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 Cronaca

15 Settembre, 2002
Perché i cremonesi vanno al Col del Lys
da decenni Cremona é rappresentata in valle di Susa, alle celebrazioni della prima domenica di Luglio

PERCHE’ LA PRIMA DOMENICA DI LUGLIO I CREMONESI VANNO AL COL DEL LYS, IN VALLE DI SUSA ?

Oggi le immense vallate del Susa ospitano manifestazioni di svago, momenti di gioia, tranquille giornate in mezzo alla natura. Con Il Civrari, il Rognoso, l’Arpone che fanno da cerniera ad una valle che scende tra boschi di castagneti e di faggi, con baite e borgate bagnate dai tanti torrenti, con i rigagnoli che attraversano grandi prati in fiore variopinti: come al Prà du Col, al Nevasussa, alla Frassa col dentone sporgente o alla Borgata Suppo e alle miande Raimondo e Marino (che tra il ’43 ed il ’45 ospitarono partigiani stanchi ed affamati) o ancora più su, sul Rognoso, tra i luoghi del “Non si Vede” e del“Non si Trova”, rifugi tanto cari a chi doveva schivare la morte.

Sono possibili tante occasioni di relax, oggi, in quella valle: le escursioni, le gite sul piano, da Monpelato alla Madonna della Bassa, da Favella al luogo del sacrificio di Deo, Pucci, Romualdo, Gino, Zini, Michele, avvenuto il 29 marzo 1945, in un rastrellamento selvaggio compiuto dai briganti tedeschi e fascisti.

E’ per ricordare l’epopea partigiana di quelle valli che andiamo, ogni anno, la prima domenica di Luglio, al Col del Lys, in Val di Susa, in Piemonte.

Ci si trova là, partigiani e popolo, per ricordare il massacro, avvenuto su quel colle il 2 luglio 1944, di 26 giovani partigiani, tra i quali cinque cremonesi - Scala, Faleschini, Conca, Boccalini e Zaniboni - catturati, seviziati ed uccisi in modo selvaggio.

Ogni prima domenica di Luglio, da quasi 60 anni, questo incontro unisce nel comune ricordo i 2024 partigiani uccisi in quelle valli e precisamente: 718 morti in Valle di Susa, 704 nelle valli di Lanzo. 403 nella val Sangone, 102 in val Chisone.

Il piazzale sito in cima al Col del Lys si chiama “Europa-Pace”. Lì sorge da allora una stele alta 11 metri, che regge una fiaccola permanentemente accesa ad illuminare la bandiera italiana, quella europea e quella dell’Onu, per sottolineare il valore universale che assunse la Lotta di Liberazione dal fascismo e dal nazismo.

***

Ero là, in quei mesi lontani. Con altri cremonesi che ricordo con i loro nomi di battaglia: Cutaletta, Aldo, Bomba, Fredo, Bucalet, Franco e il fratello Claudio Scala, Tilio, Paolo Conca. Ed altri ancora, rifugiati in altra zona della valle, a Montecomposto (Renato Telò, Perdesèm, Fuina, Gino Percudani, ed altri ancora. Nel mio libro “Deo e i cento cremonesi in Valle di Susa” compare l’elenco completo di tutti i cremonesi che hanno combattuto in quella valle.

Eravamo arrivati in un centinaio, a scaglioni, da circa un mese.

Nino (ma chi fosse Nino nopn l’avremmo mai saputo) ci aveva detto, all’osteria sul ponte del Morbasco in via del Sale a Cremona, che lassù avremmo trovato i resti della 4^ Armata alpina, con armi, vettovaglie, attrezzi e quant’altro fosse necessario per partecipare alla lotta partigiana e farla finita con il fascismo e le sue guerre.

Ma una volta arrivati non abbiamo trovato nulla di tutto ciò: solo quel poco che ci potevano dare i partigiani già presenti. Non dimenticherò mai Valentino e il figlio Elio, i fratelli Suppo e Ciro di Collegno che da buon cristiano praticante riusciva a farci avere almeno qualche misera patata.

