15 Settembre, 2002
Tre parroci in gamba di Massimo Negri
Nel libro di Dacia Maraini La nave per Kobe (Rizzoli) la scrittrice ricorda il giorno in cui, da bambina, domandò al padre Fosco il permesso di recarsi con la sua educatrice britannica in una chiesa anglicana
Tre parroci in gamba di Massimo Negri
Nel libro di Dacia Maraini La nave per Kobe
(Rizzoli) la scrittrice ricorda il giorno
in cui, da bambina, domandò al padre Fosco il permesso
di recarsi con la sua educatrice britannica
in una chiesa anglicana. Egli, con sobria
eleganza, le rispose: "Vai pure, però
non lasciarti influenzare da un credo piuttosto
che da un altro. Le religioni sono tante
e tu non sei ancora all' altezza di decidere.
Non avere nemmeno l' arroganza di ritenerti
al di sopra della religione. La fede è una
cosa importante, bella. Ma bisogna praticarla
con convinzione".
Il passaggio del libro della Maraini mi riporta
ai trascorsi all' ombra del campanile. Ho
ricevuto, come tanti, un' educazione cristiana
all' interno di una famiglia dove la tradizione
non è mai stata in discussione. La fede era
vissuta in modo semplice, forse un po' convenzionale
ed era, soprattutto, il veicolo per l' apprendimento
di alcune regole di vita, senza porsi tante
domande. Altri tempi, altri sistemi, che
hanno lasciato però un segno vero che, dopotutto,
penso di aver avuto la fortuna di ricevere
per la predisposizione all' ascolto della
parola cui mi ha abituato. Ne è prova pure
il fatto che oggi Luisella e io, avviati
al cattolicesimo e poi allontanatici, riteniamo
utile che Claudia, nostra figlia, segua un
cammino di conoscenza di questa importante
radice culturale per poi decidere, nella
maturità, se praticare con convinzione la
fede oppure rinunciarvi. Confidiamo, tuttavia,
che il suo accostarsi alla religione sia
graduale, equilibrato, come si conviene a
ogni percorso formativo. Nel caso, invece,
della mia infanzia vi è stata una presenza
forse eccessiva della chiesa e dell' oratorio,
dove passavo gran parte del mio tempo. Se
volgo indietro lo sguardo ritrovo un bambino
che, nel corso della quinta elementare, prima
di recarsi a scuola va a servire la messa
e nel pomeriggio partecipa alla recita del
rosario, in una casa privata. Alla domenica,
poi, è un fiero chierichetto a tre funzioni.
Non pago, infatti, delle due servite nella
parrocchia di Vicomoscano (CR) pigliavo la
bicicletta per andare a seguirne un' altra
al Santuario Madonna della Fontana a Casalmaggiore
(CR). La strada non era asfaltata e se, talvolta,
cadevo e mi sbucciavo le ginocchia non ho
mai pensato di tornarmene a casa. In quella
lontana determinazione alla meta colgo un
dato di carattere che, nel bene e nel male,
accompagna il mio corso.
Il punto è che, però, a quell' età, un bambino
è fragile, delicato, facilmente soggetto
alle influenze esterne. A posteriori, penso
che quell' entusiasmo infantile per la religione
sia stato condizionato da Padre Domizio,
Superiore di quel Santuario, che voleva studiassi
da prete o da frate e che, pertanto, spingeva
perché entrassi in seminario. Si opposero
i genitori con
l' aiuto di Don Ernesto, parroco di Vicomoscano
che, vecchia saggezza di curato di campagna,
consigliò di lasciar decantare le cose per
capire se la vocazione fosse autentica e
non, piuttosto, un fuoco di paglia. Fu raggiunto
un compromesso. Anziché andare subito in
seminario a Gandino (BG) era opportuno sperimentare
il distacco da casa facendo le scuole medie
in un paese più vicino, presso Il Villaggio
del Ragazzo a Viadana (MN). Bastarono due
anni di collegio per recedere dall' idea.
Persi la vocazione ma non la fede che, invece,
rafforzai entrando in un Gruppo del Vangelo,
la prima esperienza di crescita culturale
condivisa. Ci riunivamo in una decina alla
sera,
a casa di Cesare, organista e leader del
gruppo e che ricordo con affetto anche perché,
diversi anni dopo, nel giorno delle nozze
fra Luisella e me, ci sorprese accompagnando
l' uscita dalla chiesa con le note di Blowin'
in the wind di Bob Dylan.
