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15 Settembre, 2002
Recensione multipla a cura di Liberta' Eguale - Milano
J. Glover, Humanity, una storia morale del XX secolo, Milano 2002; F. Andreatta, Istituzioni per la pace, teoria e pratica della sicurezza collettiva da Versailles all'ex Jugoslavia, Bologna 2000; J. Rawls, Il diritto dei popoli, Torino 2002

Recensione multipla di:
Jonathan Glover, Humanity, una storia morale del ventesimo secolo, Milano 2002 (ed. originale 1999);
Filippo Andreatta, Istituzioni per la pace, teoria e pratica della sicurezza collettiva da Versailles all'ex Jugoslavia, Bologna 2000
John Rawls, Il diritto dei popoli, Torino 2001 (ed. originale 1999).


La diplomazia tiene per fermo che un ordine sicuro si può ottenere unicamente servendosi della menzogna, della viltà, del cannibalismo, in breve delle solite bassezze umane; essa è un idealismo ribassista….proprio perché presuppone che la poca fidatezza delle nostre forze più nobili ci apra tanto il cammino dell’antropofagia come quello della critica della ragion pura.
Robert Musil


Gli ultimi dieci anni dopo la fine della Guerra Fredda sono stati anni di ripresa della tradizionale anarchia nei rapporti internazionali e hanno riproposto il problema della pace mondiale in una maniera allo stesso tempo nuova e vecchia. Nuova, nel senso delle condizioni nelle quali il problema si pone: la cosiddetta globalizzazione, vecchia, nel senso della regolazione dei rapporti fra gli stati con gli usuali strumenti della diplomazia e della guerra. Nel corso del tempo, cercando di cogliere le diverse situazioni, pensatori di varia importanza e influenza hanno dedicato i loro sforzi a determinare le condizioni di possibilità di una pace universale. Usando le parole di Kant ci si è chiesti in che modo sia possibile" sognare questo dolce sogno"? In che modo quello che Rawls chiama un'utopia realistica possa realmente influire sulla pratica della pace e contribuire alla sua estensione, indicando una norma o una serie di regole normative per la realizzazione di un mondo che oggi, all'alba del XXI secolo, "ci riconcilia con la nostra condizione politica e sociale" ? La lettura dei tre libri che esamineremo non fornisce certo una risposta esaustiva ma, almeno, ci può aiutare a fissare alcune coordinate.

In queste riflessioni le vicende storiche del XX secolo hanno prodotto, rispetto all'Ottocento, qualche cambiamento contraddittorio ma importante. Le condizioni di pensabilità dell'intera questione sono state modificate dalle due Guerre mondiali. Dopo il 1945 la guerra non ha più avuto la legittimazione morale e il consenso che poteva vantare prima del 1914: nessun paese oggi, se non andiamo errati, possiede più un ministero della guerra, ma tutti gli stati, significativamente, organizzano le loro attività militari per mezzo dei vari ministeri della difesa. Le guerre offensive non sono certo mancate, ma, perlomeno, non stato più possibile vantarsene o gloriarsene, tranne eccezioni.

Crollato il Muro quelle violenze sono diventate sempre più spesso strumenti di regolazione per lotte tribali o rivendicazioni politiche altrimenti inaccettabili e per qualcuno, stati "canaglia", o gruppi canaglia, la guerra è un affare redditizio e privo di scrupoli. I genocidi africani, le nuove guerre balcaniche, gli attentati del terrorismo fondamentalista islamico, le guerre in Iraq e in Afghanistan sono fenomeni che dimostrano come nel XXI anche il dato acquisito dal secolo precedente - l'immoralità della guerra - potrebbe essere rimesso in discussione e non solo da Al Qaeda.

Il disordine internazionale degli ultimi anni dimostra, semmai ce ne fosse stato bisogno, la necessità dell'instaurazione della "comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune mondiale" . Non ci pare possibile interpretare questo bisogno come un elemento di discontinuità rispetto al passato. La crisi dello stato moderno, il superamento dello stato nazione, qualunque cosa vogliano dire questi concetti, intaccano poco i caratteri fondamentali dei problemi internazionali.

