15 Settembre, 2002 Dove abita la verità Communitas 2002: Riflessioni sul caso Andreotti
Sottoponiamo all'attenzione di tutti questo articolo sulla sentenza Andreotti
(pubblicato sull'Unità del 7 ott. 2004) che, sia per l'autorevolezza
dell'autore sia per le riflessioni susseguenti, dovrebbero essere meditate
e magari insegnate nelle scuole.
Communitas 2002
ANDREOTTI. DOVE ABITA LA VERITÀ. di Livio Pepino
Dopo dodici anni, tre dibattimenti e un milione e 426 pagine di atti processuali
- come puntigliosamente precisato dai media - il processo a carico del senatore
Andreotti per partecipazione ad associazione mafiosa si è concluso, il 15
ottobre scorso, con la conferma, in Cassazione, della sentenza di appello che ha
ribadito l'assoluzione pronunciata in primo grado con riferimento al periodo
successivo alla primavera del 1980. La stessa sentenza ha, peraltro, dichiarato
non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine al reato di
associazione per delinquere, commesso fino alla primavera deI 1980, per essere
lo stesso reato estinto per prescrizione. Le aule di giustizia, dunque, non
hanno più nulla da dire al riguardo e devono ora parlare la politica e la
storia. Ma il giudizio politico e quello storico non possono ignorare i fatti
accertati in sede giudiziaria, così riassunti nella pagine finali della
sentenza di appello: «Una autentica, stabile ed amichevole disponibilità
dell'imputato verso i mafiosi non si (è) protratta oltre la primavera del 1980.
Eventuali - non compiutamente dimostrate - manifestazioni di disponibilità
personale del sen. Andreotti successive a tale periodo sono state semplicemente
strumentali e fittizie, comunque non assistite dalla effettiva volontà di
interagire con i mafiosi anche a tutela degli interessi della organizzazione
criminale: anzi, in termini oggettivi è emerso un, sempre più incisivo,
impegno antimafia, condotto dall'imputato nella sede sua propria della attività
politica. Deve, dunque, escludersi che sia rimasto dimostrato che il sen.
Andreotti abbia, nel periodo successivo alla primavera del 1980, coltivato
amichevoli relazioni con gli esponenti di Cosa Nostra, abbia palesato una
sincera disponibilità nei confronti dei medesimi, abbia concretamente agito per
agevolare il sodalizio criminale, abbia arrecato un contributo al rafforzamento
dello stesso. (...) Per contro, in relazione al periodo precedente la
Corte ha ritenuto la sussistenza: - di amichevoli ed anche dirette relazioni del
sen. Andreotti con gli esponenti di spicco della cd ala moderata di Cosa Nostra
Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, propiziate dal legame del predetto con l'on.
Salvo Lima ma anche con i cugini Antonino ed Ignazio Salvo, essi pure, peraltro,
organicamente inseriti in Cosa Nostra; - di rapporti di scambio che dette
amichevoli relazioni hanno determinato: il generico appoggio elettorale alla
corrente andreottiana (...); il solerte attivarsi dei mafiosi per soddisfare,
ricorrendo ai loro metodi, talora anche cruenti, possibili esigenze - di per
sé, non sempre di contenuto illecito - dell'imputato o di amici del medesimo;
la palesata disponibilità ed il manifestato buon apprezzamento del ruolo dei
mafiosi da parte dell'imputato, frutto non solo di un autentico interesse
personale a mantenere buone relazioni con essi, ma anche di una effettiva
sottovalutazione del fenomeno mafioso, dipendente da una inadeguata comprensione
- solo tardivamente intervenuta - della pericolosità di esso per le stesse
istituzioni pubbliche ed i loro rappresentanti; - della travagliata, ma non per
questo meno sintomatica ai fini che qui interessano, interazione dell'imputato
con i mafiosi nella vicenda Mattarella, risoltasi, peraltro, nel drammatico
fallimento del disegno del predetto di mettere sotto il suo autorevole controllo
la azione dei suoi interlocutori ovvero, dopo la scelta sanguinaria di costoro,
di tentare di recuperarne il controllo, promuovendo un definitivo, duro
chiarimento, rimasto infruttuoso per l'atteggiamento arrogante assunto dal
Bontate. I fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono che il sen. Andreotti
ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano
amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato
amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una
disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da
concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha
incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere
in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire,
in definitiva, ad ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha
indotto i medesimi a fidarsi di lui ed a parlargli anche di fatti gravissimi
(come l'assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non
correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro
responsabilità, in particolare in relazione all'omicidio del presidente
Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di
conoscenza. (...) Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi
fatti, la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice
manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza
penalmente irrilevante, ma indichino una vera e propria partecipazione alla
associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo».
