome 
la concorrenza di Di Pietro su questo bacino elettorale è forte, e 
Berlusconi poco affidabile come interlocutore e anche lui pronto alla 
demonizzazione (Il Pd "marxista-leninista"? Suvvia!), lo spostamento 
in direzione di questa seconda immagine è stato quasi imposto dalle 
circostanze. Ma è proprio questa l'immagine che il Pd vuol dare? 
Dov'è andato a finire lo spirito del Lingotto e del governo ombra?
  
Madamina, il catalogo è questo. Questo è il catalogo delle 
difficoltà che incontra il progetto del Partito democratico: messe 
una di seguito all'altra, fanno una certa impressione e segnalano una 
situazione di pericolo. Il progetto può fallire. I due pilastri dei 
partiti costituenti sono ancora sufficientemente distinti da potersi 
staccare o frammentare, qualora un diverso sistema di incentivi 
istituzionali ed elettorali ne fornisse l'occasione. La grande 
innovazione delle primarie fa fatica ad attecchire in un partito che 
di fatto si è riorganizzato in modo tradizionale. Sulle riforme 
istituzionali e costituzionali le idee sono contrastanti. Si sta 
facendo sempre più forte la sensazione che il il Pd non sia in grado 
di vincere costruendo una grande coalizione, e men che meno correndo 
da solo. "L'Italia è fatta così", "è un Paese naturaliter di destra", 
e la via d'uscita che non pochi auspicano è quella lasciare liberi 
tutti in un gioco proporzionale: il governo, come prevede la 
Costituzione, lo si farà in parlamento e, se va bene, la sinistra 
riformista governerà insieme al centro. Forward to the Past, avanti 
verso il passato! Questa sarebbe la fine del bipolarismo, dell'Ulivo 
e probabilmente dello stesso partito democratico, come fusione delle 
grandi tradizioni riformiste. 
Non credo affatto alle affermazioni che ho messo tra virgolette, ma 
la risposta di chi ci crede ha una sua forte e conservatrice 
coerenza: perché imbarcarsi in una faticosa convivenza - nel partito 
democratico - con chi proviene da diverse tradizioni? Perché mettere 
in piedi le primarie, macchine complicate e che rischiano di spaccare 
quel poco che rimane del partito? Perché rimaneggiare, nuovi 
apprendisti stregoni, la forma di stato e la forma di governo 
disegnate dalla Costituzione repubblicana? Perché non tornare al 
centro-sinistra, con un robusto trattino in mezzo? Come si vede, per 
tutti o quasi i problemi che ho menzionato, le possibili risposte si 
lasciano facilmente collocare su un asse dove, ad un estremo, c'è una 
posizione conservatrice ("ci siamo sbagliati, torniamo indietro"), 
all'altro estremo una posizione di rilancio del progetto ("non siamo 
stati abbastanza coraggiosi"). Sono entrambe posizioni comprensibili 
e legittime, come lo sono altre possibili, intermedie. Il guaio è che 
non vengono fuori con chiarezza. La mancanza di chiarezza, di 
discussione esplicita, induce sospetti e conflitto, un'atmosfera di 
crispacion, direbbero gli spagnoli - di irritazione, di 
esasperazione - che avvelena il partito. Non sarà certo la conferenza 
programmatica a metter fine a questa atmosfera. Forse potrà farlo un 
congresso ben preparato. Molto ben preparato, da dirigenti che si 
rendono conto del pericolo.
  
 
 
          Fonte Il Riformista
 
 
 
  
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