"I problemi internazionali restano problemi inter nationes e sono trattati e risolti (o meno) dai governanti dei singoli Stati in funzione delle decisioni sovrane prese da ognuno degli interessati. Occorre tenere a mente questo fatto. Potrebbe darsi che questo non sia un fatto immutabile, ma rimarrebbe pur sempre un fatto che dovrebbe venir modificato da un'azione reale nella realtà a cui appartiene e contribuisce a formare. Dal punto di vista di chi desidera seriamente e ragionevolmente la modificazione di questo fatto, le critiche moralistiche o i pii desideri risultano in tale contesto tanto più pericolosi quanto più si prestano a nascondere la realtà, rimanendo semplici critiche e desideri" .

I fatti dell'11 settembre sembrano mostrare che anche chi, come l'organizzazione terroristica di Bin Laden, è entrato nella storia per distruggere il ruolo egemone del più importante fra gli stati moderni (gli USA ), lo ha fatto, secondo quanto egli stesso dichiara, per far rinascere lo stato nazione di tutti gli Arabi o persino di tutti musulmani (l'antico Califfato). Lo stato nazionale, dunque, apparentemente superato nella sua importanza dal capitalismo finanziario multilaterale e globalizzato, è ancora il principale attore della partita che si gioca per la sicurezza mondiale, grazie anche al fatto che la violenza legittima non può essere esercitata realmente ed autonomamente, almeno fino ad oggi, da nessuna istituzione sovranazionale. Chi esercita la violenza al di fuori della copertura di qualche forma di sovranità organizzata in forma statale è perché ne vuole creare una propria. Il fenomeno non è nuovo, da Machiavelli in poi è stato studiato sia da chi lo voleva combattere sia da chi lo voleva sfruttare a proprio vantaggio; oggi semmai sono solo, si fa per dire, cambiate le misure e le dimensioni.

L'iperpotenza americana, ferita nel profondo, colpita fisicamente e simbolicamente nella maniera più clamorosa possibile, ha risposto all'abbattimento delle Twin Towers con due guerre tradizionali. Non potendo colpire direttamente l'organizzazione terroristica, inafferrabile e introvabile per definizione, gli Usa hanno fatto la guerra a due stati, l'Afghanistan e l'Irak. La risposta dell'America al terrorismo è stata dunque simmetricamente simbolica: l'amministrazione Bush ha inteso dimostrare, a chi riteneva che la politica internazionale non fosse più inter nationes, che il ruolo della politica, di cui la guerra è uno degli strumenti, può e deve ancora essere giocato sul terreno della dialettica fra gli stati sovrani, nel gioco delle alleanze e delle egemonie, posto che il terrorismo, se non avesse chi lo nasconde, presumibilmente uno o più apparati legati a singole amministrazioni, non potrebbe sopravvivere a lungo, come un pesce fuor d'acqua.

Non intendiamo certo discutere se questa visione strategica sia fondata o meno intendiamo solo tentare di capire, con l'aiuto di tre libri, pubblicati tutti prima dell'11 settembre, e quindi oggi parzialmente inattuali, quali siano le radici logiche, storiche e giuridiche dei problemi oggi oggetto di "ragione pubblica", come direbbe Rawls.

I primi due libri di cui ci occuperemo, in ordine cronologico di uscita, sono quelli del filosofo morale inglese J. Glover e del grande filosofo della politica americano J.Rawls, entrambi usciti in edizione originale nel 1999.

Glover tenta, attraverso l'analisi di un numero molto selezionato d'eventi (la Prima guerra mondiale, il Vietnam, il tribalismo nel Ruanda, varie incarnazioni del comunismo staliniano e il nazismo), di riconoscere, lungo il corso delle tragedie del XX secolo, le condizioni di un'attitudine etico-politica umana, di un'attitudine ragionevole seppur priva di una codificazione etica assoluta. Alcune volte si sarebbe manifestata nella storia la possibilità di un comportamento ragionevole, una possibilità realistica, nata dalla consapevolezza delle implicazioni concrete delle azioni in campo. Egli osserva che, nelle situazioni limite, come le guerre e le violenze brutali, possono nascere enormi pressioni sociali capaci di modificare i comportamenti umani, anche nella direzione di una maggiore comprensione reciproca. La sua posizione non è ingenua, è anzi fondata su una concezione disincantata dell'uomo, tuttavia occorre dire che, se"la gente trae vantaggio più dal sembrare che dall'essere effettivamente morale, questa necessità di apparire individui morali può ancora rendere collaborativi e non egoisti gli uomini, (..) è possibile che si tratti di un conformarsi solo di facciata alla legge morale. Molti, tuttavia, sentiranno che l'amoralismo resta una minaccia qualora non vi sia una convergenza generale nella concezione della vita" . Insomma il Novecento, secolo in cui la violenza e la disumanità hanno raggiunto dimensioni industriali, avrebbe prodotto, attraverso l'informazione e lo sviluppo delle comunicazioni, l'antidoto a quella violenza. La coscienza delle conseguenze nefaste dei sadismi e delle violenze più efferate può, forse, secondo la dottrina kantiana dell'eterogenesi dei fini, rendere più facile lo sforzo collettivo per superarle.

