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15 Settembre, 2002
Acqua pubblica senza se e senza SPA
Vecchi metodi e vecchie teorie. Lettera ai Sindaci ATO

Acqua pubblica senza se e senza SPA
Vecchi metodi e vecchie teorie. Lettera ai Sindaci ATO
Stimato signor sindaco,
come avrà certamente saputo, per lunedì prossimo (tra soli quattro giorni) è convocata una assemblea dell’Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale all’interno della quale il punto essenziale all’o.d.g. sarà la scelta del modello gestionale del servizio idrico.
Quello che ancora lei forse non sa è che le verrà presentata una sola scelta, quella fortemente voluta dal presidente Salini e dai presidenti delle aziende, cioè quella che prevede la privatizzazione del servizio idrico. Difficile parlare di “scelta”, se si presenta una sola soluzione.
Quello che ancora lei non sa (a meno che lei non faccia parte del consiglio di amministrazione dell’AATO) è che sul campo in realtà ci sono almeno (per quanto ne sappiamo noi) due alternative: una concepita da noi con l’aiuto del Forum Nazionale dei Movimenti per l’Acqua Pubblica e una presentata dalle aziende ex-municipalizzate soresinesi.
Quello che continuerà a non sapere è che queste due proposte (presentate in consiglio di amministrazione da membri dello stesso) sono state scartate dal presidente Salini dopo pochi secondi di “esame”, senza che questa esclusione sia stata minimamente motivata né sul piano formale né sostanziale, senza alcun parere scritto (cioè giuridicamente fondato e discutibile).
Ancora una volta, come successo l’anno scorso (ma con una presidenza di segno politico “opposto”) le verrà chiesto di votare a favore o contro la cessione ai privati della gestione dell’acqua dei suoi amministrati. Con una differenza non secondaria: ora non si parla più “solo” di erogazione ma dell’intera gestione (cioè del “cuore” del servizio); inoltre la legge vigente prevede una partecipazione privata almeno del 40 per cento. Una fetta pesantissima di potere, che diventerà preponderante e prevalente in ogni decisione, come si è visto succedere in tutta Italia.
Noi siamo profondamente delusi dal perpetuarsi di questi comportamenti di arrogante esercizio del potere e crediamo che togliere voce alle proposte alternative alla propria sia un metodo scarsamente democratico e poco rispettoso dei diritti dei cittadini. Ancora di più crediamo che sia avvilente nei confronti dei sindaci, che sono stati eletti dai loro amministrati con lo scopo di governare, di fare scelte, non di alzare una mano per dire sì o no all’unica proposta in campo. Ancora più scandaloso è che l’unica proposta in campo non sia stata loro formalizzata (correggeteci se sbagliamo) con un anticipo sufficiente a permettere ad ogni sindaco di valutarla o farla valutare a persone esperte.
Visto quindi che il presidente Salini non si preoccuperà di farvela avere, provvediamo in proprio ad inviarvi copia della nostra proposta, che — teniamo a sottolinearlo — è pienamente valida dal punto di vista giuridico, è sostenuta da ragioni di fondo che speriamo anche voi condividiate (cioè la considerazione dell’acqua come bene comune, come diritto dei cittadini e non come merce), è pienamente realizzabile (le aziende di diritto pubblico sino a prova contraria esistono in Italia e sono pure numerose), rispetta pienamente la normativa europea ed è, allo stato dell’arte, l’unica che permetta di mantenere indefinitamente in mani esclusivamente pubbliche il servizio idrico. Infatti sinora almeno 140 comuni di tutta Italia (citiamo Verona, Torino, Pisa solo a titolo di esempio: nel nostro territorio, San Daniele Po e Casalmaggiore) hanno iniziato questo percorso, scegliendo di non privatizzare. Evidentemente secondo il presidente Salini tutti questi comuni non conoscono la legge e stanno realizzando l’impossibile. Vi interesserà sapere che i comuni che stanno opponendosi alla privatizzazione si sono riuniti in un Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per l’Acqua Pubblica per lavorare insieme ed aiutarsi nella realizzazione pratica del percorso di pubblicizzazione del servizio idrico.
Aggiungiamo che la nostra proposta in prospettiva permette ad ogni comune (se vuole) di mantenere il controllo delle proprie ex-municipalizzate, risolvendo così magicamente il problema della creazione di una azienda patrimoniale unica provinciale, obiettivo sul quale da anni le aziende esistenti continuano (vergognosamente) a non trovare un punto di accordo.
La proposta di Salini invece consegna tutte le nostre ditte e i nostri lavoratori nelle mani del privato ed addirittura, se andrà in porto la quotazione in borsa di Linea Group Holding, come si leggeva ieri sui quotidiani locali, trasformerà l’acqua nemmeno più in una merce, ma in un prodotto finanziario: ancora c’è qualcuno, dopo le esperienze Cirio e argentine, che crede che in borsa non si corrano rischi pesantissimi? Ci sono in Toscana comuni che, per ripianare i pesanti debiti delle loro aziende, indebitatesi fino al collo per una gestione privatistica del servizio idrico, ora sono costretti a cedere le proprie partecipazioni (l’ultima briciola di pubblico rimasta nelle loro mani) alle banche. E’ questa la fine che volete far fare all’acqua di tutti?
Tenete infine presente che la legge nazionale in base alla quale ora si vuole privatizzare è già oggetto di ricorso da parte di ben cinque regioni italiane per pregiudizio di incostituzionalità. Inoltre in aprile (cioè tra poche settimane) inizierà la raccolta firme per un referendum nazionale volto ad abrogare le norme incriminate. Rischiate cioè di decidere di privatizzare in base a norme che potranno essere abolite o stravolte nel giro di pochi mesi.
Preghiamo quindi ognuno di voi di affermare prima di tutto i vostri diritti e rivendicare la vostra dignità e piena potestà decisionale; di chiedere come minimo un congruo periodo di tempo (almeno un mese) per esaminare tutte le proposte sul tappeto; di prendere in seria considerazione sia la nostra proposta che quella soresinese, di valutarle e farle valutare da esperti di vostra fiducia.
Soprattutto vi scongiuriamo di votare contro la proposta di privatizzazione che vi verrà propinata come unica “alternativa” all’assemblea di lunedì. Rivendicate il vostro diritto di essere informati pienamente e di essere messi in condizione di conoscere bene e con il dovuto anticipo quanto vi viene richiesto di votare.
Noi dal canto nostro siamo a piena disposizione di ognuno di voi per un incontro esplicativo della nostra proposta e per l’organizzazione di eventi aperti al pubblico in cui si spieghino i termini del problema e si faccia su queste cose finalmente chiarezza davanti ai cittadini. Lunedì saremo presenti anche noi per farvi sentire tutto il nostro appoggio e la nostra preoccupazione pronti ad affiancarvi in questa battaglia di civiltà.

