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15 Settembre, 2002
Adesso parlo io
Una splendida lettera di Livia Aymonino a Repubblica - *Sono la moglie di Silvio Sircana ma, soprattutto, sono Livia Aymonino, con la mia storia, le mie convinzioni, il mio lavoro, i miei figli, i miei pensieri*.

Gentile Direttore,

visto che apprendo dalle agenzie che sarebbe imminente la pubblicazione da parte di qualche settimanale di mie interviste esclusive e di ricostruzioni fantasiose in base alle quali io avrei “perdonato” mio marito, non avendo mai concesso alcuna intervista e non avendo mai avuto nulla da perdonare, ritengo utile inviarle questa mia riflessione. Si tratta di pensieri fissati sulla carta nei giorni scorsi che intendevo tenere per me o, al più, rendere pubblici più in là nel tempo quando la nube tossica si fosse diradata per lasciare spazio a cieli più sereni. Il perdurare della attenzione sulla vicenda mi impone invece di chiarire una volta per tutte il mio pensiero e i miei sentimenti che sono solo ed esclusivamente quelli qui sotto riportati.

Bisogna stare dritti. Quando ondate di fango, di parole, di dolore, di nulla ti travolgono a tua insaputa, malgrado te, bisogna stare dritti perché se ti pieghi hanno vinto loro, le calunnie, le parole, il fango, il nulla. Ho visto giorni migliori ma, come è noto, non c’è limite al peggio. E al peggio, purtroppo, veramente non c’è limite. La calunnia si nutre di paura e io non ho paura, mai, ho paura solo delle cose serie e vere, delle incognite cattive della vita, delle malattie, del male che possono ricevere i miei figli e le persone che meritano il mio amore. Non ho paura del niente, del vuoto, del più bieco pettegolezzo, perché non ho paura di quello che non esiste. Sono la moglie di Silvio Sircana ma, soprattutto, sono Livia Aymonino, con la mia storia, le mie convinzioni, il mio lavoro, i miei figli, i miei pensieri.

Silvio ed io siamo persone normali con una vita che da quindici anni scorre normale nei nostri binari. Di amore, rispetto, convinzioni, credo. Con le nostre intelligenze, le nostre carriere, i nostri cari, le passioni etiche e politiche, le nostre vite lì a testimoniare il percorso professionale e esistenziale di trenta anni di onorata carriera in questo difficile mestiere che si chiama vita. Tutto qui.

Siamo normali come le centinaia di persone che in questi giorni complicati ci sono state accanto con silenzio, rispetto e affetto. Poi ci sono gli altri: i professionisti della bugia, della parola, dei dibattiti, del sospetto, dei giudizi senza ragioni. Che hanno fatto male, molto male, a me, a noi, a loro stessi, senza pensarci troppo. E che hanno trasformato in basso e strisciante un dibattito alto che meriterebbe riflessione e pacatezza, quello della libertà di stampa e quello della libertà dell’individuo, dove finisce l’uno e inizia l’altro, cosa si è chiamati a fare e a essere quando si diventa persona pubblica e onorevole, in tutti i sensi. Del resto dalle situazioni peggiori si impara sempre qualcosa e noi siamo e restiamo persone curiose e non presuntuose, forti ma non arroganti, sempre pronte ad imparare e a mettersi in discussione.

Ce l’hanno insegnato le nostre famiglie, la nostra cultura, la nostra generazione e abbiamo il compito morale, familiare e politico di insegnarlo alle generazioni future, agli uomini e alle donne di domani che, speriamo, possano confrontarsi con un mondo e un Paese migliore di quello che ho visto e ho letto nelle ultime settimane. Un mondo dove la volgarità è diventata un ‘sito di dominio’ come su Internet, dove le opinioni contano sempre più dei fatti, dove l’apparire si confonde con l’essere e la vittima con il colpevole. Una favola di Esòpo all’incontrario, dove la morale è capovolta e dove vince sempre il cattivo a discapito del buono o dell’inerme.

Ecco cosa è stato mio marito e cosa siamo stati tutti noi in questi lunghi giorni: degli inermi in una favola rovesciata, dove la parte lesa si trasforma in colpevole senza appello, senza possibilità di fuga se non quella della resa. Delle belle, grasse vittime da sacrificare in nome dello scoop, della battaglia politica, della falsa morale. Uso un termine che non è mai stato usato, neanche una volta, in questi giorni: fiducia. Io ho una vera, grande, leale, fiducia in Silvio che spero sia ricambiata con altrettanta forza. Ho fiducia in quello che siamo, in quello che abbiamo costruito, nell’onestà specchiata e intellettuale con cui ha affrontato il compito che gli è stato chiesto di svolgere dal Presidente del Consiglio, dal Parlamento, dagli elettori.

Il suo calvinismo è conosciuto almeno quanto la sua magrezza e nel nostro (non) interessante dibattito familiare lui è sempre il più moralista, il più serio, il meno eversivo tra noi due. Facciamo poca o nulla vita mondana, sappiamo molto uno dell’altro, senza aspettarci di sapere tutto o di appartenerci completamente. Proprio perché abbiamo rispetto e fiducia reciproci. Non ci mangiamo, siamo, e percorriamo insieme, vicini, un pezzo lungo o corto che sia, della vita individuale di due persone. Di questa vita, di questo percorso, di questa fiducia, in questi giorni è stata fatta carta straccia. In nome di un’ipotetica verità, in nome di un’ipotetica giustizia, in nome di un’ipotetica responsabilità, in nome di un ipotetico Paese. Che non è il mio e nemmeno quello di tanti altri. Ma, come dicevo prima, anche dalle situazioni peggiori si può sempre imparare qualcosa e io in queste settimane ho imparato che c’è ancora tanto lavoro da fare.

E stasera vado a letto tranquilla sapendo che non è stato fatto nulla di male, se non a noi, e che per diventare persone migliori bisogna imparare a perdonare anche chi questo male ha procurato. Per non avere paura, mai, nemmeno del dolore.

 


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