La recente storia morale dell'umanità, segnatamente i conflitti degli anni '90 tipo Ruanda e Jugoslavia, sembra aver inferto un duro colpo alla messa in pratica di questo buon senso morale, secondo il quale il genocidio non è mai giustificato e la violenza deliberata sempre irrazionale. Tuttavia è proprio per suo tramite che la comunità internazionale, grazie anche alle pressioni dell'opinione pubblica, ha potuto istituire tribunali speciali internazionali per giudicare i crimini contro l'umanità.

In questo contesto, dunque, Glover afferma che il ruolo della filosofia consiste nel produrre narrazioni e racconti degli eventi che possano contribuire alla ricostruzione dell'etica. Solo così la riflessione potrà contribuire alla realizzazione della convivenza pacifica dell'umanità: solo la fantasia morale potrà realizzare una versione umanizzata dell'etica. La crudeltà e la violenza sono presenti sin dalle origini dell'umanità; il XX secolo ci ha mostrato un'agghiacciante novità: come lo sviluppo tecnologico più avanzato possa essere messo al servizio dell'assassinio di massa. "Per evitare nuovi disastri, abbiamo bisogno di limitazioni e vincoli politici su scala mondiale. La politica, però, non è tutto. Abbiamo sperimentato i frutti della tecnologia messa al servizio del fattore distruttivo della psicologia umana. Bisogna fare qualcosa per impedire questa combinazione letale. I mezzi per mettere in atto la crudeltà e compiere stermini di massa sono stati pienamente raggiunti. È troppo tardi per fermare la tecnologia. E quindi alla psicologia che dobbiamo rivolgerci" .

La psicologia dei popoli, dal punto di vista della politica, non è altro che l'educazione civica per mezzo del pluralismo della formazione e dell'informazione. Chi tenta di cancellare questo processo di autoformazione della società civile, come il fondamentalismo islamico, vero e proprio totalitarismo in statu nascenti , costituisce la più seria minaccia alla realizzazione dei progetti di pace. Come già stabilì Kant nel suo libretto sulla Pace perpetua, l'esistenza della società civile, di una serie di diritti goduti dagli individui nelle loro comunità relativamente ordinate, relativamente a quei diritti, costituisce la condizione base per la realizzazione della pace.

Da qui possiamo far iniziare il resoconto della riflessione di Rawls, che inizia subito notando le contraddizioni del sentimentalismo pacifista. "Non si trova la pace denunciando l'irrazionalità o la distruttività della guerra, per quanto tutto ciò sia vero, ma approntando la strada percorrendo la quale i popoli siano in grado di sviluppare una struttura di base che sorregga un regime ragionevolmente giusto o decente e renda possibile un diritto dei popoli ragionevole" . Ovvero, se abbiamo capito bene, la narrazione degli eventi storici dal punto di vista della filosofia morale, lungi dall'essere rassicurante, può solo attestare, come ci ha insegnato Weber, che la storia sarebbe potuta andare anche diversamente, non solo nel senso, per così dire'buono' delle cose (gli uomini che fanno la storia, i potenti così come gli umili, non sono obbligati ad essere necessariamente malvagi), ma anche in un senso radicalmente 'cattivo'. Anche quando la morale sembra vincere su tutta la linea, come, ad esempio, nel caso del comportamento dell'amministrazione Kennedy riguardo alla crisi di Cuba, esiste sempre la possibilità dell'alternativa diabolica, del prevalere della violenza distruttiva sulla ragionevolezza costruttiva. Per questo il compito della filosofia non è solo quello di fare appelli, ma, se non vuole essere puro flatus vocis, anche quello sommamente civile, e perciò politico, di indicare una strada, le condizioni di possibilità, della realizzazione del fine che tutti gli uomini di buona volontà si augurano: la convivenza pacifica degli individui e delle culture e la composizione ragionevole di ogni conflitto presente e futuro.