per il Comitato Acqua Pubblica Cremona
Giampiero Carotti
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PREMESSA
L’approvazione definitiva da parte del Parlamento Italiano della normativa in materia di servizi pubblici locali a rilevanza economica (legge 133/08 art. 23 bis come modificato dall’art. 15 del d.l. 135/09 convertito nella legge dello Stato n.166/09) ha avuto una forte eco sull’opinione pubblica del nostro Paese e ha allarmato e ulteriormente motivato i comitati, le reti di cittadini, le associazioni che si battono per la salvaguardia dei beni comuni e del diritto di accesso paritario per tutti ai beni e ai servizi essenziali. Rendere effettivamente esigibili (e non solo in teoria) i diritti fondamentali delle persone assume poi particolare importanza quando si vivono tempi come questo di grave crisi generale, di perdita di lavoro, di forte riduzione della disponibilità economica per una sempre più larga parte di popolazione.
Come Comitato Beni Comuni - Comitato Acqua Pubblica abbiamo sempre cercato di fare la nostra parte nel diffondere la cultura dei beni comuni, le pratiche per loro tutela e la loro preservazione dallo spreco, ritenendo fondamentale e rivendicando per essi lo status di beni e non di merci, difendendo la titolarità dell’accesso ai beni come diritto dei cittadini, preferendo considerare questi ultimi come utenti e non consumatori. Per questo in questi anni è diventata per noi essenziale la battaglia contro la privatizzazione del servizio idrico che, se in mani pubbliche e gestito correttamente e in modo trasparente, garantisce equamente a tutti i cittadini, in quantità e qualità, un bene vitale insostituibile e prezioso a un costo accessibile.
In questi cinque anni di attività il Comitato ha seguito le vicende piuttosto travagliate del servizio idrico di questa provincia cercando di avviare un’interlocuzione con gli amministratori e di far partecipi i cittadini di quanto veniva discusso e deliberato in seno all’assemblea dell’AATO. In questi anni purtroppo la progressiva liberalizzazione dei servizi pubblici favorita da provvedimenti legislativi sempre più attenti a riversare nuovi oggetti sul mercato piuttosto che a tutelare i diritti dei cittadini ci ha visto sempre più in apprensione ma anche sempre più determinati nella difesa di quei diritti.
Un primo obiettivo che il Forum Nazionale dei Movimenti per l’Acqua (a cui noi come Comitato aderiamo da tempo) si è dato è stato quello della redazione di una proposta di legge di iniziativa popolare per disciplinare ed omogeneizzare l’intera normativa concernente il servizio idrico integrato nella direzione di una reale e sostanziale ripubblicizzazione. Tale proposta di legge ha ora iniziato l’iter parlamentare e il Forum si è nel frattempo preoccupato di fare un passo in più, elaborando una strategia pratica, un percorso che nonostante il regime vigente permetta di mantenere in mani completamente pubbliche la proprietà e la gestione dei sistemi idrici del nostro Paese. Oggi per la prima volta grazie alla sensibilità di alcuni sindaci e alla disponibilità degli amministratori dell’AATO della provincia cremonese il Comitato ha la possibilità di presentare la propria proposta sostenendone la validità giuridica; ci piace pensare che questo sia il primo passo verso l’apertura di un tavolo permanente di discussione e confronto tra l’AATO, i cittadini cremonesi e i rappresentanti legali del Forum Nazionale.

