15 Settembre, 2002
Immigrati: imprenditori o lavoratori comunque sfruttati ( di Gian Carlo Storti)
Per compiere passi in avanti ci vuole una forte volontà di quattro soggetti : degli enti locali, degli imprenditori, del sindacato e del volontariato.
Immigrati: imprenditori o lavoratori comunque
sfruttati ( di Gian Carlo Storti)
Per compiere passi in avanti ci vuole una
forte volontà di quattro soggetti : degli
enti locali, degli imprenditori, del sindacato
e del volontariato.
Gli imprenditori immigrati in Italia sono
circa 180 mila. Il numero è triplicato dal
2003 ad oggi.
È la Lombardia in testa a questa classifica
con circa 30 mila aziende.
La gamma delle imprese gestite dagli stranieri
è vasta: dagli allevatori agli agricoltori
(circa 2.500), dall'edilizia al commercio,
dalla gestione di phone center fino alla
creazione di piccole case di moda.
E’ una crescita tanto più sorprendente se
si pensa che tra gli italiani, in quest'ultimo
periodo, la situazione è stabile o, in alcuni
casi, caratterizzata da una leggera flessione.
Particolarmente significativo è la situazione
in alcune regioni del nord, dove l'iniziativa
imprenditoriale degli immigrati sta facendo
rivivere la situazione degli anni Sessanta
e Settanta, con il boom delle piccole aziende
create dai meridionali, prima impiegati nelle
grandi fabbriche.
Tra le grandi collettività, il Marocco è
quello maggiormente dedito al commercio (gestiscono
infatti il 67,5% delle imprese attive in
quel settore) e la Romania all'edilizia (più
dell'80%) mentre la Cina si ripartisce tra
l'industria manifatturiera (46%) e il commercio
(44.6%).
Questa medaglia degli immigrati-imprenditori
ha due facce come sempre.
La prima, quella più nera, nasconde lavoro
subordinato ( in particolare gli addetti
alla edilizia ed all’agricoltura) e consente
, agli imprenditori “ veri” di disporre con
modalità molto flessibili di manodopera a
prezzi contenuti ma “regolare” in ragione
delle variegate esigenze produttive.
La seconda, quella più socialmente interessante
e che permette una costante e forte integrazione
è per davvero legata ad un lavoro vero, a
volte , anche in questo contesto, non più
svolto dagli italiani.
Gli esempi sono moltissimi: si va dalle attività
ambulanti ( basta andare nelle nostre piazze
per rendersi conto della presenza extra-comunitaria)
ad attività ormai scomparse come le sartorie.
Sartoria non intesa come aziende che produce
abiti ma laboratorio specializzato in rammendi
e piccole aggiustature a prezzi ragionevoli
( ad es. 5 euro per la sostituzione di una
lampo o il cambio di bottoni , od una accorciatura
dei pantaloni ecc.)
Come sempre però il bicchiere va visto mezzo
pieno. Sicuramente questi piccoli, a volte
piccolissimi imprenditori sono “ costretti”
ad integrasi più in fretta: sono obbligati
ad imparare per forza la lingua, la contabilità
e le leggi italiane e contribuisco al pari
degli italiani al pagamento delle tasse (
anche qui l’evasione è molto alta).
Questa imprenditoria può comunque produrre
zone forti ed ampie di lavoro nero. Si pensi
ai settori del tessile in alcune zone del
paese o al fenomeno del lavoro a domicilio.
Qui il sistema è molto più omertoso. Dfficilmente
un lavoratore in nero, sfruttato come non
mai, denuncerà il suo connazionale a cui
deve un giaciglio ed un piatto di minestra
e poco più. Qui però non è solo lo stato
che deve intervenire. Anche l’etica dell’impresa
gioca e può giocare un peso notevole.
Chi ordina le commesse a prezzi “ ridicoli”
sa bene che per realizzarli, quegli imprenditori,
impiegheranno manodopera in nero e sfruttata
per 10-15 ore al giorno. E’li che bisogna
indagare dunque.
