15 Settembre, 2002
PD, un partito per il nuovo secolo (di Michele Salvati)
Così si rinnova la sinistra - I princìpi ispiratori, i problemi che ci stanno di fronte
Così si rinnova oggi la sinistra
Nel secolo da poco iniziato le grandi famiglie ideologiche del
centrosinistra europeo - il socialismo, il liberalismo di sinistra,
il cattolicesimo democratico - devono affrontare problemi ai quali
faticano a trovare risposte. Che talora neppure riescono a ricondurre
alle categorie e ai principi elaborati nella loro storia.
Crescenti
minacce all'ambiente, risorse primarie sempre più scarse, dinamiche
demografiche squilibrate, flussi migratori difficilmente
controllabili, scontri culturali esterni e interni sempre più aspri,
grandi disuguaglianze di reddito e di ricchezza tra diverse aree del
mondo, rapidi spostamenti di egemonia economica tra continenti,
terrorismo, guerre e conflitti solo in parte manifesti, in parte
maggiore latenti e destinati a intensificarsi: questo è lo scenario.
Nei suoi due secoli di storia, la sinistra democratica europea si è
autodefinita intorno a temi di emancipazione - sia di natura politica
(suffragio e democrazia) sia di natura economica (distribuzione più
equa di risorse e chance di vita) - all'interno di singoli Stati
nazionali culturalmente omogenei. E già nel passato ha sofferto non
poco tutte le volte che si sono affermate come dominanti fratture
relative a identità nazionali, religiose e culturali.
E lo stesso è
avvenuto quando la guerra è apparsa all'orizzonte. Che cosa c'è "di
sinistra" (o di destra) nell'affermazione di una identità nazionale,
etnica o religiosa? Ed è forse sempre facile ricondurre alle
categorie di destra e sinistra il giudizio se una guerra è giusta o
ingiusta?
Ma anche restando all'interno di un singolo Stato nazionale, in cui
le categorie novecentesche della sinistra democratica hanno una presa
più forte, fenomeni nuovi inducono a interrogarci sul significato
delle vecchie categorie.
Il frantumarsi dei grandi aggregati
collettivi, la individualizzazione spinta delle attività lavorative e
dei modelli di vita, la crescente difficoltà a sostenere
economicamente le istituzioni di welfare e i modelli di legislazione
del lavoro ereditati dal passato, creano non poche difficoltà a
quelle tradizioni politiche che della rivendicazione collettiva per
obiettivi uniformi avevano fatto il loro asse strategico centrale.
Dunque, maggiori difficoltà per le tradizioni classiste e socialiste,
che non per quelle d'impianto più liberale: non è un caso che in
tutti i partiti socialdemocratici europei si sia assistito negli
ultimi vent'anni ad un forte spostamento pragmatico in questa
direzione.
Uno spostamento evidente ovunque, anche quando l'ideologia
resta lontana dalla prassi, anche quando i partiti socialisti si
tengono ben stretti ai simboli delle loro tradizioni. Anche
laddove "liberale" è considerato poco meno di un insulto.
Questi sono i problemi comuni della sinistra democratica europea, che
tutti i partiti appartenenti a quest'area devono affrontare.
In gran
parte dell'Europa li stanno affrontando partiti socialisti di antica
origine, rinnovando la strategia e adattando i programmi alle nuove
circostanze. E di solito il mutamento non è enfatizzato: Blair e il
New Labour sono stati l'eccezione. Al fine di non sollevare conflitti
con i militanti e gli elettori tradizionali, il mutamento di
strategia viene presentato come una evoluzione naturale e indolore
del patrimonio ideologico originario: il dibattito estivo su
Repubblica ha fornito alcuni esempi tipici di questo comprensibile
conservatorismo.
Ma accentuare la continuità non è un'operazione diplomatica senza
conseguenze.
Così facendo non si affronta il problema che invece
Blair ha preso di petto: la ridefinizione delle questioni di
giustizia sociale e di equità in una prospettiva liberale.
Si
rinuncia a combattere per una concezione di sinistra diversa da
quella classista, che ancora prevale in una parte non piccola dei
militanti di quasi tutti i partiti socialisti europei.
Proprio come
bisogna strappare la bandiera della libertà alle destre, bisogna
strappare quella della giustizia sociale ai tradizionalisti.
E questa
è un'operazione di egemonia culturale, per nulla semplice e indolore.