Eravamo arrivati chi in primavera, chi all’inizio estate. Qualcuno alla fine di giugno. Avevamo vestiti estivi e scarpette di pelle di coniglio. Non c’erano coperte e la notte – a quell’altezza - era fredda, coricati su un giaciglio di fogliame. Non avevamo gavette, cucchiai, bicchieri; usavamo a turno vecchie scatole da conserva di pomodoro, con cucchiai ricavati da scorze di pianta o di legno

I primi giorni si riusciva a mangiare un po’ di brodo con qualche verdure, pochi grani di riso, mezzo pane nero. Quando e se c’era. Poi maturarono le ciliegie – di qualità non eccelsa - ed i contadini ci permisero la raccolta: passavamo da ciliegie crude a quelle cotte. Con inevitabili disturbi intestinali.

In quella fase la popolazione montanara non ci era amica, anzi ci temeva. Non sapevano nulla dell’8 settembre del 1943 e dei tedeschi che avevano occupato l’Italia. L’avevano forse sentito dire, ma nessuno aveva detto loro che in cinque giorni - dall’8 al 13 settembre 1943 – i tedeschi ed i fascisti loro alleati avevano trasportato nei campi di concentramento in Germania, su carri bestiame piombati, oltre 117mila soldati sbandati dalla sola Alta Italia Occidentale.

I montanari e le loro famiglie si vedevano circondati da decine e decine di giovani sparsi nelle borgate o nelle baite, senza mangiare, senza vestiti, senza coperte. Ed era dunque normale pensar male, preoccuparsi, perché quei ragazzi, in qualche modo, dovevano pure mangiare, vestirsi, dormire.

Noi aspettavamo, intanto, i “lanci” degli aerei alleati. Aspettavamo vestiti, vettovaglie ed armi. Le armi erano necessarie, perché avevamo al massimo qualche temperino. Ma fu un’attesa inutile, per noi delle formazioni che portavano il nome di Garibaldi. Noi, allora, non sapevamo ancora nulla. Non sapevamo nemmeno che le formazioni nelle quali eravamo capitati, fossero le formazioni dei partigiani comunisti.

E non sapevamo – lo scopriremo solo più tardi – che lanci per “noi” non ce n’erano. Mentre per altre formazioni sì, comprese di tutto, fin anche della cioccolata.

Anche per questo i montanari, specialmente le donne, ci erano più ostili che indifferenti.

Le parrocchie, quali eventuali punto possibile di riferimento, erano concentrate nei villaggi e nei paesi: posti poco raccomandabili dove insediarsi per noi sbandati. Non vi erano servizi postali. Non c’era il telefono (nemmeno il cellulare!). Non c’erano né radio né grammofoni.

Tutto doveva rimanere segreto, clandestino. Tutto poggiava sulle gambe, spesso stanche, per andare alla ricerca di qualche litro di latte, di un poco di burro o di pane.

E’ stato certamente uno dei momenti più difficili, soprattutto per l’isolamento. Spesso qualcuno scappava, si rendeva irreperibili, mentre altri arrivavano. Come è naturale, non c’era l’ufficio matricola e nessun registro dei presenti o degli assenti. Eravamo in clandestinità.

La scelta era volontaria. Dunque l’esserci rappresentava la vera “carta di identità”. E l’unico segnale di riconoscimento era il nome di battaglia che ciascuno sceglieva per sé.

Eravamo appena arrivati. Trìornare indietro era pericoloso e quasi impossibile. Bisognava andare avanti, cercando di dimenticare il passato, il resto della propria vita, le proprie famiglie, le proprie radici.

E nemmeno tra di noi c’era conoscenza. Pochi i volti noti. Parecchia anche la comprensibile diffidenza.

Per fame scoppiò una rissa tra Tilio e Claudio, entrambi cremonesi di Porta Venezia, che si conoscevano da sempre. Il primo possedeva qualche lira in più per cui si approvvigionava di qualche litro di latte a borsa nera, che nascondeva la sera in un certo luogo segreto. Da alcune mattine trovava il recipiente vuoto. Solo dopo qualche tempo scoprì che “l’operazione” la faceva Claudio, diciottenne allampanato e con addosso sempre una grande fame. Tilio di 24 anni, robusto, non era da meno. Urlarono, si spintonarono, giunsero quasi alle mani. Arrivato Deo, riconosciuto da tutti come “Il Comandante”, ritornò la calma e tutto finì in una grande risata rasserenante.