* * * * *
La citazione - della cui lunghezza ci scuseranno i lettori - è esplicita e
univoca: fino alla primavera del 1980, e per un periodo apprezzabile, c'è
stata, da parte del sen. Andreotti, «una vera e propria partecipazione alla
associazione mafiosa», che si è interrotta solo in tale anno, quando l'ex
presidente del Consiglio ha infine percepito la pericolosità di Cosa Nostra ed
ha mutato atteggiamento ponendo in essere anche atti politici diretti a
contrastarla. Questo è quanto accertato in sede giudiziaria. Ovviamente si
tratta di un accertamento e di un giudizio suscettibili di critica: sia nella
valutazione della portata e del significato delle condotte del senatore
Andreotti anteriori al 1980 sia nella verosimiglianza della avvenuta percezione
da parte sua della pericolosità di Cosa Nostra solo dopo anni di omicidi
"eccellenti" e documentate denunce della Commissione antimafia. Ma
ciò che non è lecito fare - per un elementare rispetto della verità - è dire
che la sentenza della Corte d'appello di Palermo (confermata dalla Cassazione)
ha «assolto il senatore Andreotti», «posto fine a una persecuzione e a un
calvario», «riabilitato la Democrazia cristiana», «restituito credibilità
alle istituzioni». Eppure sono queste le affermazioni che, oggi come
all'indomani della sentenza di appello, hanno dominato la scena; e a
pronunciarle sono stati non solo alcuni tra i più autorevoli opinion makers ma
anche politici di primo piano e persino alcuni vertici istituzionali. Non
essendo pensabile che essi non conoscano il diverso significato dei termini
«assoluzione» e «prescrizione» e non abbiano letto i passaggi fondamentali
della sentenza, c'è da chiedersi la ragione di questa operazione di
"occultamento della verità". Ed è questo - ci pare - il problema
politico fondamentale posto dalle ultime propaggini del "caso Andreotti".
Proviamo ad abbozzare una risposta.
1. La verità e la politica stanno sempre più imboccando strade diverse e
opposte. Lo ha dimostrato in modo evidente, sul piano internazionale, la vicenda
della guerra all'Iraq e delle (false) ragioni addotte a sua giustificazione. La
logica, anche in questa vicenda, è la stessa: non interessano i fatti ma la
realtà virtuale, costruita a beneficio e a vantaggio del potere. C'è chi
sostiene, senza pudore, che si tratta di una necessità per mantenere il
consenso dei cittadini. Siamo, al contrario, convinti che sia una tappa della
trasformazione dei cittadini in sudditi e del deperimento della democrazia (che
smette di essere tale senza trasparenza e verità).
2. Dire che il senatore Andreotti è stato "assolto" anche in
relazione ai fatti anteriori al 1980 significa - come, del resto, è stato
esplicitamente affermato - "assolvere" un sistema di governo, un modo
di fare politica: non solo e non tanto per il passato, quanto per il presente e
per il futuro. Significa abbattere il discrimine tra morale e immorale e tra
legale e illegale. Se frequentare mafiosi, chiedere e offrire loro favori,
discutere con loro finanche di omicidi - condotte tutte ritenute provate nella
sentenza della Corte di appello di Palermo - è considerato lecito sotto il
profilo politico e giudiziario (come implica il termine
"assoluzione"), allora questo può essere un metodo di azione politica
e non deve destare scandalo se così fanno o faranno - non ieri, ma oggi o
domani - politici di primo piano nel panorama nazionale e in quello siciliano.
3. Questo costume e questa cultura, ancorché alle porte, incontrano tuttora,
tra gli altri, un ostacolo: alcune leggi e chi è chiamato ad applicarle e lo fa
con rigore e fermezza. Sta qui la ragione fondamentale della
"falsificazione" dell'esito del processo, necessaria per condurre una
ulteriore opera di delegittimazione di chi ha doverosamente condotto le indagini
(e, insieme, dei magistrati che continuano a credere nei principi di legalità e
uguaglianza).
Per questo chiedere che l'analisi del "caso Andreotti" avvenga a
partire da carte vere e non da "carte false" è un problema di
democrazia e non un inutile (e meschino) accanimento nei confronti di un
notabile ormai estraneo ai circuiti del potere reale.
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