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 Attualità

15 Settembre, 2002
Gaudente Cremona (di Marco Dotti da Il Manifesto)
*Sullo sfondo di un paesaggio che pare immobile, la sconfitta del sindaco uscente Gian Carlo Corada e l'ingresso nel Palazzo del Comune di un esponente dell'antipolitica come il canoista Oreste Perri non sono un'apocalisse, ma la spia....

Sullo sfondo di un paesaggio che pare immobile, la sconfitta del sindaco uscente Gian Carlo Corada e l'ingresso nel Palazzo del Comune di un esponente dell'antipolitica come il canoista Oreste Perri non sono un'apocalisse, ma la spia di un malessere che ha reso il centrosinistra una minoranza culturale, incapace di valutare realisticamente il proprio peso «Non innovare in nulla, questa è la legge della provincia». Così scriveva Honoré de Balzac nella Rabouilleuse, opera di mezzo delle sue memorabili Scènes de la vie de province.

Colpisce, arrivando in treno a Cremona, la quasi immobilità del paesaggio: una campagna che si estende, con sottili variazioni di colture e colori da Caravaggio a Crema, da Madignano a Soresina, intervallata da case e stazioncine in cemento armato alle quali fanno da naturale contrappunto silenzio e ritmi lenti. Anche quelli del treno che, in un'ora e venti minuti esatti, con calma olimpica percorre i circa sessanta chilometri che separano la città del Torrazzo dalla stazione bergamasca di Treviglio, snodo ferroviario fra i più importanti e bistrattati d'Italia. Lo sanno bene i pendolari che, ogni mattina, saltando da una carrozza all'altra sfidano ritardi, soppressioni di corse e stress da sovraffollamento per raggiungere il posto di lavoro a Bergamo, Brescia, Milano o Verona. Per loro la vita non cambierà, nemmeno con la Tav che, proprio da Treviglio, dovrebbe presto riaprire i cantieri per completare il raccordo tra Milano e Verona. Almeno in questo, Balzac aveva ragione: sui trasporti, sulla mobilità oramai insostenibile di uomini e merci, la provincia non ha innovato nulla.

Un oro per il centrodestra

Pur mantenendo indolenza e indole da belle noiseuse, come molte città del contesto produttivo della Padania (usando il termine nella torsione semantica a suo tempo impressa da Cesare Zavattini) Cremona si è trovata al centro di un cambiamento di amministrazione che, a prima vista, potrebbe sembrare «radicale» e di sistema. La sconfitta, pur se per una manciata di voti e per giunta al ballottaggio, del sindaco uscente Gian Carlo Corada e l'ingresso nel Palazzo del Comune di un esponente dell'antipolitica come Oreste Perri - canoista, medaglia d'oro ai Giochi di Città del Messico, Belgrado e Sofia, nel 1974 e '75 - ad alcuni sembrano elementi sufficienti per inserire Cremona nella cerchia dei «casi critici» di città non solo numericamente, ma anche culturalmente passate a «destra».

Le cose, però, almeno per il capoluogo non sono così semplici, né scontate. Diverso è il caso della provincia, dove la prevalenza del lavoro agricolo struttura in termini molto diversi le tendenze al voto. Il «passaggio a destra» è comunque iscritto nei numeri e da qui conviene partire. Numeri che, il 23 giugno scorso, hanno visto il candidato in quota An del Popolo della Libertà, Oreste Perri, vincere di misura con un 51,51% su un totale di 36mila votanti, pari al 63,% degli aventi diritto. Difficile, comunque, accettare i toni da «apocalisse culturale» sfoderati da alcuni esponenti del Pd locale, forse più interessati a regolamenti di conti sul piano interno e a rigiocarseli, questi «conti», in vista dei rinnovi di direttivi e organigrammi, che a capire davvero cosa sia successo. Da un punto di vista quantitativo non è una débacle, ma il risultato, arrivato alla fine di una lunga corsa conclusasi molto male per il centrosinistra lombardo (che si era già visto sfilare Lodi, Bergamo, Pavia e la Provincia di Milano), ha sovraccaricato qualitativamente il tutto di ragioni che, evidentemente, non potevano né possono limitarsi al solo aspetto «locale».