Un giorno Deo ottenne un appuntamento con Alessio - capo della raggruppamento locale più forte - alla buca,

magazzino della sua formazione, per vedere se poteva darci qualche cosa, in special modo delle scarpe, perché con le nostre non si riusciva più a camminare.

Appena ci vide, armato di parabellum, si mise ad urlare ed imprecare, maledicendo chi ci aveva mandati da Cremona sino lassù Erano in difficoltà anche loro, mancavano anche loro di tutto. Solo perché erano del posto potevano contare sull’aiuto della famiglia, o di qualche parente o di qualche amico.

Gli rispondemmo che con le grida non si risolvono i problemi, e che noi eravamo lì in carne ed ossa e mica potevamo svanire nel nulla. La risposta gli piacque, scoccò una sonora risata e, dalla buca, emersero come d’incanto dei polacchetti di ogni misura – che ci parvero bellissimi -, un bel pezzo di burro e un po’ di carne che ci ha permesso di tirare avanti qualche giornata.

Ci diede anche un utile consiglio che immediatamente applicammo. Eravamo infatti circa 70-80, tutti ammucchiati in due o tre baite, per cui alcuni colpi di mortaio potevano fare un massacro. Bisognava dividerci in due o più gruppi. Si procedette con celerità. Individuata la baita “Marino”, distante circa venti minuti di cammino, un gruppo tra i più anziani e più esperti - come Bomba, Bucalet, Zaniboni, Monticelli, i fratelli Franco e Claudio Scala, Cutaletta, Aldo, Tuffo, io che ero cognato di Bomba e Paolo Conca più alcuni piemontesi ben tappati da montagna a titolo di guida ed alcuni altri – si trasferì nella nuova situazione. La nostra staffetta era Ciro. Deo rimase con l’altro gruppo, insieme a Pucci, ed altri come Ghis, Culata, Soio, Mario Beltrami, Remo ed altri della Cava. Come staffetta si era tenuto Sauro - diciottenne friulano - già sperimentato come gran camminatore. Deo comunque rimase responsabile per tutti e due i gruppi.

Non bisogna dimenticare che eravamo non solo giovani, ma inesperti di montagna, delle sue bellezze ma anche dei suoi inganni: ti sembrava di essere sulla strada giusta, ma poi arrivavi senza accorgersi ad un punto nel quale ti trovavi senza accorgerti di fronte ad un precipizio.

Cominciava intanto la scabbia, i pidocchi, qualche linea febbre, combattuta con rari medicinali portati da casa.

In quelle condizioni - per di più senza arma alcuna, se non un vecchio fucile per il servizio di sentinella, quando ad ogni fruscio notturno nasceva la paura dell’agguato ed il panico, passavano lentamente le giornate tra i pensieri e le preoccupazioni. Franco Scala , ad esempio, era sposato da pochi mesi e ogni sera pensava alla giovane moglie lontana, a Cremona. Anch’io avevo una giovane moglie a casa, con una bambina di venti mesi. Pensavo poi a mia madre, con il cuore in disordine, anche per altri tre figli prigionieri: Giuseppe in Sud Africa con gli Inglesi e Tarcisio ed Alessandro prigionieri dei tedeschi in Germania. E tutti – chi più chi meno – avevamo questi problemi. Era difficile resistere. Ed in effetti, in un tale stato di isolamento, non tutti hanno resistito.