LE NOSTRE PREOCCUPAZIONI.
Preoccupante è la notizia della proposta presentata in seno al CdA dell’AATO di pervenire entro il corrente anno ad un affidamento del servizio idrico integrato ad una società mista pubblico-privata, con scelta del socio privato mediante procedura ad evidenza pubblica secondo quanto stabilito dall’art. 23 bis, comma 2, lettera b, legge 133/09 come modificata dalla legge 166/09.
Le ragioni dell’esclusione delle altre alternative previste dalla legge 166/09 sono note: l’In-House Providing viene trascurato in quanto, nella legislazione nazionale relativa ai servizi pubblici locali a rilevanza economica (art. 23 bis, comma 3, Legge 133/09 come modificata dalla Legge 166/09) esso viene considerato marginale, mentre l’affidamento ad una società privata (art. 23 bis, comma 2, lettera a, Legge 133/09 come modificata dalla Legge 166/09) non viene preso in considerazione in quanto non permetterebbe di “salvare” nulla delle aziende gestionali fino ad oggi operanti, completamente pubbliche, costruite nel tempo con le risorse economiche di tutti noi cittadini.
Nella scelta della società mista si presenta però come un macigno il problema del rapporto tra il socio pubblico e quello privato: i fautori di questo modello organizzativo sostengono che la separazione tra proprietà e gestione di un bene non determina conseguenze sulla qualità e disponibilità del bene stesso, così come, venendo al campo idrico, c’è chi sostiene (Roberto Passino, presidente Co.Vi.Ri., Sole 24 ore giovedì 19 novembre 2009) che poco conta se il gestore sia una SpA controllata dal pubblico o dal privato, conta che tutte le leggi confermino da anni l’acqua come bene pubblico, che gli impianti idrici siano tutti di proprietà pubblica, che l’organismo di controllo sia pubblico e che la formazione delle tariffe resti in mano pubblica.
Le società idriche miste pubblico-private tuttavia, anche in Italia, hanno una storia ormai quasi quindicinale e pertanto è lecito e doveroso trarne insegnamento e l’insegnamento è purtroppo costantemente negativo: nelle società miste così come nei casi di affidamento completo del servizio a un privato, i cittadini non trovano nessun vantaggio e anzi vedono peggiorare il servizio ed impennarsi le tariffe, generando molto spesso contenziosi tra utenti e ditte e (per traslato) tra cittadini ed amministratori.
La gestione privatistica dei servizi idrici potrebbe essere presa come esempio da manuale di uno degli insegnamenti basilari ed ormai infatti codificato delle teorie di economia aziendale, e cioè la distinzione tra proprietà formale del bene e delle infrastrutture e gestione effettiva del servizio.
L’esperienza insegna (non solo in Italia) che tra il soggetto pubblico e quello privato vi è una pesante asimmetria d’informazioni, al punto da porre la necessità di distinguere tra proprietà formale e proprietà sostanziale del bene. Secondo questa distinzione, purtroppo confortata dall’esperienza, il proprietario reale del bene non è colui che possiede patrimonialmente le infrastrutture ma è colui che gestisce il bene ed eroga il servizio. Tradotto in termini più semplici ed applicato al servizio idrico, i sindaci perdono ogni potere e capacità di controllo sull’acqua che a nome loro giunge nelle case dei loro amministrati.
Ma soprattutto è noto che il governo e il controllo pubblico diventano pressoché nulli nel momento in cui ci si trova dinanzi a forme giuridiche societarie di diritto privato, regolate dal diritto commerciale, dove la missione principale dell’azienda diventa vendere un prodotto o un servizio tenendo più bassi possibile i costi di produzione e massimalizzando il profitto (mantenendo cioè prezzi alti e/o incentivando i consumi). Questi effetti negativi iniziano già a manifestarsi quando a capo di un servizio pubblico si trova una azienda SpA, pur se a capitale totalmente pubblico; quando l’azienda è mista o privata gli effetti diventano molto più marcati ed evidenti, essendo vanificata ogni possibilità di imporre controlli effettivi ed efficaci che pongano un argine a tale tendenza.
La soluzione dell’azienda mista pubblico-privata dunque, pur presentandosi apparentemente come una soluzione in qualche modo di mediazione tra il “tutto pubblico” e il “tutto privato”, ha dimostrato nei fatti ove è stata applicata che assomma i difetti e non i pregi di entrambi i sistemi: questo non in quanto le applicazioni reali avutesi sul territorio italiano siano state “mal realizzate” ma in quanto le finalità dei due soggetti (pubblico e privato) sono, se applicate a un bene comune e a un diritto dei cittadini, decisamente confliggenti. Ed è chiaro che in situazione di conflitto ma in ambito di diritto societario privato (qual è quello in cui si muove per legge l’azienda mista) è il privato ad avere sempre il potere maggiore.
In questo senso la soluzione in-house presenterebbe qualche elemento di maggiore tutela dei diritti pubblici, ma ha il difetto sostanziale di essere condizionata, in base alle norme recentemente approvate, da una scadenza (31 dicembre 2011) ormai molto ravvicinata, al di là della quale comunque si dovrebbe passare a una privatizzazione.
Da questo sostanziale “imbuto” legislativo, che sembra lasciare ai sindaci l’unica soluzione della privatizzazione (totale o parziale) della gestione dei servizi a rilevanza economica — presentandola oltre tutto come un adempimento obbligatorio imposto dalla Comunità Europea — è però possibile uscire. Scopo di questo documento, prendendo spunto proprio da atti ufficiali della Comunità Europea, è anche quello di dimostrare prioritariamente l’assoluta infondatezza di questa affermazione.
Partiamo da quest’ultimo aspetto.

