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15 Settembre, 2002
Il partito “a vocazione maggioritaria” (PVM). (di Luciano Bonet)
Luciano Bonet fino a pochi mesi fa é stato docente di Sociologia Politica a Scienze Politiche di Torino

Le questioni sono in realtà due, collegate: il PVM in quanto tale, premessa della seconda: la coincidenza tra Segretario e candidato Premier, legittimato con i noti meccanismi statutari.
Qui svolgo qualche considerazione sul primo punto. Sul secondo mi riservo di intervenire in un secondo momento.

Partiamo dall’interpretazione autentica del “PVM”. Vista la parabola di Veltroni, è possibile che i Veltroniani non si riconoscano del tutto in queste formulazioni. Se è così, chiedo di spiegarlo.

Dice Veltroni, (24 agosto 07, Repubblica, ripreso dalla Prefazione a: “La nuova stagione”, Rizzoli, 2007):

“Ma il fine della politica deve essere un altro: deve essere il perseguimento dell'interesse del Paese, attraverso la costruzione del necessario consenso attorno a un programma di governo.
È precisamente questo che intendiamo, quando diciamo che il Partito democratico è un partito "a vocazione maggioritaria": un partito che punta non a rappresentare questa o quella componente identitaria o sociale, per quanto ampia possa essere, ma a porsi l'obiettivo di carattere generale di conquistare nel Paese i consensi necessari a portare avanti un programma di governo, incisivamente riformatore. Non per questo, un partito a vocazione maggioritaria, quale il Pd deve essere, è una forza che si pensa come autosufficiente: al contrario, è un partito che intende valorizzare l'alleanza di centrosinistra. E intende farlo sulla base del principio fondamentale della democrazia dell'alternanza, per il quale le alleanze di governo si fanno e si disfano davanti agli elettori, prima del voto. Ma il Pd nasce per riordinare, nel bipolarismo, la gerarchia dei valori tra la coalizione e il programma: è il programma comune, un programma di governo e non genericamente elettorale, che fonda la coalizione, non viceversa: non si può giustificare la vaghezza o l'ambiguità del programma, in nome del feticcio dell'unità della coalizione. Sarebbe come considerare la parte più importante del tutto, il partito (o la coalizione) più importante del Paese”.

Come si vede, l’ottica di Veltroni è duplice: da un lato guarda al passato remoto e prossimo della sinistra italiana (trovando conferme in tempo reale nelle difficoltà del Governo Prodi allora in carica), dall’altro guarda al futuro. Quando guarda all’indietro, dice cose apparentemente sensate ma (come dirò) pleonastiche, ambigue e controproducenti nell’oggi; quando guarda al futuro il ragionamento diventa sommario, poco analitico, mero esercizio non dico retorico ma di wishful thinking. Su questo secondo aspetto però mi limito qui a qualche cenno, rinviando ad un discorso più articolato in futuro.

In sostanza, Veltroni e -mi pare- i Veltroniani pensano e dicono (ma lo dicono con toni più cauti di quanto pensino davvero): prendiamo atto che i tempi sono cambiati e che, per governare e governare bene, occorre qualcosa di totalmente diverso dal passato. Il PCI (si sottintende) era un grande partito ma minoritario e comunque non c’è più. Con la crisi della 1a Repubblica si sono creati a sinistra partiti piccolissimi, piccoli e medi a base ideologica ed identitaria (non “sociale”), che producono necessariamente “coalizioni di minoranze” incapaci di governare perché paralizzate dai veti incrociati e dall’assenza di un vero programma comune. Occorre dunque un grande partito che sappia proporre un salto di qualità sistemico mediante grandi programmi riformatori (qui l’ambiguità del ricorso ossessivo alla categoria del “riformismo”, gradualista per natura, si fa sentire tutta). Programmi che siano convincenti per la maggioranza dell’elettorato e perciò egemonici per gli stessi partiti della coalizione, coalizione che in questa fase resta inevitabile (visti i numeri elettorali), e lo si ammette anche se si preferisce attenuare e sfumare le implicazioni a cascata.
La soluzione è: “riordinare i valori”, dalla coalizione al programma. Non è chiaro però perché un buon programma elaborato autonomamente dal PD dovrebbe mettere a tacere la rissosità eventuale della coalizione: lo dimostrano le 282 pagine di programma elaborate dalla fabbrica delle Idee prodiana, lacunose nei punti controversi e divenute ben presto carta straccia. Queste cose non vengono spiegate e tuttavia ci si scaglia contro chi constata apertamente che, almeno in questa fase, si dovrà fare coalizione e ciò comporta perlomeno di tenerne conto.

