15 Settembre, 2002
«Vietato obbedire»
Ivan Carozzi per Girodivite sul libro di Concetto Vecchio: «in una splendida narrazione il ricordo della mitica facoltà di Sociologia di Trento»
‘Vietato obbedire’, proprio così. Una specie di ossimoro, di
contraddizione in termini che racchiude tutte le inconciliabili antinomie di un
epoca. ‘Vietato obbedire’, ora, è il titolo del saggio edito dalla Bur che
il giornalista di origini catanesi Concetto Vecchio (che nome strano e
malinconico) ha voluto dedicare ai giorni di fuoco della mitica facoltà di
Sociologia di Trento.
Un considerevole lavoro di ricostruzione storica, davvero stupefacente per la
straripante mole di dati, informazioni e aneddoti che Vecchio è riuscito a
mettere insieme e a riversare sulla pagina. Nei ringraziamenti si legge: ‘Un
monumento merita Sergio Mozzi, ex funzionario dell’università di Trento, che
per quasi vent’anni ha raccolto e conservato tutti gli articoli usciti su
Sociologia. Senza quel tesoro di ritagli non sarei mai riuscito a ricostruire la
corretta cronologia dei fatti’.
E non solo la cronologia. Dalla narrazione di Vecchio, infatti, ci viene
restituita per intero l’atmosfera di quella città imbalsamata, tutta alpini e
grappini, che un giorno del ’63 cominciò a vedersi invasa di capelloni,
barbudos, freakettoni, intellettuali occhialuti e femministe in minigonna e con
i seni appuntiti. Uno shock. Un happening. Eppure, al di là degli sviluppi che
seguirono, la facoltà di Sociologia nacque da un’idea di un gruppo di
democristiani trentini, particolarmente illuminati.
Su tutti Bruno Kessler (futuro rettore dell’università) e il giovane
economista Beniamino Andreatta. Erano quelli gli anni del centro-sinistra al
governo. L’idea moderna e temeraria, e per questo molto osteggiata, di un
corso universitario in sociologia, rappresentò il tentativo di costruire, in
Italia, un percorso formativo nuovo ed originale destinato ai futuri quadri
dirigenziali, alle generazioni cresciute durante il grande boom economico. Non
solo. Da un altro punto di vista, questo corso universitario nuovo di zecca
nasceva non soltanto da un’esigenza di modernizzazione, ma doveva funzionare
pure da sfiatatoio, rispondere cioè al progetto di offrire al Trentino, regione
bianca, cattolica e ipertradizionalista, una via d’uscita dall’isolamento
nel quale si trovava da tempo relegato, soprattutto rispetto alle altre regioni
dell’Italia Settentrionale.
E la notizia di Sociologia riesce effettivamente ad intercettare il fervido
entusiasmo di moltissimi giovani, borghesi, alto borghesi, proletari e poi di
tanti, tantissimi cattolici. Ed è l’inizio di una grande avventura, di un’’effervescenza
collettiva’, come disse Emile Durkheim. A Trento, chi l’avrebbe mai detto,
si assiste emozionati all’alba del ’68, della contestazione, si vede
crescere e svilupparsi una fluorescente Berkeley tutta italiana. Qui, prima che
altrove, si sperimentano l’occupazione, aperta o chiusa, l’università
negativa (secondo le tesi di un opuscolo redatto da Curcio e Rostagno), le
comuni, l’amore libero, i giochi di parole, la politica creativa, e infine è
sempre qui, nelle aule di sociologia, che in una specie di trailer degli anni
’70 si assiste alle prime prove della lotta armata.
A Trento vanno a studiare Marco Boato, Checco Zottis, Toni Capuozzo, Gian
Enrico Rusconi e Chiara Saraceni, Marianella Pirzio Biroli Sclavi, Renato Curcio
e Margherita Cagol, Gigi Chiais e Paolo Sorbi. Giovani baby boomers che
intrattengono rapporti familiari, amicali o di semplice filiazione, con nomi
importanti dell’intellighenzia italiana. C’è chi ha studiato con don Luigi
Dossetti o col giovane don Benzi, c’è chi, come Margherita Cagol, ha avuto un
nonno allievo del Carducci, e chi come Curcio, ed è una notizia inedita, è il
figlio non riconosciuto di Renato Zampa, fratello del più noto Luigi. Insomma,
a studiare nomi, cognomi e biografie, come ha fatto Vecchio, ne viene fuori una
sorta di album di famiglia molto, molto particolare, tutto da sfogliare, quasi
un confluire di correnti carsiche che per qualche hegeliana ragione si sono
ritrovate sotto il pavè della città conciliare.