Rawls, come già fece Kant, esercita qualche distaccata ironia sulla raggiungibilità di un simile ambizioso obiettivo e parla perciò di utopia, anche se ragionevole, ma ritiene che ciò non esima dall'impegnarsi per raggiungerlo.

Intanto, dobbiamo affermare che le condizioni per la creazione di una società di popoli sono oggi realistiche, forse più realistiche di quanto non lo fossero all'epoca di Kant . Da duecento anni a questa parte i presupposti per una pace mondiale risiedono nell'evoluzione storica che ha fatto, e sta facendo, degli abitanti del pianeta Terra i componenti di un'unica società, pacifica per essenza, pacifista per convenienza, tutt'altro che non violenta, ma razionale per interesse, quindi contraria alla guerra come applicazione deviata della razionalità verso scopi rischiosi e velleitari. I popoli e i loro stati, dice Rawls, e non solo gli stati in senso meramente istituzionale, saranno gli attori della possibile realizzazione della pace mondiale e ciò essenzialmente per il fatto che, pensando a loro come soggetti si pensa alla sovranità non come ad un'entità autonoma, ma come ad una funzione sociale. "È perciò importante comprendere che in questo processo di elaborazione del diritto dei popoli (la condizione giuridica soggettiva della pace mondiale) lo Stato, inteso come organizzazione politica di un popolo, non è, per così dire, l'autore di tutti i suoi poteri". Gli stati insomma, non hanno importanza per quello che sono, in un modo banalmente westfaliano, quanto piuttosto per quello che rappresentano, il che, tra l'altro, mostra come gli stati che non rappresentano i loro popoli non siano in grado di dare alcun contributo al raggiungimento della pace.

Di conseguenza gli stati, se vogliono mantenere la loro legittimità, dovranno favorire l'esistenza del diritto dei popoli, tipico della società mondiale. Quelli che lo faranno potranno essere solo di due tipi: a) gli stati liberali, quelli in cui il governo è espressione della volontà della popolazione, rappresentata e garantita attraverso le istituzioni parlamentari e un sistema giuridico capace di assicurare un buon grado di rispetto dei diritti individuali di libertà; b) gli stati espressione di quelli che Rawls chiama "popoli gerarchici decenti". Le società decenti sono quelle che, pur non organizzandosi in modo liberale, non hanno mire espansive e aggressive, garantiscono un rispetto universale dei principali diritti umani, in cui le persone, pur non essendo completamente libere come individui di fronte alla legge, sono considerate responsabili nella cooperazione sociale richiesta dai loro gruppi di appartenenza e possiedono un'idea di giustizia come bene comune dell'umanità. In questo modo Rawls cerca di garantirsi dall'obiezione che molti pacifisti ed affini fanno a coloro che vogliono esportare, magari con la forza, le istituzioni liberali. Per ottenere la pace mondiale non tutti gli stati dovranno essere fotocopie delle democrazie liberali di stampo occidentale, ma, perlomeno, potranno contribuirvi quegli stati decenti in cui gli individui, anche in quadri culturali diversi dal nostro, godono di un certo grado di soddisfazione e di dignità. La nozione di decenza, anche ad una prima lettura, non è certo priva di ambiguità, ma in questo modo si può indicare una strada nella ricerca di criteri di salvaguardia di diritti e culture di popoli non aggressivi ma irriducibilmente differenti da noi.

Le società disposte alla convivenza mondiale dovranno essere sufficientemente stabili, riconoscere nel rapporto con le altre società il criterio della reciprocità, possedere una concezione politica della giustizia, capace di trasformare, laicamente, in una prassi, tutti quei principi di giustizia che possono avere origine dalla morale e dalla religione. I paesi in cui tali società si sviluppano cureranno la formazione delle nuove generazioni nel rispetto di quei principi e garantiranno, come dice Rawls, "per intersezione", il pluralismo intellettuale e ideologico. Un'idea politica di tolleranza non è che la mera conseguenza di questo stato e ne richiama subito un'altra: nelle società bene ordinate, liberali e/o decenti, non può esserci una concezione filosofica dominante del bene. Poste queste condizioni la pace mondiale non solo è possibile ma, probabilmente, molto desiderabile da ogni punto di vista.