In ogni caso pare che in queste situazioni
i problemi di sicurezza che notiamo in altri
settori siano inferiori. Queste per lo meno
sono le riflessione che la Caritas ci affida.
Sicuramente il fenomeno dell’integrazione
di lavoratori extra-comunitari , diciamo
della categoria dei lavoratori subordinati,
è molto più problematica.
In questo comparto si possono immaginare
tre aree di problematicità:
-i regolari: la prima è quella dei lavoratori
immigrati che trovano lavoro, a tempo determinato
per lo più, nelle aziende con regolari o
quasi contratti di lavoro; qui nel bene e
nel male una vita riescono a viverla. I salari
sono bassi ma quasi tutti hanno un casa ed
una possibilità di integrazione; i loro figli
vanno a scuola, a volte accedono agli asili
nido ed alle case popolari facendo “ schizzare”
gli italiani che votano lega ecc.; insomma
un classico percorso di integrazione, difficile
ma che porterà ad avere cittadini-lavoratori
dentro al sistema di coesione sociale.;
-i border-line: sono lavoratori immigrati
che lavorano saltuariamente, che in questi
tempi di crisi sono espulsi dal mercato del
lavoro , che perdono il permesso, a volte
la casa e che per le nuove leggi diventano
clandestini che però in ogni caso entrano
nel circuito dei nostri servizi sociali ma
anche in contatto con la criminalità ( che
in alcuni momenti sa offrire loro di che
sbarcare il lunario ecc.);
-gli invisibili: i fatti di Rosarno sono
la testimonianza di situazioni esplosive.
Molte sono queste realtà tenute rigorosamente
“ invisibili” sia dai poteri dello Stato
che da tutti. Sono costretti a vivere come
bestie , come schiavi , senza nulla, nemmeno
l’acqua da bere. Davvero un scandalo per
una società come quella italiana che ha tradizioni
forti di civiltà e di accoglienza.
Su tutto questo due ,secondo me, sono le
questioni che il nostro paese dovrebbe affrontare
per limitare i danni ,oggi, e per garantire
percorsi virtuosi di integrazione domani.
Parlo di due nodi di fondo che altri paesi
europei hanno imparato ad affrontare da anni..
Il nodo della casa, o meglio di un ricovero
e di un pasto caldo, e quello del salario.
Lavoro e casa. Perché non garantire alle
aziende sgravi fiscali notevoli se garantiscono
ai loro lavoratori un ricovero decente? Quanti
costi sociali si risparmierebbero? Immersi
dicono gli esperti.
Legare il lavoro alla casa, al salario ed
all’impresa rappresenterebbe un grande antidoto
a fenomeni sociali devastanti che sono sotto
gli occhi di tutti.
Il salario. E’ questo un tema delicato, delicatissimo.
Non si tratta di costruire nuove gabbie salariali
per cittadinanza ( di fatto però è così)
ma di gestire queste problematiche con strumenti
diversi che leghino il salario alla condizione
sociale di cittadino ( leggasi l’art. 36
della Costituzione Italiana) . Insomma per
un certo periodo a questi lavoratori immigrati
si può chiedere anche un salario inferiore
a condizione che la società sia in grado
di offrire loro maggiori certezze quali la
casa e salari regolari e non in nero.
Utopia? No sicuramente no. Basta leggere
il passato e la storia dei nostri minatori
in Belgio per capire che questa strada è
già stata percorsa con successo.
Ci vuole una forte volontà di quattro soggetti
: degli enti locali, degli imprenditori,
del sindacato e del volontariato.
Sarebbe questo un salto forte verso il superamento
di quei problemi che non possiamo nascondere
più.
Prima o dopo il tappeto qualcuno lo sbatterà
e sotto scoprirà i chili di polvere che vi
abbiamo nascosto.
Gian Carlo Storti
storti@welfareitalia.it
Cremona 20 febbraio 2010
 
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