L’EUROPA E IL CASO DI PARIGI
La normativa europea che interviene in materia di servizi pubblici trova i suoi fondamenti negli articoli 5, 16, 86 e 295 del Trattato sull’Unione Europea. Questi articoli fissano i seguenti principi di fondo, che costituiscono le grandi discriminanti su cui articolare qualunque ragionamento sui servizi pubblici nell’Unione Europea:
il principio di auto-organizzazione amministrativa sancito dall’art. 5, sulla cui base sono costruiti:
a) la libertà di definizione, nel senso che la definizione di servizio “di interesse generale” e di servizio “di interesse economico generale” compete agli Stati membri e alle loro suddivisioni costituzionalmente riconosciute (nel caso italiano quindi alle autonomie locali), sulla base del principio di sussidiarietà.
b) il diritto per gli stati membri e le istituzioni locali di ricorrere alla autoproduzione dei servizi.
Infatti nella “Risoluzione sul Libro verde sui servizi di interesse generale (COM (2003) 270 – 2003/2152 (INI))” del 14 gennaio 2004 il Parlamento Europeo:
“18. ribadisce l’importanza del principio di sussidiarietà, a norma del quale le autorità competenti degli Stati membri possono operare la loro scelta in materia di missioni, organizzazione e modalità di finanziamento dei servizi di interesse generale e dei servizi di interesse economico generale; sottolinea che una direttiva non può stabilire una definizione europea uniforme dei servizi di interesse generale, poiché la loro definizione e strutturazione deve restare di competenza esclusiva degli Stati membri e delle loro suddivisioni costituzionalmente riconosciute”;
“35. Auspica che, in ossequio al principio di sussidiarietà, venga riconosciuto il diritto degli enti locali e regionali di “auto produrre” in modo autonomo servizi di interesse generale a condizione che l’operatore addetto alla gestione diretta non eserciti una concorrenza al di fuori del territorio interessato; chiede, conformemente alla sua posizione sulle direttive concernenti i contratti di servizio pubblico, che le autorità locali vengano autorizzate ad affidare i servizi a entità esterne senza procedure d’appalto qualora la loro supervisione sia analoga a quella esercitata da esse sui propri servizi e qualora svolgano le loro principali attività mediante tale mezzo”.
la neutralità rispetto alla proprietà, pubblica o privata, sancita dall’art. 295, con il quale l’Unione Europea si astiene dall’indicare la natura pubblica o privata delle imprese che, nel nostro caso, gestiscono i servizi pubblici: non c’è alcun obbligo alla privatizzazione delle imprese pubbliche, come, d’altro canto, le norme in materia di concorrenza e di mercato si applicano, con le dovute specificazioni, indipendentemente dal regime di proprietà di un’impresa;
la proporzionalità, intesa nel senso di assicurare un appropriato bilanciamento tra adempimento degli obblighi di servizio pubblico e regole della concorrenza. Come recita infatti l’art. 86 “le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità”. Quindi le regole della concorrenza si applicano purché non ostacolino la missione affidata ai servizi di interesse economico generale, missione che l’art. 16 del Trattato riconduce ai valori comuni dell’Unione Europea e al ruolo che i servizi di interesse economico generale svolgono “nella promozione della coesione sociale e territoriale”. In più, nell’interpretazione dell’art. 86 del trattato sull’Unione Europea fornita dalla stessa Commissione Europea nel Libro Bianco sui servizi di interesse generale del 12/5/2004 n. COM (2004) 374 si legge che: “ […] in base al Trattato CE e in presenza delle condizioni di cui all’art. 86, paragrafo 2, l’effettiva prestazione di un compito di interesse generale prevale, in caso di controversia, sull’applicazione delle norme del trattato. Pertanto, la normativa tutela i compiti piuttosto che le loro modalità di esecuzione. Il Trattato consente quindi di conciliare il perseguimento e la realizzazione degli obiettivi di politica pubblica con gli obiettivi di competitività dell’Unione Europea nel suo insieme”. La Commissione prosegue, commentando la propria proposta di direttiva sui servizi d’interesse generale, affermando (pag. 11) che “un aspetto ancora più importante risiede nel fatto che la proposta non impone agli Stati membri di aprire i servizi di interesse economico generale alla concorrenza e non interferisce sulle modalità di finanziamento o di organizzazione”.

Più di recente la Commissione, nella Comunicazione interpretativa sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati del 5 febbraio 2008 n C(2007) 6661, ribadisce nuovamente che “nel diritto comunitario le autorità pubbliche sono infatti libere di esercitare in proprio un’attività economica o di affidarla a terzi, ad esempio ad entità a capitale misto costituite nell’ambito di un partenariato pubblico-privato”.
A tale proposito è molto significativo che la stessa Commissione Europea, notoriamente attenta ad impedire potenziali violazioni del principio di libera concorrenza, debba comunque dar conto della cedevolezza del detto principio concorrenziale di fronte a quello della libertà di autorganizzazione degli Stati membri e delle loro articolazioni interne. Anche se il principio della concorrenza è da considerarsi uno dei principi ispiratori del diritto comunitario tuttavia non è il solo né il prioritario: ne esistono altri che godono di almeno pari dignità e rilevanza. Insomma, a differenza di quanto spesso viene sostenuto, l’Unione europea non solo non impone la privatizzazione dei servizi pubblici ma, in buona sostanza, lascia liberi gli Stati membri di definire quali siano i servizi di interesse generale e quali quelli di interesse economico generale, libertà che comprende le loro forme di gestione: essa lascia impregiudicato il regime di proprietà pubblico o privato delle imprese e, anzi, riafferma che compito dei servizi pubblici è di promuovere la coesione sociale e territoriale.

