15 Settembre, 2002
Pual Krugman discute le manovre dell'ipercapitalismo
Il grande complotto che impoverì gli USA - Vincenzo Visco da La Stampa presenta *la coscienza di un liberal*
"La coscienza di un liberal" del premio Nobel per l'economia Paul
Krugman (Laterza) è il «libro del mese» scelto dall'Indice in edicola
tra pochi giorni. Da *La Stampa* riprendiamo un ampio stralcio della recensione
dell'ex ministro per l'economia Vincenzo Visco.
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La notorietà internazionale di Paul Krugman è legata alla sua
attività di editorialista del New York Times, sulle cui colonne ha
combattuto una strenua battaglia contro Bush e i repubblicani, senza
risparmio di colpi e senza le prudenze e i tatticismi cui siamo
abituati noi. Krugman, però, è anche un economista di grande livello,
tanto che l'essere un polemista e un divulgatore non gli ha impedito
di vincere il premio Nobel solo poche settimane fa. Il libro è
espressione del Krugman non accademico, ed è il tentativo di
ricostruire la storia politica ed economica degli Stati Uniti dalla
fine dell'Ottocento a oggi dal punto di vista del conflitto sulla
distribuzione del reddito e della ricchezza.
Si è visto come nella recente campagna presidenziale McCain ha
cercato di esorcizzare Obama denunciando i rischi derivanti dalle sue
ambizioni «redistributive». L'idea stessa della legittimità (se non
dell'opportunità) di politiche redistributive è infatti oggetto di
contestazione nell'America liberista di oggi, e occasione per
strumentalizzazioni politiche molto efficaci. Krugman affronta invece
il problema in maniera netta, con la radicalità tipica
dell'accademico consapevole, e dell'americano che esercita il suo
diritto alla libertà di opinione e di parola.
L'analisi parte dall'epoca della grande accumulazione capitalistica
americana, quando l'economia era dominata dai «robber barons», i
capitalisti d'assalto senza scupoli che accumularono ricchezze
enormi, nel contesto di un'economia senza regole, di una concorrenza
spietata, dello sfruttamento brutale della manodopera, di violenza
politica, debolezza dei sindacati ecc. In quel periodo nascono e si
affermano le grandi famiglie dell'aristocrazia plutocratica
statunitense i cui nomi sono ancora ben presenti nella società
americana, ma non solo: si tratta di nomi come Rockefeller, Carnegie,
Vanderbilt, Ford.
L'accumulazione di grandi fortune, enormi diseguaglianze economiche,
ideologia liberista dominante, potere politico saldamente nelle mani
dei conservatori, repubblicani o democratici che fossero: questa era
l'America che alla fine degli anni Venti del Novecento sprofondò
nella grande depressione, causata (ieri come oggi) dall'esplosione e
dalla disintegrazione di un modello di sviluppo sregolato,
iperfinanziarizzato, iperspeculativo. E la risposta fu il New Deal di
Roosevelt, il periodo che Krugman definisce «la grande compressione».
In poco tempo la distribuzione del reddito cambia drasticamente: i
grandi miliardari sono costretti a chiudere le loro ville, i
sindacati si rafforzano sostenuti dal governo, nasce la middle class
americana che decreta nel mondo il successo del modello americano nel
contesto della guerra fredda. All'origine della compressione, secondo
Krugman, non vi è l'operare di forze economiche di mercato come
quelle descritte dai modelli di alcuni economisti (Kuznets), bensì le
scelte politiche operate da Roosevelt e la creazione delle
istituzioni del New Deal: forte aumento della tassazione (l'aliquota
massima dell'imposta sul reddito passa dal 24 al 79 per cento, quella
sui profitti societari dal 14 al 45 per cento, quella di successione
dal 20 al 77 per cento!), introduzione del sistema di welfare,
rafforzamento dei sindacati e (anche se Krugman non lo evidenzia) la
regolamentazione di quasi tutti i mercati rilevanti, per dimensioni,
carenza di informazioni, caratteristiche tecniche della produzione e
così via.