Purtroppo esistono al mondo altri tipi di società che difficilmente potranno contribuire alla realizzazione del diritto dei popoli e quindi alla pace mondiale: gli stati fuorilegge, le società svantaggiate da condizioni molto sfavorevoli e le società caratterizzate da assolutismo benevolo. Sebbene le ultime onorino quasi gli stessi criteri delle società gerarchicamente decenti, esse, insieme alle altre due, non sono bene ordinate perché "negano ai loro membri un ruolo significativo nel processo di decisione politica"

Da queste premesse Rawls enuncia, quasi come articoli kantiani, i principi del diritto dei popoli , esamina una serie di obiezioni, soprattutto quelle del realismo, che rozzamente potremmo chiamare 'machiavellico' e discute la nostra situazione storica attraverso vari esperimenti mentali.

Il diritto dei popoli, come abbiamo accennato, ha, nel lungo periodo, lo scopo di condurre le società a rispettarlo, anche se le condizioni non ideali, nelle quali ancor'oggi viviamo, impongono ai popoli bene ordinati di predisporre tutti gli strumenti di difesa e, se necessario, di offesa, per respingere le minacce degli stati fuori legge. Per realizzare la pace, che certo deve contemplare tutte quelle condizioni di giustizia sociale minima e di rispetto dei diritti umani cui abbiamo accennato, e che sono stati descritti con magistrale efficacia nell'enciclica papale Pacem in terris di Giovanni XXIII, occorre prevedere istituzioni multilaterali, le Nazioni Unite o altro, capaci di imporre il rispetto del diritto, se necessario anche con la forza. La dottrina della giustizia fra i popoli deve dunque prevedere la guerra giusta, seppure come extrema ratio.

Un ulteriore elemento chiave è il dovere di assistenza alle società svantaggiate. La condizione di società svantaggiata rappresenta, ovviamente, una minaccia alla pace mondiale perché negli stati che esprimono i popoli svantaggiati nessuno potrà avere alcun diritto. La prospettiva rawlsiana, tuttavia, non implica alcuna opzione cosmopolitica, del tipo di quelle sostenute dal pensiero liberale classico (Kant o Mill). Il diritto dei popoli non si preoccupa di uniformare le condizioni di vita degli individui. Se all'interno di una società bene ordinata il tenore di vita, o qualsiasi altro fattore, è inferiore o superiore allo stesso fattore di un'altra società bene ordinata, il diritto dei popoli non può prevedere in nessun caso il diritto alla composizione delle differenze per mezzo di qualche strategia redistributiva. A patto naturalmente che le società siano bene ordinate, cioè, in ultima analisi, liberali o decenti. A patto cioè che esista una qualche forma di realizzabilità della ragione pubblica, cioè di quell'intreccio dialettico relativamente libero, relativamente alla situazione storica data, tra un'opinione pubblica capace di esprimersi e un ceto politico determinato almeno parzialmente dalle scelte dei cittadini.

La società dei popoli è dunque possibile, la filosofia ha delineato un procedimento, la storia lo realizzerà in tutto, in parte o per nulla, ma "se una società dei popoli ragionevolmente giusta i cui membri subordinano il potere di cui dispongono al raggiungimento di scopi ragionevoli non si dimostrasse possibile, e gli esseri umani si rivelassero per lo più amorali, se non incurabilmente cinici ed egoisti, saremmo forse costretti a chiederci, con Kant, che valore mai abbia per gli esseri umani vivere su questa terra"

La storia delle relazioni internazionali, anche recentissima, ha dimostrato che l'approccio al problema della pace mondiale è stato impostato lungo tutto l'arco del Novecento come teoria e pratica della sicurezza collettiva. Dai Quattordici punti di Wilson, alla Società delle Nazioni, dalla Carta di San Francisco alla Conferenza di Helsinki, gli stati si sono prefissi di trovare le norme attraverso le quali impedire o circoscrivere lo sviluppo dei conflitti. Il fallimento della sicurezza collettiva interpretata in maniera istituzionalizzata è sotto gli occhi di tutti; l'assenza dell'Onu nella recente crisi irachena lo ha ribadito con drammatica serietà.