E’ in questo quadro interpretativo che si inserisce — esempio illuminante — la scelta effettuata dalla Municipalità di Parigi di ripubblicizzare il servizio idrico, scelta divenuta operativa dal 1° Gennaio 2010. Tale ripubblicizzazione avviene trasformando la precedente gestione affidata ad una società mista, di proprietà maggioritaria del Comune con la partecipazione di Suez e Véolia, in un EPIC (Etablissement Public à caractère Industriel et Commercial). In base al diritto francese uno stabilimento pubblico (établissement public) è un Ente morale di diritto pubblico: questo a sua volta si suddivide nella tipologia di EPA (Etablissement Public a caractère Administratif) e, per l’appunto, EPIC: il primo è totalmente soggetto alle regole del diritto amministrativo, mentre l’EPIC è comunque un soggetto di diritto pubblico, ma che, in alcuni campi, si muove secondo le regole del diritto privato, in particolare per quanto riguarda le norme sul personale e l’utilizzo delle norme della contabilità privata. In Francia sono EPIC le Ferrovie Nazionali, la RAPT (Ente che gestisce il trasporto pubblico di Parigi) e altre importanti realtà che gestiscono servizi pubblici. Per fare un paragone con la situazione italiana, l’EPIC assomiglia al nostro Ente Pubblico economico e, a livello locale, all’Azienda speciale.

LA NORMATIVA ITALIANA E LA DEFINIZIONE DI “SERVIZIO DI RILEVANZA ECONOMICA” / “SERVIZIO PRIVO DI RILEVANZA ECONOMICA”.
L’art. 23 bis della Legge 133/09, modificato dall’art. 15 del decreto 135/09 convertito nella Legge 166/09, interviene solo in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, compiendo a nostro avviso un’operazione indebita nel momento in cui, parlando esplicitamente di servizi pubblici locali come il servizio idrico, la gestione del ciclo dei rifiuti e il trasporto pubblico locale, presume e dà per acquisito che essi siano servizi di rilevanza economica.
Le cose non stanno in questi termini perché non si può assolutamente sostenere che il servizio idrico integrato (per limitare il discorso a questo servizio) sia un servizio di rilevanza economica. A sostegno di quanto da noi affermato, un primo importante rilievo viene dalla sentenza n. 272/04 della Corte Costituzionale che, richiamandosi alla normativa comunitaria, fa presente che: “a questo proposito la Commissione europea, nel "Libro Verde sui servizi di interesse generale” (COM-2003-270) del 21 maggio ha affermato che le norme sulla concorrenza si applicano soltanto alle attività economiche, dopo aver precisato che la distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo, cosicché non sarebbe possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura "non economica"”.

Secondo la costante giurisprudenza comunitaria spetta infatti al giudice nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare, dell'assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed anche dell'eventuale finanziamento pubblico dell'attività in questione (Corte di giustizia CE, sentenza 22 maggio 2003, causa 18/2001). Per i servizi locali che, in relazione al soggetto erogatore, ai caratteri ed alle modalità della prestazione, ai destinatari, appaiono privi di rilevanza economica, ci sarà dunque spazio per una “specifica ed adeguata disciplina di fonte regionale ed anche locale”.
Questo rilievo fondamentale, e cioè che non è possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di rilevanza economica o di quelli privi di rilevanza economica, è peraltro corroborato dalla situazione di fatto. Infatti, non esiste in alcuna fonte legislativa o regolamentare del nostro Paese una norma definitoria di questi servizi. L’unico riferimento esistente è quello della legge 448/01 (Finanziaria 2002), con la quale, al comma 16 dell’art. 35, il Governo si impegnava ad adottare “le disposizioni necessarie per l’esecuzione e l’attuazione del presente articolo, con l’individuazione dei servizi di cui all’articolo 113, comma 1, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge”. Tale impegno di individuazione dei servizi di rilevanza economica non è mai stato realizzato.

Infine ci sostiene nelle nostre tesi il recente parere della Sezione della Lombardia della Corte dei Conti del 17 marzo 2009 che recita esplicitamente: “L’ambito di disciplina previsto dall’art. 23 bis del D.L. n. 112/2008 riguarda i servizi pubblici a rilevanza economica. Tuttavia, non è possibile individuare a priori, in maniera definita e statica, una categoria di servizi pubblici a rilevanza economica, che va, invece, effettuata di volta in volta, con riferimento al singolo servizio da espletare, da parte dell’ente stesso, avendo riguardo all’impatto che il servizio stesso può avere sul contesto dello specifico mercato concorrenziale di riferimento ed ai suoi caratteri di redditività/autosufficienza economica (ossia di capacità di produrre profitti o per lo meno di coprire i costi con i ricavi)”.

Inoltre la già citata sentenza della Corte Costituzionale 272/2004 recita: “il titolo di legittimazione per gli interventi del legislatore statale costituito dalla tutela della concorrenza non è applicabile a questo tipo di servizi, proprio perché in riferimento ad essi non esiste un mercato concorrenziale”. Il passo si riferisce all’abrogazione per illegittimità costituzionale dell’art. 113 bis del D.Lgs 276/2000 (TUEL) che disciplinava i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica. In altre parole, si afferma che il legislatore statale, in materia di servizi, può legiferare soltanto in riferimento al tema della tutela della concorrenza: tutto il resto è demandato al livello locale. Lo Stato cioè non ha più competenza regolamentare esclusiva sui servizi pubblici locali, essendo entrato in vigore il nuovo titolo V della Costituzione. Proprio in virtù di quest’ultimo il Consiglio di Stato fermò il regolamento della finanziaria dell’anno 2002 che tentava di obbligare gli enti locali a trasformare tutte le aziende speciali e i consorzi comunali in SpA e Srl.

