15 Settembre, 2002
Il visionario pragmatico (Guido Moltedo su Europa)
Un gran finale con fuochi d'artificio e musica di qualità (Stevie Wonder) era la conclusione più "logica" di una convention altamente spettacolare, per una nomination che definire presidenziale è poco
Un gran finale con fuochi d'artificio e musica di qualità (Stevie Wonder) era la conclusione più "logica" di una convention altamente spettacolare, per una nomination che definire presidenziale è poco.
È l'incoronazione di fronte a un'immensa platea adorante di un idolo, di un personaggio "larger then life", come dicono gli americani quando vogliono definire un fenomeno che supera i limiti della realtà. Politica spettacolo? Di più. Personalizzazione estrema della politica? Siamo oltre.
Nei giorni della convention, i discorsi di personaggi come Hillary e Bill Clinton, o di Michelle e Joe Biden avevano suscitato passioni tumultuose e ovazioni mai viste prima in un raduno politico. Specie quando ha parlato Hillary che «ha fatto cadere giù la casa», come le ha riconosciuto Obama nella sua apparizione a sorpresa mercoledì sera. E proprio quella breve performance ha fatto capire come fosse nulla quello che si era visto e sentito prima. Il Pepsi Center è letteralmente esploso, una corrente di alta tensione emotiva che solo le rockstar sanno generare.
Un delirio che spinge una dirigente politica razionale come Nancy Pelosi a definire Barack «un leader che ci arriva con la benedizione di Dio».Si è detto e scritto molto della rockstar Barack Obama. Meno del perché il più grande partito del più importante paese del pianeta, e tanti americani, ne siano stati contagiati in un crescendo inarrestabile fino alla scelta di portare un personaggio così alla Casa Bianca. Non semplicemente un nero, già di per sé un fatto storico, ma un fenomeno carismatico di questa natura, senza precedenti. Non un populista, non un demagogo, come spesso accade nei momenti di crisi di un paese.
Perché tutto è Obama tranne che un propagandista cinico e ruffiano. Caso mai è esattamente il contrario. Incarna, sì, la speranza e il cambiamento in un paese che ha fame di queste parole. Ma lo fa con i piedi per terra. Dice di lui Cassandra Sunstein, che lo conosce dai tempi dell'università insieme a Chicago: «Barack? È un minimalista, non nel senso che è sempre a favore dei piccoli passi (non lo è) ma perché preferisce soluzioni che possano essere accettate da gente con un ampio spettro di inclinazioni teoriche».«Quando offre approcci visionari - prosegue Sunstein - lo fa come un minimalista visionario, cioè come qualcuno che tenta di acconciarsi alle credenze che definiscono la maggioranza degli americani, e non di ripudiarle».
A Barack viene rimproverato, appunto, di non avere una Big Idea, dietro la generica speranza e il vago cambiamento. È un messaggero senza un messaggio. Ma paradossalmente è qui la sua forza. Il suo carisma. L'idea cioè che sia autentico quando ripete alle sue platee: siete voi non io, io senza di voi chi sono? L'idea insomma di non calare dall'alto la politica, ma di farla crescere dal basso.Il meccanismo, propagandisticamente, funziona. Obama sa "connettersi" ("connecting" è l'altra parola-chiave della nuova politica americana) con l'America di oggi, sicuramente con il suo partito, che, come ci dice fieramente un insegnante, un delegato del Missouri, «è il People's Party, la forza politica che accoglie tutti sotto la sua Grande Tenda, senza discriminazioni, senza chiederti "da dove vieni?"».
E se non lo era più, il partito del popolo, se era diventato il partito delle lobby e dei palazzi di Washington, grazie a Obama torna essere una forza autenticamente popolare.
Anche qui l'antipolitica? Questa percezione è legittima e per niente estranea alla genesi del fenomeno, non solo per la sua personalità peculiare, ma perché il senatore dell'Illinois è da troppo poco nel giro washingtoniano per esserne stato contaminato. Ha un'immagine "pura", anche se c'è il rovescio della medaglia che tanto eccita gli avversari: l'inesperienza, l'enigma su chi è davvero, la sensazione di firmare con lui un assegno in bianco.Insomma, Obama è un personaggio che sfugge alle definizioni. Dice di lui uno dei suoi più stretti collaboratori, Chris Lu: «È come il test di Rorschach: ognuno ci vede quello che vuole».
Di nuovo, qui, l'altra faccia della medaglia.Cosa ci vedono quegli elettori democratici, ben 18 milioni, che gli hanno preferito Hillary nelle primarie? Nulla che li interessi. Cosa ci vede la mai tanto citata working class? Qualcosa di irritante, anche se non sanno bene cosa. Già, perché adesso tutti questi tripudi dovranno tradursi in voti, anche dove finora il fenomeno non ha fatto breccia quando non è visto con ostilità.
La grande fascinazione lascia ora il posto alla prosaica lotta finale per la conquista della Casa Bianca. Contro un avversario forse troppo sottovalutato e che invece si sta rivelando un osso duro. E che ricorre, contrariamente alle aspettative, alle armi aggressive della denigrazione del rivale, mai abbastanza vituperate moralmente ma ancora efficaci politicamente.
Ma anche su questo terreno Barack e la sua squadra sanno come muoversi. E d'altra parte sarebbe particolarmente ingenuo pensare che una macchina di potere come il Partito democratico non voglia far di tutto per vincere a novembre. Si può pensare ogni male possibile dei Clinton e del loro entourage, ma non che siano insinceri quando dicono che l'America non merita altri quattro anni di un altro Bush. Anche perché non si voterà solo per la presidenza, ma per il rinnovo della camera e di un terzo del senato, senza contare le tante cariche locali. Davvero qualcuno pensa che ci siano dei democrats ansiosi di perdere la Casa Bianca, e così rischiare anche di perdere seggi al congresso, solo per far dispetto a Obama? «Incredibile - ci dice Anthony Sistilli, delegato "italiano" dei Democrats Abroad - che i media continuino a ricamarci sopra, anche dopo quel che si è visto in questi giorni al Pepsi Center».
E infatti quel che si è visto non è tanto l'unità ritrovata, che non sembra solo di facciata, quanto una determinazione a vincere insieme. Con una squadra di fuoriclasse.Il ticket con Biden si combina bene con il duo clintoniano, mentre anche pesi massimi come John Kerry o personaggi come il governatore del Montana Brian Schweitzer hanno dato prova alla convention di poter offrire un forte contributo. E tanti altri così dello stesso calibro. Da Denver viene fuori un gruppo di mastini determinati a condurre una campagna elettorale che non lascerà solo l'idolo delle folle. Lo aiuterà nella cruciale battaglia per la raccolta dei fondi e lo coprirà bene su tutti i versanti delicati. La politica internazionale. Il rapporto con l'America profonda. La guerriglia anti-repubblicana.Il tutto con una base ipermotivata che farà un capillare porta a porta e insieme un altrettanto efficace porta a porta via internet.
McCain non avrà invece un dream team di questo calibro al suo fianco, ma un controverso compagno di viaggio e diversi altri compagni da non far salire proprio sul suo treno. George Bush, innanzitutto.
 
Fonte Europa
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