15 Settembre, 2002
Una tradotta . Un racconto di Giannino Aletti
Iniziamo con oggi la pubblicazione dei racconti di anziani presenti nel libro *In paradiso in bicicletta....racconti di un tempo che fu* edito da Azienda Cremona Solidale
Iniziamo con oggi la pubblicazione dei racconti
degli anziani pubblicato nel libro
" In pardaiso in bicicletta....racconti
di un tenpo che fu" edito da Azienda
Cremona Solidale con
il contributo della Coop Lombardia, della
Cooperativa Dolce ed il patrocinio del comune
di Cremona.
Il progeto è nato da un'idea di Cristina
Marenzi Educatrice del Centro Diurno Disabili
Tofane
e coordinatrice e ideatrice del progetto
di collaborazione con il Centro Diurno Integrato
Ecco il primo racconto.
I RACCONTI DI GIANNINO ALETTI
GIANNINO ALETTI è nato nell’anno 1916 a Verolanuova
ed ha vissuto a Cremona. Aveva cinque
fratelli ed ha avuto sei fi gli. Ha lavorato
in campagna. Da giovane amava il ballo, il
canto e la campagna.
Oggi la sua passione è giocare a carte.
Una tradotta
Alcune volte, ricordare fa star male, perché
al cuore si ripresentano
sentimenti che credevamo scomparsi, ma che,
al contrario,
sono solo sopiti: restano in agguato, pronti
a ripresentarsi appena
la mente ripensa al passato. Così, nonostante
i miei novant’anni,
non ho attenuato la mia avversione per i
tedeschi, un sentimento cupo e
profondo che forse si chiama odio. E’ l’odio
per tutte le atrocità di cui si
sono macchiati durante la Seconda Guerra
Mondiale, è l’odio per i loro
modi spietati e sprezzanti nel gestire qualsiasi
operazione, è l’odio per
aver trattato noi soldati italiani, loro
alleati, con l’arroganza del padrone,
è l’odio per averci fatto sentire loro servi.
E’ pure vero che ho incontrato qualche tedesco
più umano, ad esempio
quell’infermiera dell’ospedale tedesco di
Lione, mora e bella, che è riuscita
a farmi superare il disagio di dovermi togliere
i pantaloni davanti
a lei per levarmi le schegge che mi si erano
confi ccate nelle gambe e
nella pancia in seguito ad un bombardamento.
Non dimentico neppure
il Comandante “Tubiger”, un uffi ciale grande
bevitore di grappa, che
non voleva più tornare al fronte, ma che
ha favorito il mio ritorno a casa.
Sulla carta geografi ca aveva segnato a matita
tutti i movimenti: Francia,
Albania, Russia. Ne avevo viste e fatte abbastanza,
potevo tornare a
casa, pieno di pidocchi, ma potevo tornare
da mia moglie e dalle mie
tre bambine. Per molte notti, a detta di
mia moglie, ho avuto sonni agitati
ed ancora adesso il tempo non ha guarito
le ferite. Ancora adesmentre
ne parlo, mi commuovo, mi si riempiono gli
occhi di lacrime
ripensando alla Seconda Divisione Alpina
Tridentina, a quella tradotta
per la Russia durata sedici giorni, ai miei
ventotto anni vissuti in quel
modo. E’ per me diffi cile defi nire quella
specie di pietà che provo ed ho
provato per me e per tutti quelli che sono
stati in qualche modo coinvolti
nella maledetta guerra.
Dopo un viaggio di una lunghezza estenuante,
con l’unico conforto di
una galletta e di una scatoletta di carne
al giorno, il treno si era fermato
ad una stazione di ben tre binari in Ucraina.
Lì sostava una tradotta
tedesca: una lunga fi la di vagoni sbarrati
con un reticolato e lo spettacolo
straziante delle donne in essi prigioniere
che, come i loro bambini,
piangevano e urlavano chiedendo aiuto e strappandosi
i vestiti. Insieme
a quelle madri disperate, ve ne erano altre
che avrebbero continuato il
loro viaggio senza i loro bambini. Molti
di loro infatti, erano morti su
quei vagoni maledetti. Bambini morti accatastati
su carretti che i russi
erano costretti a scaricare dal treno. I
soldati italiani del reparto autisti
dovevano fare scorta d’acqua: bisognava riempire
grossi sacchi di tela
e fare in fretta. L’acqua, quel bene prezioso
che ci passava davanti, era
destinato ai radiatori dei camion e non a
noi che morivamo di sete.
In quella confusione che mescolava urla di
pianto e ordini, spiccava il
“rauss” dei tedeschi che non ascoltavano
né rispettavano non solo i
soldati semplici italiani, ma neppure i nostri
graduati. Era così elevata la
tensione che il generale Reverberi – di Reggio
Emilia – diede ordine di
ripartire subito.
Ripensare a quella tradotta è come costruire
un puzzle, ma le sue tessere
sono pesanti perché ad ognuna è legata una
stazione, un posto con dei
morti.
Era davvero grande la pineta di Porto Gorroy:
dopo avere scaricato completamente
il treno, io e i miei compagni Grandi e Arcari,
ci siamo inoltrati
in quel verde che la guerra sembrava non
aver neppure sfi orato.
Invece, fatti pochi passi, abbiamo trovato
elmetti e croci di legno con il
nome: un intero battaglione sepolto.
Davvero la morte era ovunque, quasi non risparmiava
niente e nessuno.
Anche gli animali sembravano più crudeli
fra di loro. L’ho pensato una
notte a Rostov, altra tappa della tradotta.
Dormivamo nelle isbe, vestiti
e con le armi sempre pronte. Una notte, nel
dormiveglia, ci arriva dalla
fi nestrella un rumore sospetto, occorre
controllare. Non lo faccio, preferisco
sorbirmi le lamentele del capitano Bellini
che mi accusa di essere
un fi fone, non un soldato. Lo fa lui: è
solo un cane, per non correre
rischi spara e lo ammazza. Forse non era
necessario. Al mattino dopo,
scopriamo che altri cani avevano completato
l’opera sbranandolo. Per
noi una sensazione amara.
Sempre le circostanze ci hanno tenuto sul
chi va là, anche momenti che
potevano essere più piacevoli sono stati
rovinati dalle necessità, dalla
situazione di paura cui eravamo perennemente
sottoposti. Il pericolo era
sempre dietro l’angolo e spesso poteva nascondersi
nei posti apparentemente
più tranquilli.
Anche un campo di girasoli, con il loro colore
pieno di luce, poteva nascondere
un’insidia.
Era bastato uno stormire di foglie, l’ondeggiare
di alcuni girasoli poco
più avanti di noi perché si mettesse mano
alla mitraglia…. per fortuna
era solo un cinghiale: per come la vedevo
io, è stata l’unica morte utile.
Almeno abbiamo mangiato.
da un racconto di Giannino Aletti
Cremona, 18 ottobre 2005
 
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