15 Settembre, 2002
La sindrome di Enea (di Silvano Andriani da unita.it)
Dopo la sconfitta elettorale del 2001, sulle colonne di questo giornale, l'avevo chiamata «sindrome di Enea».
Dopo la sconfitta elettorale del 2001, sulle colonne di questo giornale, l'avevo chiamata «sindrome di Enea».
Si tratta della tendenza della sinistra italiana a ritenere di dovere andare al governo per salvare il Paese, mettersi sulle spalle il vecchio Anchise per portarlo fuori dalla città in fiamme. Salvo ad accorgersi, dopo, di aver preso sulle spalle non il proprio padre, ma il proprio avversario politico.
Era capitato negli anni 70, si era ripetuto negli anni 90 ed è successo ancora. Anche questa volta, quando ci chiederanno cosa ha fatto di significativo il governo Prodi, diremo che ha risanato il bilancio pubblico evitando al paese la catastrofe finanziaria verso la quale era stata avviata. So bene che Togliatti era un grande estimatore di Quintino Sella, ma mi appare innaturale una sinistra che sembra avere come principale vocazione quella di essere l'erede della destra storica.
Veltroni ha cercato di cambiare aria: ha parlato non di catastrofi, ma addirittura di un possibile miracolo italiano. Se qualcuno pensava che in due mesi di campagna elettorale si potesse annullare il doppio svantaggio derivante dalla straordinaria capacità del governo uscente di perdere consenso e da un deficit culturale accumulato nel giro di molti anni, si faceva delle illusioni. Si è riuscito semplicemente a cambiare la conformazione del campo di gioco nel quale si svolgerà il confronto politico e non mi pare poco.
Quanto al deficit culturale, in esso vi è una componente tipicamente italiana che proviene dalla storia della sinistra italiana che comporta una scarsa dimestichezza col pensiero riformista del Novecento sia con quello di provenienza socialdemocratica, dei Myrdall e dei Tinberghen, sia con quello liberaldemocratico dei Keynes e dei Beveridge e che porta anche a non distinguere bene, talvolta, nel grande mare della tradizione liberale tra liberaldemocratici e liberisti.
La seconda componente riguarda invece la sinistra europea. È evidente che stiamo assistendo alla crisi della cultura della destra neo-liberista che ha dominato negli ultimi trenta anni e del modello di sviluppo nato dalle politiche da essa adottate. È fallita l'idea di potere governare il mondo imponendo un unico modello di democrazia.
L'aumento delle disuguaglianze ed il conseguente irrigidirsi delle strutture della società vanifica la promessa di rendere attraverso il mercato le persone in grado di realizzare le proprie capacità e di essere valutati secondo i propri meriti. Le crisi finanziarie stanno sgretolando il mito dei mercati come meccanismi razionali e capaci di autoregolarsi ed i grandi scandali societari il mito della capacità dei mercati di controllare le imprese.
Un sondaggio Financial Times/Harris Poll del Luglio scorso mostra che il consenso al processo di globalizzazione nei Paesi avanzati dell'Europa è diventato nettamente minoritario, fanno eccezione solo i Paesi nordici che hanno mantenuto un assetto di tipo socialdemocratico, mentre un sondaggio più recente ci dice che negli Usa il 58% degli intervistati valuta negativamente l'attuale processo di globalizzazione e solo il 28% lo valuta positivamente.
In questi frangenti ci si aspetterebbe che la sinistra stesse vincendo alla grande, invece in Europa perde quasi dappertutto e, se si votasse ora, perderebbe quasi certamente anche in Inghilterra.
Di fronte ai fallimenti del neo-liberismo ed alla crescita di insicurezza nelle condizioni di lavoro, di vita e di ordine pubblico che la globalizzazione provoca per la maggioranza della popolazione la sinistra risulta spiazzata dal prevalere al suo interno di una cultura, anch'essa di origine anglosassone, la cosiddetta terza via, sostanzialmente acritica, se non apologetica. Quando Tony Blair ha risposto a chi denunciava la crescita delle disuguaglianze e della povertà, per le quali l'Inghilterra è ora ai massimi livelli in Europa, che riducendo i guadagni di Beckam non si risolvono i problemi del Paese, ha dato prova non solo di un certo cinismo, ma anche di incapacità a comprendere le contraddizioni ed i guasti provocati dal tipo di sviluppo in atto.
Barak Obama, accusando Bill Clinton di essere stato uno degli artefici della finanziarizzazione dei sistemi economici, ha detto semplicemente ciò che altri, come il Nobel J. Stiglitz, aveva già affermato dissociandosi a suo tempo dal governo di Clinton.
Giulio Tremonti nel suo recente libro svolge una critica radicale dell'attuale modello di sviluppo. E, nel tentativo disperato di attribuirne la responsabilità alla cultura di sinistra, compie una vera e propria acrobazia intellettuale inventando perfino lo slogan «dal comunismo al consumismo».
Nel libro mancano parole chiave: Reagan, Thatcher, Friedman, neo-liberismo, neo-con, tutte le parole che attestano l'innegabile matrice di destra del modello di sviluppo attuale. Il mito del mercato autoregolato e l'ideologia individualista sono tipici della cultura della destra. Il travisamento compiuto da Tremonti è tuttavia facilitato dalla subalternità che la cultura della sinistra ha dimostrato finora. Le sue conclusioni mi sembrano assai discutibili, ma egli ha ragione a vantarsi di essere stato negli ultimi anni l'unico personaggio politico italiano a svolgere una critica dell'attuale processo di globalizzazione.
Qualcuno, con altro taglio, lo ha fatto anche a sinistra, ma si tratta in genere di intellettuali che non fanno più parte dell'establishment politico e sono rimasti inascoltati.
Il Partito Democratico ha inevitabilmente sinora concentrato l'attenzione sulla conformazione del sistema politico italiano e su temi di più facile comunicazione nella campagna elettorale.
Da ora dovrebbe affrontare i temi più generali che sono di fronte all'impegno di rinnovare la cultura e le politiche riformiste, a cominciare dall'impegno a superare il deprimente provincialismo che ha portato ad escludere completamente la dimensione internazionale dal dibattito politico.
Con i tempi che corrono il riformismo in un Paese solo mi sembra un'idea peregrina.
La rivoluzione in atto nel sistema politico italiano sta portando all'emergere di una nuova generazione di dirigenti della sinistra. Finalmente. Ma le nuove generazioni se vogliono davvero candidarsi a svolgere un ruolo politico devono farlo non semplicemente attraverso l'anagrafe, ma producendo un nuovo pensiero e, sopratutto dopo una sconfitta elettorale, una critica esplicita del passato. Mi pare sia giunto il tempo di alzare la celata e mostrare il proprio viso.
 
Fonte L'Unità
|