I pronunciamenti sopra citati nel loro insieme portano a ribadire in modo chiaro che è l’Ente Locale che, di volta in volta, con riferimento al singolo servizio da espletare, definisce se si sia nel campo dei servizi di rilevanza economica o di quelli privi di rilevanza economica. E’ anche da qui che trova conferma la nostra proposta che, stante la legislazione vigente, traccia la via per la ripubblicizzazione del servizio idrico attraverso la modifica degli Statuti comunali (provinciali, regionali) o perlomeno di una delibera consigliare degli stessi enti che dichiari il servizio idrico privo di rilevanza economica.
Grazie a questo pronunciamento diviene possibile per l’Ente Locale il ricorso all’articolo 114 (che norma l’Azienda speciale) del TUEL, che, combinato con l’articolo 31 dello stesso TUEL, porta a dar vita ad un’Azienda speciale consortile. A quel punto diventa possibile passare all’affidamento diretto del servizio idrico integrato ad un Ente di diritto pubblico, in primis ad un’Azienda Speciale consortile, visto che il territorio servito coinvolge più Comuni. Il passo successivo sarà costruire un vero e proprio piano di fattibilità tecnico/economico/sociale per la costituzione dell’Azienda speciale consortile.

Un altro importante passo che conferma l’autonomia decisionale degli enti locali in materia di servizi pubblici è stato fatto grazie alla sentenza n. 5501/2009 del 15 settembre 2009 emessa dal Consiglio di Stato che ha riconosciuto e resa operativa la scelta del comune di Aprilia di non approvare la convenzione di gestione con Acqualatina SpA (società che gestisce il servizio idrico integrato nell’ATO 4 del Lazio). La sentenza ribadisce che la libertà del singolo comune di non impegnarsi ulteriormente nell’ambito territoriale di gestione del servizio idrico deve ritenersi piena e non soggetta a restrizioni di sorta e quindi il comune di Aprilia è pienamente legittimato a non approvare la convenzione di servizio con Acqualatina SpA; l’AATO e la Provincia sono due enti distinti e la Provincia non ha alcun potere di veto e di ricorso contro le deliberazioni del singolo ente locale appartenente all’ambito territoriale; inoltre ha legittimato i cittadini ad agire e ricorrere nei tribunali poiché l’erogazione del servizio idrico rientra tra i diritti individuali fondamentali e collettivi; infine ha legittimato l’intervento dei cittadini-utenti che hanno esercitato i loro diritti fondamentali disconoscendo alla convenzione di gestione le caratteristiche utili per assicurare un servizio pubblico efficiente e di qualità.

L’AZIENDA SPECIALE (CONSORTILE)
L’Azienda speciale, come recita l’art. 114 del Testo Unico Enti Locali 267/2000, è “ente strumentale dell'ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale o provinciale”.
Si tratta pertanto di un ente diverso dal comune o dalla provincia da cui dipende funzionalmente. La personalità giuridica, che si acquisisce con l'iscrizione al registro delle imprese, fa dell'Azienda speciale un soggetto di diritto a sé stante, indipendente e diverso dall'ente locale che lo ha costituito. Al Comune compete l’approvazione degli atti fondamentali dell'Azienda speciale: il piano-programma (comprendente il contratto di servizio), i bilanci economici di previsione pluriennale e annuale, il conto consuntivo e il bilancio di esercizio. Anche lo statuto, al momento della costituzione dell'Azienda speciale, viene approvato dal consiglio comunale. Al comune infatti compete soltanto la determinazione esterna di fini e obiettivi, mentre compete all'azienda procedere autonomamente al perseguimento dei fini posti dell'ente locale, godendo in ciò di ampia autonomia imprenditoriale.
L'Azienda speciale rientra, inoltre, nella categoria degli enti pubblici economici (Cass. Sez. un. 15 dicembre 1997, n. 12654) cioè degli enti di diritto pubblico la cui attività, pur se strumentale rispetto al perseguimento di un pubblico interesse, ha per oggetto l'esercizio di un'impresa ed è uniformata a regole di economicità perché ha l’obiettivo del pareggio di bilancio. L’acquisto della personalità giuridica da parte dell'Azienda speciale, comporta, oltre l'iscrizione nel registro delle imprese, la sua assoggettabilità al regime fiscale proprio delle aziende private (Cons. Stato, III, 18 maggio 1993, n. 405) ed alla disciplina di diritto privato per quanto attiene al profilo dell'impresa e per i rapporti di lavoro dei dipendenti (T.A.R. Liguria, II, 24 maggio 1995, n. 272). Ciò, ad esempio, significa che i contratti collettivi di lavoro non sono necessariamente quelli del settore pubblico, ma quelli stabiliti dalle parti in riferimento al settore merceologico di appartenenza (contratto gas-acqua per i settori del gas e dell’acqua, autoferrotramvieri per il trasporto pubblico locale e così via).
Visto il profilo della personalità giuridica dell’Azienda speciale, la giurisprudenza ha posto in rilievo l’applicabilità alla medesima di alcune disposizioni tipiche del diritto privato, in virtù della sua natura di ente pubblico economico; è necessario d’altro canto evidenziare anche l’altro elemento fondamentale che connota l’istituto in questione, cioè il già rilevato carattere strumentale dell’ente locale. Al carattere strumentale si ricollega l'esigenza che le attività poste in essere siano finalizzate al conseguimento degli stessi scopi che l’ente locale si prefigge, cioè il soddisfacimento degli interessi della collettività locale e lo sviluppo della stessa.
I vincoli che legano l'Azienda speciale al Comune sono quindi così stretti, sul piano della formazione degli organi, degli indirizzi, dei controlli e della vigilanza, da farla ritenere “elemento del sistema amministrativo facente capo allo stesso Ente territoriale” (Corte Costituzionale, n.28 12 febbraio 1996). L'Azienda speciale cioè, pur con l'accentuata autonomia derivantele dall'attribuzione della personalità giuridica, è parte dell'apparato amministrativo che fa capo al Comune e ha connotati pubblicistici. L'attribuzione della personalità giuridica non muta tale natura, ma la configura solo come un nuovo centro di imputazione di situazioni e rapporti giuridici distinto dal Comune, con una propria autonomia decisionale; rende altresì possibile, per l'esercizio di un'attività che ha rilievo economico, l’effettuazione di scelte di tipo imprenditoriale, cioè l’organizzazione dei fattori della produzione secondo i modelli propri dell'impresa privata (compatibilmente sempre con i fini sociali dell'Ente titolare) per il conseguimento di un maggiore grado di efficacia, di efficienza e di economicità del servizio pubblico.