Pure adesso che ne scrivo provo un tuffo
al cuore. A casa di Cesare si leggevano dei
brani del Vangelo cercando di commentarli.
Presto consapevoli dei nostri limiti e sfidando
spesso le nebbie dei luoghi ci recavamo,
con frequenza mensile, a Gazzuolo (MN) in
udienza da
Don Paolo Antonini, figlio ideale di Don
Primo Mazzolari e, come lui, fervente predicatore.
Preti di frontiera, si diceva una volta,
dai quali ho appreso i principi della dottrina
sociale della Chiesa enunciati da Giovanni
XXIII nel Concilio Vaticano II, parte di
un umanesimo cristiano che, a partire dalla
generosità, ha ancora tanto da offrire al
mondo contemporaneo.
Per singolare coincidenza Don Paolo si trasferì
poi come me a Casalmaggiore dove ha svolto
il suo sacerdozio dal 1978 al 1997. Ho potuto
così continuare a sentire qualche sua omelia
e ad apprezzare il coerente impegno a favore
dei poveri, tramite la carità della San Vincenzo,
e a favore degli immigrati, con l' apertura
di una Casa dell' Accoglienza.
Don Paolo, ligio al dettato evangelico "ero
straniero e mi avete ospitato", insegnava
che
"c' è un unico Dio e diversi sono solo
i modi di pregarlo", anticipando le
posizioni della Chiesa
sul dialogo fra le diverse religioni. Dopo
che Don Paolo si è ritirato presso la Casa
di Riposo di Bozzolo (MN), paese di Don Primo
Mazzolari, la Casa dell' Accoglienza ha chiuso
i battenti per motivi di ristrutturazione
dello stabile di proprietà della locale Parrocchia
di Santo Stefano.
Nel 2003 li ha riaperti con la gestione affidata
alla Caritas di Cremona e attualmente ospita
25 persone. Il seme gettato da Don Paolo
conosce così una nuova stagione di frutti.
Alleggerisco un po' il filo del racconto
tornando, per un momento, alle indimenticabili
partite
di calcio fatte nel campetto dell' oratorio
e, sebbene portiere, mi rifletto nei versi
di Settembre
(Luca Carboni) "come i goal che facevo
contro una porta di legno e con le braccia
alzate saltare goal. E la mia mamma che chiama
che è già pronta la cena ma voglio ancora
giocare un po'!". E annoto un episodio
accaduto nel 1971, quando avevo 13 anni,
sul piazzale della chiesa adiacente il campetto
e, quel sabato pomeriggio, chiuso perché
Don Ernesto era stanco delle pallonate alla
sua abitazione. Noi ragazzi non sapevamo
come reagire. Intervenne allora un inatteso
spirito ribelle. Procurato un pennello e
un po' di pittura trovai il coraggio di scrivere sul muro di
cinta: "vogliamo aperto l' oratorio".
Uno scompiglio.
Nel volgere di pochi minuti ci fu un assembramento
di gente del paese con l' avvento pure dei
Carabinieri che domandarono chi aveva scritto
sul muro e perché. Intimorito risposi che
ero stato io e che volevamo solo giocare
a pallone. L' episodio si chiuse in fretta,
senza spiacevoli conseguenze. Il lunedì successivo,
alcune pie donne cancellarono la scritta
e il cancello del campetto fu riaperto. Ripensandoci,
anche se mai più ho scritto con un pennello,
non mi pento di quel gesto. Vi leggo, in
nuce, la adesione futura ai principi della
democrazia che,
per realizzarsi, ha bisogno di spazi aperti per i quali credo
valga la pena di "combattere la buona
battaglia", come la chiamava San Paolo.
Dopo Don Paolo Antonini un secondo faro che
ricordo con piacere è Don Leonardo Zega.
Oggi commentatore del quotidiano La Stampa
e del settimanale Oggi, Don Zega è stato,
per circa vent' anni, direttore di Famiglia
Cristiana, la rivista cui era abbonata mia
madre.
Ogni numero si apriva con la rubrica Colloqui
col Padre, una selezione dei quali è stata
raccolta in un' antologia nel 1998 dal titolo
I volti dell' amore (Garzanti). In quei dialoghi
con i lettori ammiravo, da un lato, la pacatezza
dello stile e, dall' altro, una capacità
di ascolto propria di chi sa porsi in comunione
con il prossimo, in uno spirito di ricerca
continuo che non ammette, per definizione,
toni da crociata. Dalle risposte emergeva
un' attenzione ai casi umani con il loro
carico di difficoltà e di sofferenze, cui
sapeva fornire una parola di speranza e,
spesso, un saggio consiglio per correggere
gli eventuali errori. Provo gratitudine per
Don Leonardo Zega e gli dedico il proverbio
indiano: "ogni volta che vuoi giudicare
qualcuno, cammina prima tre lustri nei suoi
mocassini".