***

Sabato 1 luglio 1944 era una bellissima giornata piena di sole: eravamo impegnati a cogliere ciliegie. Quelle sera mi dedicai in cucina per un risotto. Il riso ci era arrivato da qualche mano santa, il burro non era difficile trovarlo per l’avanzo dal mercato di Almese o di Rubiana, per cui i contadini lo smerciavano anche a buon prezzo. Sbagliai il rapporto acqua-riso: ne venne fuori un risotto con molto burro ma che puzzava di fumo. Per alcuni risultò immangiabile. Per altri la fame ebbe il sopravvento. Dopo qualche risata ed aver cancellato qualsiasi mia candidatura a cuoco della Brigata, ci mettemmo seduti parlando della nostre cose. Nel cielo solcavano grosse nubi e qualche tuono. Qualcuno diceva di intendersene e prevedeva l’arrivo di un forte temporale. Il buio anticipò i tempi. Ci coricammo sulle poche foglie, tentando di prendere sonno. Al centro della stanza-baita un vecchio candelabro in ottone reggeva la candela accesa. I tuoni intensificavano i loro boati. Il vento era troppo forte per le nostre abitudini.

Grossi rumori facevano paventare la caduta di grossi alberi o di case meno protette. Eravamo muti, ognuno con i propri pensieri, mentre Pierino di Suzzarra - di sedici-diciasette anni, che mi era vicino - cercava di contenere i singhiozzi che gli uscivano dal petto. Erano momenti di grande sconforto. A tutto il resto si stava aggiungendo una notte infernale, con il freddo, l’umidità e la fame che, a vent’anni, non mancava mai. E se fosse crollata la baita? Senza niente, in mancanza di tutto, cosa si sarebbe potuto fare? Nel silenzio e con i pensieri a casa, alla mamma, alla moglie e alla bimba, non mi accorsi che anch’io stavo piangendo nel più profondo silenzio. Maledicevo la guerra e tutti coloro che l’avevano voluta.

A un certo punto, nella notte, si alza una voce flebile – quasi una supplica, un lamento – a cantare “Signorinella pallida, dolce dirimpettaia del quinto piano……” era Franco Scala che pensava alla giovane moglie lontana. Si aggiunse la bella voce di Bucalet, poi quella di Fredo e poi mio cognato Bomba e via, ancora, le altre, sino a diventare un coro in sordina, ben intonato, con luci ed ombre di voci ben calibrate. Sembrava una preghiera. Era un canto d’amore, venato di grande tristezza.

Ma poi da “Signorinella” , con toni forti quasi a voler cacciare le malinconie, eccoci intonare la nostra “Cremuna, Cremuna, Cremuna, la cità del grand Turas, dua in piassa se vent la patuna, cui fasoi, i grignoss e i spinass”, e poi, con impeto , chiudere con “Bella Ciao”!

Affiora qualche sorriso, mentre il temporale sembra calmarsi …… Poi Bomba scioglie il ghiaccio, e ci racconta la storiella dell’attendente, che - ricevute dal suo capitano due lire, una per l’acquisto del sale e l’altra per le sigarette - giunge perplesso alla porta del negozio e torna di corsa dal capitano, piangendo, perché non ricorda più quale era la lira per le sigarette e quella per il sale! Ridiamo, un poco confortati. Poi cade il silenzio, qualche ronfo rombante, e si riesce a dormire.

DOMENICA 2 LUGLIO 1944

Ci svegliamo con un cielo sereno e una aria frizzantina che ti mette di buon umore. I ragazzi scherzando si recano alle fontane per le pulizie personali. Qualcuno canticchia …”parlami d’amore Mariù” …..mentre in cielo un aereo molto lontano ci sorvola lasciando una scia bianca. Speriamo nel lancio tanto desiderato, ma vola via e se ne va chissà dove.

Sono circa le sette. In lontananza si sentono degli spari ed una raffica di mitraglia. E’ il segnale d’allarme lanciato da Deo dalla Frassa. Arriva infatti trafelato e pallido in volto, Sauro che ci avverte di un rastrellamento di grande dimensioni. Stanno salendo tedeschi e brigate nere equipaggiati più che mai. La nostre mitraglie sulla linea di difesa non sono riuscite a bloccarli. Bisogna subito nascondere il possibile: un barilotto con cinque chili di latte condensato e del burro con un po’ di pasta. Raccogliamo il tutto e lo infiliamo in un sotterraneo ben nascosto della baita, assieme a qualche coperta. Caricato il rimanente - giubbotti, giacche, coperte, maglie, pane nelle tasche e nelle borse, con le vettovaglie di fortuna - si parte seguendo due direttrici diverse. Un gruppo, capeggiato da Sauro e un piemontese (credo il Guercio), composto da Franco e Claudio Scala, Paolo Conca e Guido Della Noce, Bucalet, Zaniboni, il giovane medico appena giunto e qualche altro, si dirige verso il Rognoso costeggiando il Colle del Lys. L’altro gruppo, composto da Bomba, Kiro, Cutaletta, Tillio, Jena, Barbarossa. ed altri guidati dai torinesi un po’ più esperti, punta al Rognoso seguendo il gruppo che sta partendo intanto dalla Frassa, guidato da Deo.