Se proviamo ad esplicitare le cautele ed anche le incertezze veltroniane, il ragionamento pare questo: le alleanze saranno necessarie però, se la forza del programma sarà così travolgente da creare il necessario “clima d’opinione” favorevole, i poteri di veto e di inceppamento degli alleati si ridurranno o, addirittura, scompariranno se qualche potenziale alleato vorrà ritirarsi sull’Aventino agitando bandiere ideologiche. Le carte vincenti sono il “programma” ed il “dialogo diretto” con gli elettori (da qui: il “partito degli elettori”). Se il programma sarà elettoralmente travolgente, potremo addirittura guardare anche ad altri “forni” partitici.

In definitiva, guardando al futuro, la scommessa veltroniana è questa: adesso siamo intorno al 25%, alle elezioni vedremo, ma quando saremo il 40%, sarà un’altra musica.
In effetti, alle successive elezioni si arrivò al 33% (sia pure con il voto utile e con Di Pietro), riconfermando così la bontà della “vocazione maggioritaria”, da rinforzare anche con regole elettorali che inducano processi evolutivi bipartitici.

Se questa è l’impostazione, affidare il brand del nuovo partito alla formula del PVM parrebbe avere senso. Io però non ne sono convinto. Non parlo dell’impostazione generale (che neppure mi convince), parlo proprio del brand, del suo valore persuasivo e comunicativo.

a) E’ una formula decisamente pleonastica, perché un partito come il PD, con le sue ambizioni, la sua cultura politica e la sua vocazione governativa, non può non avere una “vocazione maggioritaria”. Tutti i grandi partiti contemporanei virano sempre più verso la pratica elettorale e di governo. In proposito, lo stesso Veltroni è insolitamente (direi: rozzamente) esplicito quando dice che il “fine della politica” è costruire il “necessario consenso attorno ad un programma di governo”. Infatti i PVM non mira a “rappresentare questa o quella componente identitaria o sociale, per quanto ampia possa essere, ma a porsi l'obiettivo di carattere generale di conquistare nel Paese i consensi necessari a portare avanti un programma di governo, incisivamente riformatore”.

(N.B: La “bella politica” con cui Veltroni si è pavoneggiato in giro per l’Italia, ricostruendo così la sua immagine di leader nazionale, in questo modo è cancellata con un sol tratto di penna).

Niente radici nel passato, niente classe gardée, ideologismi, nostalgie, rappresentanza di “componenti sociali” anche se grandi, ecc. Solo proposte capaci di conquistare il consenso della maggioranza degli elettori. Molto esplicito e molto “moderno”.
Mi permetto di osservare che lo dicevano già Antony Downs nel 1957 (tradotto da noi nel 1988), e poco dopo tutti gli autori classici che hanno evidenziato la tendenza generalizzata, nelle democrazie mature, al modello di “partito pigliatutto”, indispensabile per vincere in competizioni de-ideologizzate. Per cui mi cadono le braccia quando certi politici, per ignoranza e pressappochismo cialtrone, lanciano slogan come se fossero straordinarie innovazioni salvifiche, senza accorgersi che è quanto già succede tutti i giorni purché non ci si rimiri l’ombelico. La differenza sta forse nel fatto che a Veltroni (e i Veltroniani?) non basta vincere ma vogliono farlo con “un programma di governo incisivamente riformatore”? Posso riconoscere le buone intenzioni ma sul piano del ragionamento dico: non scherziamo.

b) Quella del PVM mi pare anche una formula ambigua e controproducente. Su queste premesse così esplicitamente dichiarate, l’elettore in cerca d’identità, di rappresentanza e di tutela socio-economica si sente ovviamente escluso. Problema non da poco, che abbiamo pagato duramente in termini elettorali e di reclutamento partitico.
Agli altri elettori, in questa declinazione veltroniana, basta effettivamente un programma di governo abbastanza persuasivo. A questi non interessano però le dichiarazioni sulla “vocazione maggioritaria”, del tutto incomprensibili e, se comprese, del tutto tafazziane (ci mancherebbe altro che si corresse per perdere!). Gli interessa il programma. La parola d’ordine, se rivolta a questi elettori, non ha quindi concettualmente senso ed è tatticamente sbagliata.