Un’ultima considerazione che è importante avanzare sulle problematiche di fondo che riguardano l’Azienda speciale è quella riferita ai vincoli di natura occupazionale ed economici esistenti rispetto all’Ente Locale di riferimento. In tema di occupazione non vale per l’Azienda speciale quanto previsto dal recente art. 19 della legge 102/2009, in base al quale le società a totale o maggioritario capitale pubblico titolari dell’affidamento di servizi pubblici locali senza gara sono sottoposti alle stesse regole relative alle assunzioni e alla contrattazione decentrata che valgono per l’Ente Locale proprietario o controllante.
Rispetto al Patto di stabilità la situazione è assai confusa: la legge vigente affida ad un regolamento ancora da emanare “l'assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno”. Occorrerà vedere il testo che uscirà, e soprattutto come verranno identificati i soggetti cosiddetti in house, per capire se anche le aziende speciali verranno assoggettate al Patto di stabilità, cosa che tuttavia finora non avviene.

Guardando alla gestione del servizio idrico e quindi ad un territorio composto da una pluralità di Comuni presenti nell’ATO, appare del tutto evidente che l’assetto dell’Azienda speciale debba essere di tipo consortile. In questo senso va richiamato l’art. 31 (consorzi) del TUEL 267/2000. Il consorzio è sostanzialmente equiparato all’Azienda speciale: lo stesso art. 31, infatti, dispone che la costituzione del consorzio avviene “secondo le norme previste per le aziende speciali di cui all’art. 114 per quanto compatibili”. Parte della dottrina, addirittura, ritiene che i consorzi siano aziende speciali pluricomunali; anche il Consiglio di Stato con alcune pronunce dei primi anni ‘90 ha ritenuto che consorzio e azienda non siano figure distinte.
Per l’Azienda speciale consortile, quindi, valgono tutti i ragionamenti sviluppati prima; inoltre essa, rispetto alla ordinaria Azienda speciale, si caratterizza per la presenza di un organo in più: l’assemblea consortile. Mentre l’Azienda speciale è amministrata e gestita soltanto dal Consiglio di Amministrazione (per forza di cose ristretto e di modeste dimensioni), nell’assemblea consortile sono rappresentati tutti gli enti consorziati attraverso i sindaci o loro delegati.

CONCLUSIONI
Dimostrata pertanto, come ci pare di aver fatto, la piena fondatezza giuridica della nostra proposta, nonché (e anzi soprattutto, dal nostro punto di vista di membri storici del Forum Nazionale dei Movimenti per l’Acqua Pubblica) la sua preferibilità in termini sia di tutela dei diritti che di miglior servizio a favore dei cittadini, ci si permettano alcune non secondarie considerazioni finali.


Ci piacerebbe poter salutare un pronunciamento dei sindaci di tutta la provincia, di qualunque colore e convinzione politica, a favore di questa scelta come un primo e fondamentale “scatto d’orgoglio” che riesca a porre il territorio e i cittadini cremonesi in posizione di avanguardia e non di timorosa retroguardia rispetto all’evoluzione della vita sociale e politica della nazione. Possiamo farlo e — a nostro parere — dobbiamo farlo, dobbiamo invertire un pericoloso cammino che ha in questi ultimi anni svilito e tradito nei fatti, trascinandole verso la privatizzazione, le nostre aziende locali, che i nostri genitori e progenitori hanno costruito con grande sforzo finanziario e umano, con la finalità non di crearsi una fonte di profitto ma di fornire al loro (al nostro) territorio un servizio essenziale e di qualità. Noi pensiamo che questo sforzo vada riconosciuto, salvaguardato e anzi ripreso: oggi siamo invece al paradosso che vede delle aziende che a riconoscimento unanime hanno lavorato e stanno lavorando bene trattate alla stregua di aziende inefficienti e squalificate. Cremona dovrebbe riconoscere al proprio territorio (del quale le aziende costituiscono un pezzo di storia) la capacità e il diritto di continuare a gestire le aziende pubbliche ora esistenti, riconoscere i meriti e le capacità dei lavoratori che le fanno funzionare, pur mirando nello stesso tempo a un costante ed ulteriore miglioramento del servizio.