La battaglia è particolarmente difficile per il centrosinistra del
nostro paese, dove il salto mortale è doppio: adattare i programmi
della sinistra democratica ai problemi del XXI secolo e ricomporre
una frattura storica all'interno di questo schieramento. Una frattura
le cui ragioni sono in gran parte venute meno e la cui permanenza
indebolisce l'azione riformatrice.
Compito preliminare della sinistra
democratica italiana è dunque quello di intervenire su se stessa, se
si ritiene che la sua composizione presente sia d'ostacolo alla sua
egemonia.
E se si ritiene che le differenze ideologiche e
organizzative che l'attraversano non abbiano più una giustificazione
storica cogente.
Sono questi giudizi che stanno alla base della
proposta del Partito democratico.
Sono giudizi dai quali si può dissentire e sui quali è necessario
discutere ancora.
Sia sul primo, più strettamente politico: se la
costituzione di un grande partito a vocazione maggioritaria sia un
passaggio necessario (o comunque utile) per la conquista di una
stabile egemonia politica della sinistra riformistica in un contesto
maggioritario e bipolare. Non potrebbe essere meglio restare ognuno
nelle proprie vecchie case e poi concorrere, in un contesto
proporzionale, alla formazione di governi di coalizione? La nostra
risposta a questo interrogativo è negativa, e le sue ragioni - tante
volte illustrate - non possono essere riprese in questo breve
scritto.
Ma è soprattutto il secondo giudizio quello che merita di
essere approfondito prima di stendere un manifesto di principi.
La
storia ha spazzato via una delle due peculiarità che caratterizzavano
il sistema politico italiano rispetto a quello di altri paesi
europei, la prevalenza del partito comunista sulla sinistra. Ma ha
inciso assai meno sulla seconda, il grande peso culturale e politico
della tradizione cattolica e della stessa Chiesa: alla luce di questa
eredità storica, per quella parte del mondo cattolico che si
riconosce nei valori della sinistra democratica, non è conveniente (e
politicamente e culturalmente giustificabile) conservare la propria
identità organizzativa?
La nostra risposta è, di nuovo, negativa: i
temi che stanno a cuore ai cattolici liberali e democratici devono
essere affrontati come lo sono in tutti i grandi paesi europei,
all'interno di un unico contenitore organizzativo che raccolga e
metta a confronto i diversi riformismi della nostra storia politica.
I principi
I principi ispiratori del partito nuovo possono essere sviluppati a
partire dal suo stesso nome, Partito democratico.
La democrazia è un
compito mai finito e anche i regimi "più democratici" che oggi
conosciamo sono ben lontani da un ideale che riusciremo solo ad
approssimare, mai a raggiungere compiutamente.
Un ideale di cittadini
colti e informati, in condizioni di indipendenza e sicurezza
economica, che si confrontano con poteri pubblici limitati e
trasparenti, in una società civile densa di associazioni intermedie e
di gruppi animati da diverse concezioni etiche e religiose, ricca di
strumenti di formazione e informazione di alta qualità, autonomi e
critici. Cittadini, dunque, che dispongono di molti strumenti per
controllare l'esercizio dei poteri pubblici e di forte motivazione a
farlo; di conseguenza, cittadini capaci di ricondurre quei poteri nei
limiti del ruolo che è loro proprio in una società liberale.
La
democrazia rappresentativa, la democrazia come competizione regolata,
come concorrenza per conquistare la maggioranza dei voti, è sempre
soggetta a rischio. È minacciata dalla ricchezza, dalla cattura da
parte dei poteri economici più forti. È minacciata dal populismo, da
scorciatoie politiche illiberali che fanno leva su emozioni
irrazionali, da possibili "tirannie della maggioranza".
Dal lato
opposto è minacciata dalla frammentazione e dall'anarchia,
dall'inasprirsi delle differenze tra gruppi con diverse concezioni
del bene, dalla loro indisponibilità a sottoscrivere un patto di
cittadinanza, a riconoscere le mediazioni politiche che questo patto
comporta.
I rimedi contro queste minacce stanno in parte nel disegno
costituzionale: la democrazia, la volontà della maggioranza, non deve
mai travolgere i diritti e le autonomie dei singoli. Deve trattarsi
di una democrazia liberale. Ma non c'è difesa costituzionale che
regga se la società civile non è pluralistica, critica, raziocinante,
disposta alla mediazione politica: al di là delle necessarie barriere
costituzionali, il Partito democratico deve impegnarsi a rafforzare
questo tipo di società.