Le conquiste del New Deal diventano senso comune condiviso negli
stati Uniti anche da parte dei repubblicani, ben rappresentati in
questo punto di vista dal presidente Eisenhower, e il sistema si
assesta su un assetto condiviso (e di successo) fino ai tempi di
Nixon. La rivincita degli ultraconservatori avviene, secondo Krugman,
con la presidenza Reagan negli anni Ottanta, ma viene preparata con
cura prima: Krugman parla di un «grande complotto», che è il frutto
dell'alleanza politica tra la destra repubblicana, nutrita
dell'ideologia di alcuni gruppi religiosi e segregazionisti, il mondo
delle imprese (soprattutto medio-piccole) terrorizzate dai sindacati,
gli elettori bianchi ancora dominati dal pregiudizio razziale,
economisti e sociologi di destra, fanatici del mercato e
dell'individualismo, nazionalisti anticomunisti. La rivincita della
destra utilizzò anche le preoccupazioni per le proteste giovanili e i
disordini razziali, ma decisiva fu la rottura della coalizione che
aveva favorito il New Deal che si ebbe sulla questione razziale, con
i democratici del Sud che passarono ai repubblicani dopo le leggi di
Johnson che eliminavano la segregazione. La nuova destra prese il
controllo del Partito repubblicano, sconfiggendo la leadership
moderata tradizionale, riuscì a vincere le elezioni con Reagan e
cominciò ad attuare il suo programma che consisteva, in sostanza, nel
riportare gli Stati Uniti alle condizioni economiche e sociali
precedenti al New Deal.
Inizia così la «grande divergenza», basata sulla deregolamentazione,
sull'ideologia mercatista, sulla sconfitta dei sindacati, sul taglio
delle tasse (soprattutto per i ricchi) e della spesa pubblica. Il
nuovo potere si basa anche su un'inedita aggressività politica,
sull'intimidazione della stampa e degli avversari politici, sulla
diffamazione sistematica e sugli attacchi personali, sui brogli
elettorali, sulla corruzione e sul nepotismo. I militanti
neoconservatori sono inoltre tutelati da una rete di organizzazioni
in grado di assicurare posti ben retribuiti, protezione e
solidarietà. I risultati non tardano a prodursi: la distribuzione del
reddito si polarizza, i salari stagnano, i guadagni di produttività
del nuovo boom economico legato alla globalizzazione e allo sviluppo
delle nuove tecnologie affluiscono pressoché interamente ai manager e
alle imprese, e la diseguaglianza torna ai livelli degli anni Venti
del Novecento. In sostanza, secondo Krugman, la «grande divergenza»
non è altro che la «grande compressione al contrario».
L'analisi di Krugman è accurata e documentata: per quanto la sua
posizione possa apparire a prima vista ideologica e unilaterale, essa
è argomentata con cura, con un'abbondante evidenza empirica e con
solide argomentazioni di teoria economica. Per il futuro Krugman è
ottimista. Vede il ritorno dei democratici e la possibilità di
ricostruire una coalizione politica vincente, grazie anche agli
errori dell'amministrazione Bush, alla guerra in Iraq e al desiderio
della maggioranza della popolazione di evitare lo smantellamento di
quelle istituzioni del New Deal che i repubblicani non sono ancora
riusciti a distruggere ma solo a indebolire (la previdenza sociale e
il medicaid per gli anziani).
Il libro è stato scritto nell'estate del 2007, quindi prima della
grande crisi finanziaria, ed è in effetti singolare che Krugman non
dedichi particolare attenzione al funzionamento dei mercati
finanziari, alla speculazione e alla finanza. Molte pagine sono
invece dedicate alla necessità che i democratici, una volta tornati
al potere, completino il sistema di welfare americano secondo modelli
europei, soprattutto introducendo un sistema sanitario di tipo
universale.
In sintesi un buon libro, una lettura interessante che sarebbe di
grande utilità anche per tutti i politici della sinistra italiana (e
non sono pochi) che hanno confuso (e confondono) la moderazione con
il moderatismo.
 
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