Prima di concludere desidero ora compiere
una riflessione sul mio attuale rapporto
con la religione. Condivido un' accezione
della laicità precisata da Giulio Giorello:
"Chi è di nessuna chiesa non si ritrova
nemmeno in una chiesa di atei. La libertà
del laico gioca su un paradosso: essere di
nessuna chiesa vuol dire anche impegnarsi
per la libertà di qualsiasi chiesa".
Il corollario penso sia quello di leggere
il pluralismo degli stati laici moderni come
un segno di garanzia per le diverse fedi
religiose, maggiori e minori. Un terreno
neutro sul quale gli individui, singoli o
associati, giocano la partita dei significati.
Aggiungo che sono lieto di vivere in un'
epoca storica e in un sistema politico -
la democrazia liberale - che ha tra le sue
virtù il policentrismo culturale che dà voce
alle differenti campane, a volte in armonica
composizione dei suoni, altre volte in dissonanti
note ma dove la ricerca dei buoni accordi
e della reciproca tolleranza può essere fonte
di ispirazione comune. A monte rimane, per
molte persone, la visione della religione
come principale fattore di risposta agli
interrogativi ultimi che accompagnano la
vita dell' uomo che, da sempre, trova nel
sacro un modo per placare la sua sete di
infinito. Sono temi e misteri a lungo dibattuti
e che non è il caso qui di riprendere.
Mi limito ad osservare che, se per Pascal
la fede in Dio è una "ragionevole speranza",
per Kant l' uomo, con la sola ragione, non
è in grado di dimostrare né l' esistenza
di Dio né la sua assenza. Sono rebus forse
irresolubili, almeno per chi non ha la forza
o l' umiltà di affidarsi a un' entità metafisica,
lontana ma altrettanto vicina se già nell'
animo. Sarò minimalista ma, con la cautela
di chi conosce poco la filosofia, sono affezionato
all' epigrafe che si trova, per
l' appunto, sulla tomba di Kant "il cielo stellato sopra di me, la legge
morale dentro di me".
Lo scintillio delle stelle è dato, ai miei
occhi, dal libero incontrarsi delle idee;
nel cielo, ovvero nell' anima di ciascuno
di noi, non ostacolato. Chi non ha, o ha
perduto, la grazia della fede, può vivere
la religione solo come una morale, ossia
come una delle possibili tavole di valori
cui attingere per secernere il bene dal male
e orientare i propri comportamenti. Nel rispetto
di chi ha il dono della fede sono fra coloro
che si fermano un gradino di sotto, sulla
soglia delle eterne domande che la ragione
pone: "chi siamo? da dove veniamo? dove
andiamo?" ma a cui fatica a rispondere.
Sulla soglia di quel mistero che, a volte,
la mente e il cuore non sono in grado di
varcare. Nell' Antico Testamento c' è una
scena del profeta Isaia che trovo molto suggestiva:
"Sentinella, quanto resta della notte?".
Richiama alla vigilanza e, forse, rammenta
la condizione dell' uomo il cui destino è
di domandare senza ricevere risposte definitive.
Chiudo con una preghiera di Don Primo Mazzolari,
il terzo parroco in gamba del racconto
e di fronte alla cui statura volgo al silenzio.
Preghiera dell' impegno
Ci impegniamo noi e non gli altri
unicamente noi e non gli altri
né chi sta in alto né chi sta in basso
né chi crede né chi non crede.
Ci impegniamo senza pretendere
che altri si impegnino,
come noi, con noi o in altro modo.
Ci impegniamo perché non potremmo non impegnarci.
C' è qualcuno o qualcosa in noi,
una ragione, una vocazione, una grazia, più
forte di noi stessi.
Ci interessa di perderci
per qualcosa o per qualcuno
che rimarrà anche dopo
che noi saremo passati
e che costituisce ragione
del nostro ritrovarci.
Ci impegniamo a portare un destino eterno
nel tempo,
a sentirci responsabili di tutto di tutti,
ad avviarci, sia pure attraverso
un lungo errare, verso l' amore.
Ci impegniamo, perché crediamo all' amore,
la sola certezza che non teme confronti,
la sola che basti per impegnarci perpetuamente.
Massimo Negri
Casalmaggiore
5 ottobre 2008
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