Ci mettiamo in moto nascosti dalla vegetazione, mentre sentiamo ancora lontani sulla statale, macchine e autoblindo che salgono a cerchio. Ogni tanto si sente lo squarcio che ti penetra la psiche della .”Sega di Hitler”, una mitragliera infernale. Al nostro gruppo disarmato non rimane che fuggire.

Nella fretta Cutaletta Miglioli si sloga un piede e non riesce più a camminare. Mi carico sulle spalle le coperte, i cappotti, le giacche degli altri, in modo da liberarli affinché possano aiutare il ferito a stare nel gruppo. Ma mi sono un po’ troppo appesantito e perdo qualche metro. Arriviamo ad uno spazio privo di vegetazione, scoperto, che bisogna però attraversare. Si sente una lunga raffica di mitraglia dal Monte Arpone già sopra al Col del LYS. Gli altri forzano la marcia, Cutaletta sembra guarito d’incanto e scatta come un cerbiatto.

Rimango staccato, stanco e con un carico che non voglio perdere. Ma non è possibile salvare me stesso ed anche la roba. Entro in una buca e vi deposito la gran parte, coprendo tutto con frasche e fogliame. Sono solo … alzo gli occhi e vedo i miei compagni già ai piedi del Rognoso. Non conosco la zona, le montagne, i sentieri.

Non mi voglio allontanare troppo dalla statale, perché i rumori di macchine e motociclette mi fanno da punto di riferimento. Se vado oltre, dove mai capiterò? Salgo seguendo un sentiero segnato in rosso. La giornata continua a rimanere limpida, spero che quel sentiero mi porti verso qualche baita. Seduto su un sasso e nascosto da un albero, sento non tanto lontano delle voci. Tendo le orecchie, dalla pronuncia intuisco che sono dei contadini. Mi avvicino. Sono due giovani contadini del luogo che con un cannocchiale stanno guardando ciò che sta accadendo sul piazzale del Col del Lys, alla Casa cantoniera da noi trasformata in officina.

Guardo anch’io. Vedo una via vai di moto e sidecar, gruppi di brigatisti neri si abbeverano alla fontana, urla e colpi d’ama. Più giù baite e casolari che bruciano. Gli anziani genitori dei due giovani mi invitano nella loro baita, mi offrono una scodella di latte con polenta che mi fa tornare alla mente le mie povere colazioni di ragazzo di campagna, a Porcellasco. Mi racconto, si dimostrano interessati. Dopo qualche tempo capisco che devo ripartire. Sono cortesi, mi danno indicazioni per giungere a Col S..Giovanni per la Val di Viù, Usseglio Lemie, Lanzo. Riprendo il cammino, triste e preoccupato, senza una meta, aiutato dal sostegno di un bastone. I pensieri e le preoccupazioni si addensano nella mia testa. La casa , la famiglia, i colleghi di banca, gli amici, i prigionieri ma soprattutto la mamma, la moglie e la bimba bussano alla mente più degli altri.