Ma soprattutto fra di loro c’è Mauro Rostagno, il leader carismatico, il
marxista libertario e irresistibile tombeur de femmes. Fra le studentesse
circola addirittura una leggenda su di lui, e cioè che se gli avessi baciato l’anello,
al Rostagno, saresti diventata una rivoluzionaria, per tutta la vita. Anche
Sofri, Guido Viale, Mario Capanna e gli altri leader del movimento studentesco,
non mancano di affacciarsi a Trento, di tanto in tanto, per vedere che cosa
bolle in pentola e trovare un po’ d’ispirazione.
Ma la partenza dell’università, bisogna dirlo, è quanto mai travagliata.
Non soltanto governo e ministri non intendono riconoscere la laurea in
sociologia, ma ci si mettono pure gli studenti, che contestano i docenti, che
vorrebbero buttare a mare i programmi (chiedono più Marcuse, Horkeimer e
Adorno), che s’inventano l’istituto del voto politico, quasi lo brevettano,
e che vorrebbero aprire la facoltà a seminari e lezioni autogestite.
A risolvere la situazione arriverà un giovane professore della Cattolica,
Francesco Alberoni, che sbarca a Trento in spider e con l’inconfondibile
girocollo sotto la giacca (niente cravatta, quindi). Sarà lui il nuovo rettore
e sotto il suo dicastero inizierà un confronto aperto e inedito fra l’accademia
e gli studenti, un dialogo che in Italia non ha precedenti e che per molti versi
farà scandalo. Dove si era mai visto che un rettore d’università si mettesse
a frequentare le case degli studenti, le comuni, addirittura, a fare bisboccia e
a discutere di politica fino a tarda notte? Eppure, nonostante questo breve e
sfolgorante idillio, presto si allungano le ombre dei ‘vietato vietare’, dei
‘vietato obbedire’, degli imperativi camuffati da giochi di parole.
L’atmosfera si fa cupa, c’è la pioggia di sangue del Vietnam, c’è una
classe politica indolente che a sinistra come a destra è incapace di cogliere
le istanze sollevate dai movimenti, e poi ci sono i movimenti che di riflesso
cominciano a farsi prendere da strane smanie e sussulti, che prendono a
sproloquiare di rivoluzione con un vocabolario sempre più lugubre e burocrate.
La sinistra extraparlamentare si frammenta in una grottesca quantità di
sigle e gruppuscoli: maoisti, marxisti leninisti, guevaristi, lottacontinuisti,
potopini. L’odore dolciastro del patchouli cede a quello acre e urticante dei
gas lacrimogeni, e iniziano così a circolare gli esplosivi, le molotov, e i
cittadini benpensanti cominciano a guardare in tralice quei rompiscatole dei
capelloni e delle femministe. Botte da orbi. Ci si mettono di mezzo pure gli
alpini, infatti, e i reduci della grande guerra, quando un giorno Saragat,
invitato a Trento per una commemorazione, viene duramente contestato dai
sociologi e nel corteo impavesato di medaglie, gagliardetti e militaria, si
scatenano scene da guerriglia urbana, pestaggi indiscriminati e, soprattutto,
incomprensioni a non finire, visto che gli studenti quel giorno ce l’avevano
con una classe politica trombona, sempre pronta a far retorica sui
settecentomila caduti italiani del ‘15-‘18, ma che pure non è in grado di
riconoscere una pensione decorosa ai vecchi combattenti.
A partire da quell’episodio, più o meno, inizia il declino di Sociologia,
iniziano gli anni ‘70. Eppure, Toni Capuozzo, il famoso giornalista del TG5,
racconta commosso a pag. 183: ‘Sociologia di Trento è stata molte cose, per
me: e anche una galleria di giorni e notti, e nomi, e volti, e quasi, ancora,
una parola magica, di quelle che pronunciate creano una complicità.
Ed è stata anche l’apprendimento di un metodo di conoscenza, di una
disciplina in anni indisciplinati, e un gusto mai perso di capire cosa muova le
persone’. Succedeva quarant’anni fà. Amen.
 
Girodivite
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