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15 Settembre, 2002
«C’era una volta Pasqua al mio paese»
«Piccole storie fra righe d’evangelo» dalla penna di Luisito Bianchi (edizione Gribaudi).

«Arvulu siccu senza frutti e ciuri / Lu nomu di la cruci avisti misu / Pp’aviri ‘n brazza a lu mè Redentori. / Tu eri un lignu di tanta bascizza / Ora si ghiuntu a tanta dignità.» Sin da quando l’avevo sentito per la prima volta sul disco «Pesah» di Carlo Muratori, questo canto antico della tradizione orale siciliana (fatta “resuscitare” dalla maestria muratoriana a beneficio anche di noi “forestieri” ben disposti a qualche sforzo di traduzione), mi affascinava quell’immaginario sacro umano che colloca al centro della scena pasquale anche un pezzo di “lignu di tanta bascizza”, accanto ai personaggi “canonizzati” e ricoperti nei secoli con pesanti e soffocanti strati di oro.

Da un immaginario simile nasce «C’era una volta Pasqua al mio paese. Piccole storie fra righe d’evangelo», il libro di Luisito Bianchi “resuscitato” dall’editore Gribaudi da un manoscritto per troppo tempo tenuto in un cassetto. È un libro meraviglioso; lo dico affidando la parola – insieme al libro – ad una attenta lettura. Perché definiamo meravigliose le cose belle da toglierci il respiro, le cose che ci incantano e sorprendono; le cose meravigliose nascono in un orto un po’ coltivato e un po’ lasciato selvatico, nell’armoniosa convivenza della cura e della magia. È un libro che nasce nei campi e nelle vecchie case di un paese, Vescovato, «in un punto della grande pianura,… intontito da tanta vastità tutt’attorno» e dove si parla una lingua che «rispecchia questo intontimento prodotto dalla distesa senza un’ondulazione dei campi, e ha l’andatura d’un paio di buoi aggiogati all’aratro».

Luisito Bianchi racconta “piccole storie” e le vuole raccontare ai suoi «giovani amici». Però confessa: «Io ho sempre sognato di diventare uno scrittore nel dialetto del mio paese; non un grande scrittore, intendiamoci. M’accontenterei di scrivere una commediola sulla gente del mio paese che ebbe la sua particina d’inferno e altra di purgatorio su poche pertiche di terra, per ricevere poi in dono un intero paradiso. Ma i sogni, quando si precipitano alla rinfusa dal cielo sulla terra, non badano presso chi s’annidano, e a chi tocca tocca; così a uno che è zoppo mettono in moto il desiderio di diventare primatista mondiale dei cento metri, e a un altro che pensa in un dialetto mancante perfino dei caratteri tipografici per farsi leggere, di diventare uno scrittore.»

Confidando questo suo sogno ad un passerotto appollaiato su di un prugno nell’orto della vecchia casa – se vogliamo subito entrare nella fiaba che negli spazi bianchi tra le sue righe può raccontare anche il vero che talvolta resiste alla penna d’un cronista pur volenteroso – dal pennuto interlocutore riceve questo consiglio: «E tu traduci, come fece quel ragazzetto aspirante scrittore che, pur di raccontare non una commediola come vorresti tu, ma il più divino dei drammi, non dubitò un attimo di pensare in dialetto aramaico e di scrivere in lingua greca.» Il passerotto si riferiva all’evangelista Marco.

E allora, giacché il dovere di comunicare non può essere soggiogato ad una mancanza com’è quella dei segni tipografici di una lingua che si ha nel sangue, don Luisito Bianchi traduce, come traduce la Parola nella propria vita, ciò che inaspettati testimoni oculari gli raccontano di quanto è accaduto quel giovedì quel venerdì, quel sabato… Dice la sua un vecchio tabarro, la goccia d’acqua finita dal pozzo nel catino del lavaggio dei piedi; parla Veronica e il soldato romano e persino una rete da pescatore e un asino. Fiabe magiche, sullo sfondo di un paese “com’era una volta”, a colori, senza il bianco-nero ingiallito della nostalgica rievocazione.

Ed è senza “sovrapposizioni” teologiche la Pasqua di don Luisito, è riportata in mezzo a campi e cavedagne dove lucidare a festa le catene che nel camino dovevano sostenere il paiolo della polenta quotidiana, è affidata alle mani di nonne e di ragazzi che si prendono cura del frumento da far crescere al buio d’inverno per trasformare in serra il Santo Sepolcro, è posto nella prodezza del campanaro Toni che lega e slega le campane… No, non è un “manuale di antropologia religiosa” ma ne ha molte qualità.

A chi poi (siciliani in prima fila?) è particolarmente affezionato a lu scicareddu (traduco: asino), raccomando la «Genealogia» che chiude il volume. Perché – non ci crederete se vi siete tenuti a distanza dal magico mondo pasquale di Luisito Bianchi – «nell’inchiostro della sua penna» (come se no) avrà la salvezza quella coppia di asini bellissimi che generò poi quelli che generarono gli asini dei viaggi del Natale e della Pasqua di Gesù.

Luisito Bianchi dice: storie per ragazzi. Se poi qualche "grande" vuole capire...

«Adesso il mio paese non ha quasi più fossi, e quelli che gli sono rimasti sembrano ferite infette nel bel volto della terra, tanto sono puzzolenti e sporchi; ma quand’ero ragazzo, ne era tutto un ricamo da farmi sognare di prendere una botte, entrarvi e compiere il giro del mondo seguendo il corso dei fossi.
Protestai in comune per questa ruberia di felicità sul conto di quella spettante per diritto ai ragazzi, e mi risposero che io volevo fermare il progresso (…) Mi avviai verso la canonica del nuovo arciprete, sicuro che questi s’unisse alla mia protesta, dato che i fossi, se m’avevano regalato tanta gioia quand’ero ragazzo, dovevano avere qualche cosa a che fare col regno di Dio giacché è scritto che esso è dei ragazzi; e un regno di Dio senza fossi come può essere un regno per ragazzi?
Il mio ragionamento, che adesso ho semplificato al massimo, filava via come l’olio. Mi sorprese, quindi, l’ostinazione del nuovo arciprete a negare che si potesse parlare di fossi a proposito del regno di Dio; al massimo me ne concedeva uno, più fiume che fosso, quello del paradiso terrestre d’una volta, che poi fu interrato per ordine di Dio: e a farlo rivivere era, se non proprio blasfemo, almeno temerario dal punto di vista
teologico. Possibile che anche lui, come quelli del comune, non si ricordasse più la gioia di ragazzo nel vedere un branco d’alborelle infilzarsi nella rete tesa al centro del fosso (… ) Possibile che, con tutta la sua scienza teologica, non capisse come, togliendo i fossi al regno di Dio, si eliminava anche una grossa fetta di gioia ai legittimi proprietari di questo regno (… ) Ma andiamo, signor nuovo arciprete, il regno di Dio è per i ragazzi, non per gente che interra stagni e fossi!»

Non temete, «nell’inchiostro della sua penna» i fossi colmi di acque pulite saranno restituiti ai ragazzi e ai “grandi” con cuore di ragazzo.

Altri volumi recentemente pubblicati:
La messa dell'uomo disarmato. Un romanzo sulla Resistenza, Sironi, 2003
Dialogo sulla gratuità, Gribaudi, 2004
Come un atomo sulla bilancia. Storia di tre anni di fabbrica, Sironi, 2005

Fonte: girodivite.it

 


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