Il messaggio mandato agli elettori è insomma pleonastico, ambiguo ed anche controproducente. Veltroni e - mi pare - i Veltroniani sembrano infatti dire: guardate che facciamo sul serio, siamo qui per governarvi. Magari non oggi (oggi “andiamo da soli”), ma vedrete domani. Chi cerca identità o corporativa protezione sociale, ecc. si accomodi altrove. Noi intendiamo parlare al Paese tutto, con “un programma di governo incisivamente riformatore”.

Aggiungo, tra parentesi, che la stessa parola d’ordine dovrebbe comportare anche uno strutturarsi del PVM in funzione della capacità di raccogliere dati, ragionarci sopra, elaborare programmi, attivare reti di consenso, ecc. Invece, sulla forma-partito la segreteria Veltroni non ha fatto assolutamente nulla.

Detto tutto questo guardando all’esterno del partito, la discriminante del PVM acquista invece senso (autoreferenzialità della politica) se la decodifichiamo come un discorso tutto interno al ceto politico, un criterio distintivo fra “noi” e gli “altri”. Le dinamiche congressuali cui stiamo assistendo confermano l’utilità di questa chiave di lettura. In questa chiave, non è facile dare risposte convincenti, perché ci si addentra nei rapporti interni al ceto politico, nelle idiosincrasie personali, nelle componenti psicologiche, nelle storie di vita, tutte cose che sfuggono all’osservatore esterno. Azzardo tuttavia un’ipotesi interpretativa: la formula del “PVM” sintetizza la pulsione ad una definitiva resa dei conti con il passato e le sue scorie, in primo luogo con le biografie culturali e politiche dei protagonisti stessi. E’ perciò (anche) un vero e proprio reset psicanalitico da parte -attenzione- degli ex comunisti, perché gli ex democristiani vengono da un passato in cui di “vocazione maggioritaria” ce n’era anche troppa. In proposito, osservo di sfuggita che, semmai, uno dei gravi problemi del mancato amalgama entro il PD è proprio l’ingresso di personale politico da sempre orientato al governo, specie in sede locale, e quindi abile nelle pratiche conseguenti ma spiazzanti per molti ex-comunisti orientati diversamente. La composizione delle differenze, laddove si è verificata, non ha però segnato un visibile incremento di capacità programmatica, semmai ha rafforzato anche negli ex comunisti la Vocazione Maggioritaria nei suoi aspetti non sempre migliori.

Tornando agli ex comunisti, poiché il PCI non ha mai voluto celebrare la sua Bad Godesberg ufficiale, alla fine -sepolto dalla storia e dalle macerie del Muro- ha avuto bisogno di passaggi traumatici, cambiamenti di nome, scissioni, ecc., trascinandosi dietro -ovviamente- molte scorie. Poiché questa fase travagliata -protrattasi, non dimentichiamolo, per venti anni !...- ha portato ad una progressiva marginalizzazione, occorreva un ulteriore scatto: ecco qua il “PVM”, che raccoglie anche altre culture politiche egualmente a rischio di marginalizzazione, e personale politico emergente in cerca di nuove collocazioni. Questo scatto, però, va inteso come definitiva emancipazione da tutto quel passato e, per chi si attarda, si fissa la dead line: il PVM. Non so come si possa esprimere ciò in termini psicanalitici. La mia ipotesi è però che non si cerca tanto di definire chi siano gli “altri”, ma di rafforzare le certezze sul chi siamo “noi”. E’ ciò che certa sociologia definisce come processo di “identificazione” del sé, che prelude all’ “identità” in quanto riconosciuta nelle relazioni sociali con l’altro da sé. Si parla di sé credendo di parlare al Paese.

Tornando alla politica, non intendo qui svilire od irridere la prospettiva che in Italia si radichi un forte e serio PD (anche se vorrei che lo si facesse su altre basi). Voglio solo rilevare come nella formula del PVM, in questo slogan si concentra un pacchetto d’informazioni che io sento riguardare soprattutto il passato. Nell’accanimento con cui lo si considera una discriminante netta tra “noi” (a vocazione maggioritaria) e “loro” (che sono per le “alleanze” di vecchio tipo), vedo affiorare incompatibilità, idiosincrasie e polemiche che vengono da lontano e non si sono mai risolte.

Negli universi concentrazionari, si sa, per dare sfogo ai drammi personali si litiga per futili motivi. Me ne sono sempre sentito estraneo nei tanti anni di militanza nel PCI, figuriamoci adesso.

Luciano Bonet, luglio 2009

 


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