15 Settembre, 2002
Einaudi, la casta e l'Italia del '19
Una polemica contro i «padreterni» - Gian Antonio Stella su Il Riformista
«A Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si
sono persuasi, insieme con qualche ministro di avere la sapienza
infusa nel vasto cervello».
Non sono parole di Beppe Grillo, né di
Guglielmo Giannini, né di quel Corrado Tedeschi che inventò il
Partito della bistecca e neppure di Umberto Bossi ai tempi in cui
tuonava «mai più soldi agli stronzi romani». L'atto di accusa è di
Luigi Einaudi, oggi venerato come uno dei padri della Patria e una
delle figure più limpide della nostra storia anche da quanti un
tempo lo consideravano un avversario.
Era il primo febbraio 1919, la
Grande Guerra era finita da poche settimane, Guglielmo II era
fuggito nei Paesi Bassi, a Berlino erano stati appena rapiti e
uccisi Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, a Parigi s'era aperta la
Conferenza di pace e da noi, dove Luigi Sturzo aveva appena fondato
il Partito Popolare, cominciava quel «biennio rosso» che si sarebbe
concluso con una dura sconfitta delle sinistre e l'avvento del
fascismo. Alla guida del governo c'era Vittorio Emanuele Orlando,
agli Esteri Sidney Sonnino, al Tesoro Bonaldo Stringher, alla
Giustizia Luigi Facta. Gente che Einaudi considerava, per usare un
eufemismo, in larga parte inadeguata. Come dimostra appunto quanto
scrisse sul Corriere in uno degli articoli oggi raccolti dalla
Mondadori nei bellissimi «Meridiani» dedicati al «Giornalismo
italiano».
Il futuro capo dello Stato, al fianco degli
industriali «inferociti», accusava l'esecutivo: «Non mantiene le
promesse, impedisce con i suoi vincoli il movimento a coloro che
avrebbero voglia di agire, fa perdere quei mercati che gli
industriali italiani erano riusciti a conquistare, prepara disastri
al Paese, accolla sempre nuovi oneri alle industrie...».
Perché? Per
la mania di mettere le mani su tutto, immaginare «monopoli che non
sa poi come amministrare», rivendicare compiti che poi non sa
assolvere impedendo insieme che «provvedano i privati». Per non dire
di lacci e lacciuoli come gli «istituti dei consumi, grazie a cui
magistrati, professori, segretari di prefettura, postelegrafici
perderanno il proprio tempo ad annusar formaggi e negoziar
merluzzi». O della scelta di «sovracaricare i proprietari di case di
nuovi balzelli sperequati e impedir loro un parziale adattamento
delle pigioni».
Basta, scriveva: «Bisogna licenziare questi padreterni orgogliosi
(...) persuasi di avere il dono divino di guidare i popoli nel
procacciarsi il pane quotidiano. Troppo a lungo li abbiamo
sopportati. I professori ritornino ad insegnare, i consiglieri di
Stato ai loro pareri, i militari ai reggimenti e, se passano i
limiti d'età, si piglino il meritato riposo». Insomma: «Ognuno
ritorni al suo mestiere». E «si sciolgano commissioni, si disfino
commissariati e Ministeri» così che «un po' alla volta tutta questa
verminaia fastidiosa sia spazzata via. Coloro che lavorano sono
stanchi di essere comandati dagli scríbacchiatori di carte
d'archivio» superiori alla società governata «soltanto per orgoglio
e incompetenza».
Parole durissime. Che non salvavano pressoché nulla e nessuno. Era
un qualunquista, Luigi Einaudi? Un demagogo? Un populista?
Un «giullare della Suburra»? Meglio andarci piano, sempre, con le
etichette insultanti. Forse, se i politici «padreterni» di allora lo
avessero ascoltato senza fare spallucce, tre anni dopo ci saremmo
evitati la Marcia su Roma.
da Il Riformista, 28 settembre 2007
 
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