A questo va inoltre aggiunto il fatto che pure le elezioni provinciali cremonesi hanno visto letteralmente trionfare, al primo turno per giunta, contro un ex democristiano navigato come Giuseppe Torchio il giovane candidato di Lega, nuovo Psi e Pdl, Massimiliano Salini. Il nuovo presidente della Provincia - che dal 1990 era retta ininterrottamente dal centrosinistra - si presentava alla prova dei fatti con uno slogan che, evidentemente, ha esercitato un'ottima impressione sugli elettori: «un nuovo Rinascimento, nel nostro territorio». Forte di settemila preferenze personali, che valgono un 3%, e di un incredibile exploit della Lega nelle campagne, Salini ha beneficiato di un certo malessere popolare, riuscendo a veicolare il disagio e ad amalgamare le esigenze di territori molto diversi - il cremonese, il cremasco e il casalasco - attorno a un obiettivo comune. Obiettivo che, nell'ottica di Salini, è principalmente quello dell'«apertura verso le grandi e prossime sfide comuni della Lombardia, una terra che è all'avanguardia nel panorama europeo e del cui protagonismo dobbiamo partecipare».

Le «grandi sfide», va da sé, sono quelle che porteranno alla resa dei conti definitiva, con le elezioni regionali in Lombardia nel 2010 e con il «progetto culturale» che sta a monte. Perché, al di là di tutto, il centrodestra ha una sua chiara visione delle cose (scuola, sanità, musei), mentre è difficile capire che cosa muova il cosiddetto centro sinistra, quale visione della società e delle cose propongano. E queste incertezze si scontano, sia sul breve, sia sul lungo periodo. C'è chi parla comunque di un accordo già raggiunto sul nome di Maria Stella Gelmini, ma è quanto meno dubbio che la Lega accetti di «non pesare» per quanto realmente pesa, in una regione che l'ha vista crescere non solo numericamente, ma anche in termini di classe dirigente.

Non solo Lombardia

I «nuovi leghisti» sono tutt'altra cosa dai «brutti, sporchi e cattivi» alla Borghezio e Salvini che siamo abituati a vedere «rappresentati» (appunto) nei media nazionali. Ci sono anche loro, «i Borghezio», ma al fianco di avvocati, commercialisti, funzionari giovani e spesso efficienti, capaci di coniugare la foga ideologica con un realismo politico che oramai, va detto, è merce rara nella sinistra lombarda. Abbinano al proclama ad usum delphini, la classica «sparata» per confondere le acque, un pragmatismo cinico e non meno violento. Ma si muovono su altri registri e con altri codici e, per contestarli, questi codici vanno prima di tutto intercettati. Con loro, volenti o nolenti, dovremo confrontarci nei prossimi anni. Ma Cremona «non è» solo Lombardia.