Una società in cui, quali che siano le
concezioni del bene condivise dai singoli e le identità culturali e
religiose in cui essi si riconoscono, tutti sottoscrivano un robusto
patto di cittadinanza e si mantengano nei limiti che esso comporta,
limiti che escludono l'imposizione della propria idea del bene a chi
non la condivide.
Una società che tenga sempre sotto controllo i
rapporti tra poteri economici e politica. Una società le cui regole
stronchino la formazione di rendite. Una società in cui il rischio
imprenditoriale sia premiato, e così anche il merito e il successo in
ogni campo di attività, ma il premio non sia mai lasciato degenerare
in monopolio, o rendita, o potere d'influenza in altre sfere della
società. In cui gli strumenti di controllo che impongono
la "rendicontazione" del potere politico siano forti e attivamente
esercitati da soggetti autonomi rispetto alla politica, in
particolare da una stampa e da media liberi da condizionamenti e
conflitti di interesse. E in cui altrettanto forti e esercitati siano
gli strumenti di sanzione delle regole che la società si è data:
l'indipendenza e la (spesso dimenticata) efficienza della
magistratura, un buon disegno di agenzie indipendenti in settori
delicati dell'economia e delle istituzioni, sono pezzi essenziali di
una società civile.
Dunque democrazia e democrazia liberale.
Dove sta la sinistra in
tutto questo? La sinistra sta nella stessa natura della democrazia,
in quella tensione verso l'eguaglianza di cui Tocqueville aveva un
sacro terrore e che John Dunn ha mirabilmente ricostruito nel suo
libro più recente.
Quella tensione che i liberali di destra,
comprensibilmente, vogliono tenere a freno per i rischi di tirannia
della maggioranza, e di "esproprio dei ricchi", che essa può
comportare.
Quella tensione che, invece, la sinistra riformatrice
vuole utilizzare e incanalare, per spingere la
democrazia "effettivamente esistente" a traguardi più avanzati, ma
realistici e non contraddittori con l'ispirazione liberale.
E qui le
tradizioni politiche che si fonderanno nel Partito democratico danno
tutte un contributo prezioso.
Di quella liberale abbiamo già detto estesamente.
La tradizione
socialista richiama l'attenzione alle condizioni sociali e economiche
di effettiva emancipazione, al reddito e alla sua sicurezza,
all'istruzione e alla cultura, all'inclusione e alle reali
possibilità di partecipazione politica dei singoli cittadini.
Insomma, alla libertà eguale. Poche cose sono altrettanto essenziali
ad un avanzamento della qualità democratica delle democrazie
effettivamente esistenti di queste condizioni "materiali", come si
era soliti dire con un'espressione impropria: un sociologo norvegese,
Stein Ringen, le descrive assai bene in un suo recente lavoro e trova
che moltissimo rimane da fare anche nei paesi in cui la
democrazia "effettivamente esistente" ha raggiunto i suoi livelli più
elevati.
Non si preoccupino dunque i socialisti: il messaggio
centrale della loro tradizione non andrà perduto.
E non si preoccupino i cattolici democratici, perché lo stesso
avverrà per la loro, per il solidarismo, per la correzione
personalistica dell'individualismo, per la benemerita insistenza
sulla famiglia e sulle formazioni sociali intermedie.
L'appassionante
lettura comunitaria del liberalismo che Michael Walzer ha sviluppato
negli ultimi vent'anni mostra come una più forte consapevolezza del
fatto che le persone, oltre che libere e eguali, nascono e vivono in
comunità, acquisiscono identità collettive che le accompagnano per la
vita e sono costrette a mediare tra molteplici appartenenze,
arricchisce il liberalismo, lo rende più capace di interpretare e
modellare la realtà sociale in cui viviamo. Il cattolicesimo ha ormai
una lunga esperienza di accomodamento con il liberalismo,
l'individualismo e la laicità, una esperienza che può essere preziosa
per un grande partito democratico. E un esempio per altre identità a
base religiosa che a questo "accomodamento" non sono (ancora?)
arrivate.
Principi e problemi
Torniamo brevemente ai problemi. Tra principi astratti e problemi
concreti, come tra il dire e il fare, c'è di mezzo il mare della
politica.
I principi sono importanti e utili, ma sono orientamenti
generici, che di solito lasciano aperte molte alternative (anche se,
per fortuna, ne escludono ancor di più) quando ci si confronta con un
problema reale. E in specie con i grandi problemi del secolo appena
iniziato.
Che cosa possiamo estrarre, dalla teoria della democrazia,
dal socialismo liberale, dal cattolicesimo democratico, che ci aiuti
concretamente ad impostare un'azione politica in difesa dell'ambiente
minacciato, a contrastare le cause del mutamento climatico e l'uso
dissennato dell'acqua, delle foreste, dei combustibili fossili?