Ogni qualvolta scoppia una guerra come quella che ha opposto l'alleanza anglo americana all'Iraq, i giornali, le televisioni, l'opinione pubblica e i politici si chiedono dove abbiamo sbagliato, quali siano stati gli errori che hanno, per l'ennesima volta, condotto il mondo a non rispettare le regole di sicurezza collettiva che si è dato. Il dibattito oggi è molto acceso per due motivi, il primo riguarda la natura dello stato aggressore, in questo caso gli Stati Uniti, che, pur sostenendo di combattere contro la minaccia delle armi di distruzione di massa, non riescono a convincere completamente nessuno che non stiano compiendo un'azione in qualche modo imperialista. Più generalmente poi, le guerre provocate o in cui sono coinvolti gli stati del mondo sviluppato, appaiono più gravi di quelle, endemiche, che si svolgono fra i paesi in via di sviluppo, quasi sempre dittature, perché i paesi democratici hanno raggiunto, per esempio in Europa, una condizione di pace potenzialmente perpetua come quella descritta da Kant e approfondita da Rawls. I conflitti fra paesi poveri e dittature non fanno questione, perché si assume, ragionevolmente, che fra governi che opprimono i cittadini sono inevitabili relazioni violente come quelle che essi hanno con i loro sottoposti. Dalla fine della Prima guerra mondiale ad oggi sono stati fatti alcuni tentativi, quasi sempre falliti, di intervenire nelle crisi internazionali cercando di creare degli automatismi o dei modelli di risposta standard che prevenissero lo sviluppo di nuovi focolai di violenza. Il libro di Andreatta discute questi modelli e le principali situazioni storiche nelle quali la comunità internazionale ha cercato di intervenire: la crisi abissina del 1935/36, la guerra di Corea, la prima guerra del Golfo, la guerra di Bosnia e l'intervento in Kossovo.

L'esame delle teorie emerse durante quest'ultimo settantennio consentono di individuare due possibili modelli giuridici con i quali tentare di mettere in pratica politiche di sicurezza: quello legalista e quello diplomatico. Il primo caso, quello per intenderci, in cui la comunità internazionale, attraverso i suoi organi rappresentativi, impone sanzioni ai membri che hanno violato una o più norme di convivenza pacifica, come accadde per difendere l'Abissinia, viene descritto dal libro di Filippo Andreatta in questi termini:
"In teoria, almeno, tutte le aggressioni dovrebbero trovarsi di fronte la stessa forza di contrasto: quella di tutta la comunità internazionale. La concezione legalistica della sicurezza collettiva è fondata perciò sull'idea che la guerra possa essere abolita per decreto…anche senza un governo mondiale capace di imporre le norme multilaterali, ci si aspetta che gli Stati si comportino come se quel governo esistesse, simulando i meccanismi automatici di imposizione richiesti, a livello nazionale, dalle istituzioni interne"

Il secondo invece
"La sicurezza collettiva di tipo diplomatico implicherebbe invece un'organizzazione più flessibile, maggiormente in sintonia con le differenze tra politica interna e politica internazionale."

"La distinzione tra le due concezioni evidenzia un dilemma cruciale per la sicurezza collettiva. Se il sistema è rigido sia per dominio (universale) che per regola (multilaterale), come suggerisce la versione legalistica, esso è sicuramente destinato a raccogliere ampio supporto, perché promette una soluzione radicale al problema della guerra; ma potrebbe rivelarsi irrealistico o andare in frantumi come un cristallo piuttosto che adeguarsi. Se invece l'obbligo legale è interpretato nel modo più flessibile, gli Stati potrebbero conciliare più facilmente le loro politiche tradizionali con l'istituzione, ma la sicurezza collettiva potrebbe diventare irrilevante, perché non sarebbe molto diversa dal sistema che essa cerca di migliorare in quanto l'abolizione della guerra tout court è più difficile in un ordine di tipo selettivo. Mentre quindi, un sistema troppo legalistico può essere inefficace, un sistema troppo diplomatico può essere inutile".

La preferenza dell'autore, tutto sommato, si orienta sul secondo modello, seppure con qualche correzione. Risulta infatti piuttosto semplice argomentare in favore di una semplificazione delle politiche estere nazionali attraverso, ad esempio, la creazione di una politica estera comune europea, che, tuttavia, per le considerazioni svolte da Rawls, appare molto difficile da realizzare, stante la difficoltà di relazione fra il demos europeo e i suoi governanti; realisticamente, come abbiamo detto all'inizio, non vediamo ancora tra i protagonisti della sicurezza collettiva altri soggetti oltre gli stati nazionali. La presenza della globalizzazione finanziaria e commerciale, cioè di una società in ultima analisi mondiale, e la contemporanea, e contraddittoria, permanenza della comunità degli stati nazionali appare sempre più il terreno di confronto e di scontro politico del XXI secolo

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