Passato il ponte, attraversato il Po ci si ritrova in Emilia Romagna ed è evidentemente al modello culturale di questa regione, più che alla Lombardia di Formigoni, che guardava lo sconfitto Gian Carlo Corada. Storico delle idee, professore, scrittore - il suo ultimo romanzo si intitola Apocalypsis Nova - Corada ha amministrato provincia prima e comune poi. Politico di lungo corso, già iscritto nelle file del Partito Comunita Italiano è convinto di lasciare al suo successore «una città ai massimi livelli italiani per servizi sociali ed educativi, una città culturalmente molto vivace». Ciò nonostante, non può che dirsi preoccupato per ciò che si preannuncia. A settembre, dichiara, «mi aspetto, purtroppo, una recrudescenza della crisi economica - crisi che finora a Cremona città non ha causato molti cassintegrati e licenziati - come già sta avvenendo in parte della provincia. La struttura economica nel complesso reggerà. Per quanto riguarda servizi sociali ed educativi, non mi aspetto grandi rivoluzioni: un poco più di privato, qualche taglio... Per la cultura pure: qualche iniziativa in meno, meno vivacità». Ma il problema vero Corada lo individua in quella «centralizzazione» dei problemi o, per meglio dire, del dibattito sui problemi che ha fatto prevalere una logica da proclama, sottostimando così un malessere che si presenta su molti piani. Un malessere che probabilmente ha reso - anche da queste parti, dove la prossimità con la «rossa» Emilia Romagna ha sempre giocato un ruolo determinante - il centro sinistra una vera e propria minoranza culturale costantemente capace di sovrastimare il proprio peso e il proprio ruolo nei processi di trasformazione sociale in atto. «Il malessere è reale», afferma comunque Corada. Ma «non è legato solo (ma anche) alla scarsità di infrastrutture e ai problemi di sicurezza. Il centralismo ha fatto grandi danni. Le difficoltà economiche portano i più deboli a vedere gli "stranieri" come concorrenti per il lavoro o per la casa. Dobbiamo prendere atto di questa realtà e prepararci a un lungo cammino, ripartendo dalla costruzione di una rete di base nei quartieri». Forse la crisi arriverà davvero, forse non arriverà con l'intensità prospettata da Corada, sta di fatto che in città la qualità della vita è ancora in genere molto alta e riguarda una popolazione tendenzialmente anziana. Anche i conti con la «cultura», dunque, si giocano in rapporto alle esigenze di questa fascia della popolazione

La cultura del paesaggio

Assente la grande impresa, sono gli agricoltori, qui, a rappresentare il motore trainante dell'economia e a far valere tutto il loro peso specifico (anche nella stampa locale). Un'economia che, per ora, regge. Forse proprio grazie ai suoi ritmi, alla sua lentenza, alla sua (chissà quanto à la Balzac) incapacità di innovare. Anche sul piano della cultura. E questo, in tempi di crisi, non è probabilmente un demerito. Franco Ferrari, detto «Frando», è uno di questi agricoltori. Non ha studiato, «la mia famiglia non aveva soldi, e io dovevo dare una mano». Ma, ci dice con una punta di orgoglio, « i miei figli sono tutti laureati, e in qualche modo hanno studiato anche per me». Lettore di Calvino, appassionato di liscio e di operette, ha un abbonamento al locale, prestigiosissimo Festival Monteverdiano che da anni attrae appassionati da tutta europa. Per la sua ventiseiesima edizione, conclusasi il 12 giugno scorso proprio mentre in città si consumava un confronto elettorale molto duro, il Festival ha presentato un omaggio a Händel, nel duecentocinquantesimo anniversario della sua morte. «Io ho votato Perri», dichiara, «perché è uno di noi, non troppo integrato nelle logiche dei partiti, conosce Cremona e la ama». Frando colleziona quadri di minori lombardi. Quadri probabilmente senza mercato, che compra nei mercatini rionali di anticaglie e antiquariato, ma nei quali lui si riconosce. «La nostra terra è così», dice mostrando una crosta che sostiene essere del Piccio, un pittore romantico che - ironia della sorte - morì annegando proprio nelle acque del Po, nel 1874 o giù di lì. Poi ci offre del vino e una strana brodaglia, che probabilmente non sfigurerebbe tra le pagine dell'Abbuffone, il mitico ricettario di Ugo Tognazzi, cremonese doc pure lui. Difficile che l'onda travolga la placida Cremona e anneghi il suo rapporto, fieramente provinciale, con la cultura.

Una cultura che non «passa dai libri», ma da aspetti materiali, della vita quotidiana. Qui, più che altrove, il termine «cultura» non appare un vuoto esercizio di stile, ma si declina in termini di ottima musica - dalle liuterie alle scuole civiche, dalle bande ai corsi serali: tutti, qui, vivono in qualche modo a contatto con la musica - e di una non meno straordinaria cucina. Ma soprattutto nel rapporto particolarissimo che, come Frando, i cremonesi intrattengono con il «grande fiume» e il suo paesaggio.

Marco Dotti (nella foto)

 


       CommentoFonte: Il Manifesto del 22 luglio 2009



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