Si solleva un vento noioso, una nebbia improvvisa mi avvolge,: sono nubi che si vanno abbassando. E viene buio. Mi prende freddo. Comincia a cadere una pioggerella fastidiosa e sottile. Mi riparo un poco con la coperta. Ogni tanto scivolo sul sentiero fangoso. Mi fermo sotto un sasso sporgente per riparami meglio. Improvvisamente mi prede di un grosso sconforto. Piango disperato. Non so dove sono, piove, ho freddo, dove vado? Tra l’altro ho smarrito il segnale rosso del sentiero. Poi mi torna un po’ di cuore, la forza di volontà mi fa riprendere il cammino, ritrovo il segno roso del viottolo e me ne vado mentre il buio si fa pesto. Mi fermo poi fra due castani il cui volume trattiene la pioggia: metto a terra la giacca , mi copro con la coperta e mi riposo qualche minuto. Poi faccio per rialzarmi e ripartire, ma alta una voce mi intima “Chi va là?! Alt! Parola d’ordine!” Rimango muto. Urlo che sono disarmato. Mi si avvicinano e mi legano le mani con spintoni e un fare violento. Sono in divisa, ma non so di che divisa si tratti. Mi fanno un breve interrogatorio. Rispondo che vengo da Cremona. La cosa li fa incavolare perché sanno che Cremona éla città di Farinacei. Mi arriva un violento ceffone con l’invito perentorio a parlare: “Chi sei? Una spia?” Riesco a connettere e metto a fuoco che si tratta di una pattuglia partigiana. Allora spiego loro chi sono, da dove vengo, della miande Marin, della Frassa, di Deo e i cremonesi. Riesco a convincerli. Si fermano. Ora diventiamo compagni, ora mi accompagnano a passo svelto al distaccamento di Tullio che si trova nei dintorni di Col S. Giovanni. Erano in stato di allarme perché pensavano che il rastrellamento arrivasse anche da loro. Un breve interrogatorio chiarificatore e poi Tullio mi consegna un fucile 91 e una branca di caricatori e mi invia in postazione assieme ad altri, tra i quali dei milanesi. La notte passa, tra il freddo e la giacca bagnata. Ma ormai il rastrellamento si era ritirato da dove era venuto: Rubiana-Almese-Aviglianna-Condove.

Di tutti quelli che erano con me, di mio cognato Bomba e di Deo non giungono più notizie. Anche Tullio non ne sa nulla. Si impegna a fare qualche ricerca, dopo qualche giorno dal rastrellamento, tenendo conto però anche del fatto che è possibile che abbiano svallato in Valle di Viù o di Lanzo. Mi rassegno così a rimanere nel Distaccamento di Tullio.

L’INCONTRO CON DEO E BUONA PARTE DEGLI ALTRI, BOMBA COMPRESO

Passo qualche giorno a Col S.Giovanni, sto prendendo le misure, mi sto ambientando, quando - verso mezzogiorno - sentiamo un gran vociare e cantare dalla strada che viene da Usseglio. Ci siamo precipitiamo a vedere. Ci viene incontro un gruppo numeroso: ci sono Deo, Bomba, Merego - ai quali si é aggiunto Barbarossa con altri che erano a Viù. Abbracci, grande festa, salta fuori un po’ di vino ed un po’ di pane.La gente ci guarda ed esprime simpatia per dei giovani che si sono ritrovati dopo tanta paura.

Poi ci accorgiamo che manca qualcuno. Nessuno ha notizie dei fratelli Scala, di Tilio, Fredo, Sauro, Bucalet, Paolo Conca, Della Noce ed altri. Decidiamo sull’istante di ritornare al Colle del Lys. Intanto che decidiamo di partire, due contadini - con occhi tristi - ci dicono che su, al Colle, c’é stato un massacro indescrivibile.

Con passo svelto raggiungiamo Niquidetto. Circola la notizia che i fascisti sono ancora in zona. Occorre stare ancora molto attenti. Raggiungiamo ugualmente il piazzale del Colle. Di fascisti non c’è traccia, se non corpi straziati dei nostri compagni, sporchi di grumi di sangue e di sabbia, di foglie, di sporcizia. Slavati e risporcati dalle piogge e dai temporali che si sono abbattuti nei giorni e nelle notti passate. Con le pance squarciate, le teste fracassate, gli occhi fuori dalle orbite. Difficile dare un nome a quei corpi. Riconosciamo man mano Franco Scala, Gianpaolo Conca, Sauro Faleschini la staffetta, Alfredo Zaniboni, Edoardo Boccalini, il Guercio.