Come
rispondiamo alle legittime domande di benessere di miliardi di
persone che stanno affacciandosi a condizioni di vita decenti e
dunque a consumi energetici più elevati?
Come possiamo sventare i
pericoli di guerra che la scarsità di risorse alimenta? E come
reagire al terrorismo?
È possibile affrontare questi pericoli
attraverso un grande progetto di democrazia mondiale (anzi,
di «socialdemocrazia mondiale», come sostiene David Held)?
Non è
impossibile, e soprattutto non abbiamo niente di meglio, a livello di
principi, che aiuti a orientarci. Sulla loro base, per venire a un
esempio concreto, avremmo potuto da subito condannare
l'unilateralismo delle decisioni belliche della presidenza americana,
l'esportazione violenta della democrazia dove non erano presenti le
condizioni minime affinché attecchisse, la mancanza di argomenti che
giustificassero una guerra preventiva contro l'Iraq. Forse crimini;
sicuramente errori.
È più facile intuire come i nostri principi ci possono aiutare nella
fatica di Sisifo che comporta la costruzione di una società civile e
di una democrazia migliore in ogni paese: come abbiamo visto, è la
politica interna il luogo d'elezione delle nostre grandi tradizioni
ideologiche, il terreno sul quale esse si trovano a loro agio, in cui
le categorie di destra e sinistra mordono ancora la realtà.
È una
fatica di Sisifo, perché il masso appena spinto sulla cima del colle,
rischia di cadere. Fuor di metafora, perché la concorrenza,
l'assunzione di doveri insieme alla pretesa di diritti,
l'eliminazione di rendite grandi e piccole - insomma, una
impostazione liberale dei problemi di giustizia sociale - hanno costi
individuali rilevanti, comportano il sacrificio di interessi di breve
periodo alla luce di incerti vantaggi di lungo, richiedono una forte
tensione civile. Basta che la tensione si allenti e il masso
precipita, le rendite tornano a formarsi, i doveri si dimenticano, la
concorrenza si inceppa, le situazioni di reale sofferenza e disagio,
oggi minoritarie nei nostri paesi, sono spazzate sotto il tappeto
dell'attenzione politica.
Qui il problema non consiste nella
difficoltà di derivare dai principi di una democrazia liberale
soluzioni soddisfacenti: dalla carta dei principi è anzi
ingannevolmente facile derivarle. Il problema consiste nel dar loro
gambe politiche, nel trovare consenso, nel creare una maggioranza che
le sostenga.
La formazione di questo consenso maggioritario è una difficile
operazione politica, da ultimo (anzi in primis) una operazione di
egemonia culturale.
Una simile operazione ha avuto successo - su
grande scala - dopo la seconda guerra mondiale, con la creazione di
un capitalismo di piena occupazione e del welfare state: è a questa
che guardano con rimpianto i nostri riformisti radicali, senza
avvedersi che le condizioni storiche di quel successo si sono da
tempo esaurite.
In piccolo e su scala nazionale, un'analoga
operazione di egemonia culturale e politica è stata quella del New
Labour di Tony Blair, e sia questa l'occasione per esprimere il
nostro riconoscimento a un gigante che sta uscendo dalla storia del
suo paese. Un gigante che ha commesso errori giganteschi, ma non ha
confronto con i nani del riformismo europeo.
Nel nostro paese, il Partito democratico o è questa operazione
politica o è peggio di nulla, e il tempo che passiamo a discuterne è
tempo perso.
A chi interessa una esitante e sospettosa fusione (anzi,
una "federazione", come si torna a sragionare) tra i Ds e i Dl?
L'Ulivo è gia vecchio e lo stesso Partito democratico sta
invecchiando: è sul tappeto da tempi politicamente troppo lunghi.
Il
momento di una sua formazione entusiastica, accompagnata da un forte
consenso nel popolo della sinistra, sta passando.
O i leader politici
dei partiti esistenti trovano il coraggio di sollecitare e guidare un
reale movimento - e correre qualche (piccolo) rischio - o è meglio
che abbandonino la partita.
Il nostro paese marcisce perché rifiuta
il rinnovamento, perché i vecchi si abbarbicano alle loro posizioni
di rendita, in tutti i campi.
Noi riformisti predichiamo il
rinnovamento. Che esempio diamo se rifiutiamo di praticarlo in casa
nostra?
 
Fonte Libertà Eguale
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