Man mano, richiamati dalle urla e dalle imprecazioni, tornano in zona partigiani e montanari. Giungono anche i parroci di Monpelato e Bertasseno . Rivediamo con piacere Renato Telò, Mario Bolzani, Igino Percudani, Ivo Foina, e tanti altri.

Con l’aiuto dei parroci e della popolazione montanara si procurano semplici cassa mortuarie, affiancando a quei 26 poveri corpi martoriati una bottiglia contenente i dati necessari per un futuro riconoscimento.

Procediamo poi a scavare una fossa comune, al fine di evitare una dispersione che possa rendere diffidile, domani, la riesumazione.

Quel drammatico eccidio segnerà nel profondo ognuno di noi, scaverà indelebile la vergogna del fascismo, del nazismo, della guerra.

Come si possono accettare simili brutture? Come si possono trucidare ragazzi di 20-25 anni – alcuni addirittura 18enni - disarmati, affamati, quasi scalzi, impauriti e tremanti, con gli occhi sbarrati per la violenza che si scatenava su di loro. Chi erano quelle bestie, dal volto truccato ed irriconoscibile, inferocite, come il leone contro l’agnello?! Erano ragazzi disarmati: perché non li avete fatti prigionieri?! Perchè tanto odio, tanta ferocia?!

Chi non ha visto probabilmente non riesce a capire! Ma ancora oggi quei fatti gli sono stampati negli occhi e nel cuore di chi purtroppo era là, in modo indelebile . Edc ancora è bruciante la ravvia ed anche la vergogna per una società, di un regime che ha indotto la trasformazione di altri uomini, anch’essi giovani, in belve assatanate.

Sono parole pesanti, che non sento come adatte al mio temperamento. Ma non ne trovo altre! Proprio non riesco ad accodarmi ai suggerimenti che vengono da persone forse più colte, da intellettuali di grido, che probabilmente hanno dimenticato, o hanno fatto un altro tipo di Resistenza. E che, probabilmente per questo, riescono a vedere la vita ed i suoi percorsi in modo diverso dal mio, in maniera forse più disincantata e sicuramente più distaccata.

Ma quelle morti, quei volti sfigurati, che poi ho dovuto rivedere – a decine – ancora in Vale di Susa, a Prà du Col, a Brioni, a Givoletto, a Druent, a Malatrait, a Rubiana , a Favella, a Monpelato, senza contare ciò che avvenne a Boves, a Bussoleno, Balmafol, sino su nella Alta Valle di Susa, sono testimoni che chiedono giustizia, ricordo, memoria e gratitudine, tanta gratitudine per la libertà della quale, grazie al loro sacrificio, oggi possiamo godere.

CONCLUSIONI

Il gemellaggio tra le popolazioni montanare della valle Susa e la nostra bella Cremona è stato sottoscritto con il sangue di tanti dei nostri giovani di allora. Lassù cento cremonesi – comandati da Deo Tonani e da Sergio Rapuzzi - scrissero una pagina indimenticabile di lotta e di sacrificio. Lassù in tanti giovani di Cremona diedero la vita in quelle battaglie.

Ecco perché i cremonesi, la prima domenica di luglio, da decenni, vanno in pellegrinaggio al Col del Lys. E lassù si incontrano con i vecchi partigiani della Valle, e con loro, ed insieme ai loro figli, ai loro nipoti, continuano a mantenere fede al giuramento che fecero a se stessi, in quei terribili giorni.

Ed è per mantenere fede a quell’impegno che - anche quest’anno, la mattina di domenica 1 luglio, a chiusura della celebrazione ufficiale - i cremonesi che saranno lassù, salutati dal Picchetto d’Onore, deporranno come ogni anno, a nome di tutti i propri concittadini, un fiore ciascuno alla base del Monumento che ricorda i 2.024 caduti per la libertà nelle valli di Susa, di Lanzo, Chisone e Sangone. In una cerimonia commovente la cui motivazione, con queste poche righe, ho cercato di trasmettervi.

Enrico “Kiro” Fogliazza
Commissario politico della XVII Brigata Garibaldi operante in val Susa

 


       



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