Va sottolineato che Cremona non si troverebbe sola in questo percorso, poiché si potrebbe giovare non solo del nostro aiuto e dell’aiuto degli altri comitati di cittadini italiani, ma soprattutto dell’aiuto e della collaborazione degli altri enti locali che già hanno deliberato la modifica degli statuti nel senso sopra indicato e si sono uniti in un Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per l’Acqua Pubblica, soggetto che sarà in grado di fornire ogni appoggio ed ogni consulenza sui percorsi di pubblicizzazione, ad ogni stadio del percorso. Ci piacerebbe cioè che anche i nostri enti locali scegliessero di fare lo stesso percorso di condivisione e di lavoro che noi abbiamo intrapreso anni fa entrando nel Forum Nazionale: perché lavorando insieme agli altri si lavora meglio, si ottiene di più e si cresce come cittadini.

Un punto essenziale troppo spesso trascurato è poi quello degli enormi rischi a cui le aziende e i lavoratori andrebbero incontro nell’ipotesi della gara per la scelta del socio privato. Tale socio privato infatti non può essere un mero finanziatore, ma deve essere un partner industriale, quindi in pratica è un “concorrente” delle nostre attuali aziende, ma un concorrente decisamente privilegiato. Infatti il privato che si aggiudica la “fetta” di servizio (e ricordiamo che si tratta di una fetta molto sostanziosa) potrà non solo o dotarsi di suo personale oppure “ereditare” quello delle nostre aziende ma soprattutto ricevere in “regalo” il loro know-how frutto di decenni di lavoro, crescita professionale ed umana.
Questo, tenuto conto anche del periodo di crisi, è un rischio che sarebbe gravissimo far correre al personale che attualmente lavora nelle nostre ex-municipalizzate. Abbiamo un grande patrimonio infrastrutturale e di conoscenza da difendere: difendiamolo, perché tra trent’anni — quando terminerà il periodo di servizio che si vorrebbe ora aggiudicare ed avremo toccato con mano che la privatizzazione sarà stata un disastro e vorremo tornare a una soluzione pubblica — questo patrimonio lo dovremo ricostruire da zero.

Anche la situazione legislativa e normativa sconsiglia di orientarsi verso la privatizzazione: tale scelta infatti si basa principalmente sul portato dell’art. 23 bis della più volte citata legge 133/08. Occorre tenere presente a questo proposito che ben cinque regioni (Emilia Romagna, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia) hanno presentato ricorso per incostituzionalità di tale norma adducendo la plausibile ragione che essa risulti incostituzionale. Infatti la norma in questione appare incidere indebitamente sui seguenti aspetti:
- violazione dei requisiti di necessità ed urgenza previsti dall’art. 77 Cost. per l’emanazione dei decreti-legge;
- violazione del principio comunitario relativo alla distinzione tra servizi di interesse economico-generale e servizi di interesse generale, ovvero alla differenza tra servizi orientati al mercato e servizi non orientati al mercato (art.. 14 TFUE e protocollo n. 26 del Trattato di Lisbona e relativa produzione normativa e giurisprudenziale UE);
- violazione del principio comunitario della coesione economico-sociale e territoriale, in particolare nell’espressione relativa al mantenimento di un elevato livello di occupazione;
- violazione del principio solidaristico e di eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost.;
- violazione del principio autonomistico di autodeterminazione dei comuni di cui agli artt. 5 e 18 Cost.;
- violazione dell’art. 117, comma 2 Cost., relativo al riparto di competenze tra Stato e regioni;
- violazione dell’art. 41 Cost. relativo al riconoscimento dell’attività economica pubblica;
- violazione dell’art. 43 Cost., relativo alla centralità del ruolo dell’impresa pubblica nella gestione dei servizi pubblici essenziali).

Inoltre contro la stessa norma (ed altre ad essa collegate: art. 150, commi da 1 a 4 del D.Lgs 152/2006, il cosiddetto “Codice dell’ambiente”, e art. 154, comma 1 del medesimo decreto limitatamente alla parte che dispone che la tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto dell’adeguata remunerazione del capitale investito) partirà in tutta Italia tra poche settimane una raccolta di firme per l’indizione di un referendum abrogativo.
Si rischia insomma di prendere decisioni di fondamentale importanza e gravità sulla base di norme che è ragionevole supporre possano avere vita breve o almeno subire tra poco sostanziali modifiche. La scadenza del 31 dicembre 2010 è di certo non lontana, tuttavia effettuando la scelta che proponiamo tale limite verrebbe automaticamente a saltare.
Ulteriore e recentissimo elemento che viene a complicare il quadro normativo è la proposta (passata pochi giorni fa nelle Commissioni Affari Costituzionali e Bilancio della Camera dei deputati) di soppressione delle autorità d’ambito, le cui competenze e prerogative sarebbero “ereditate” dalle amministrazioni provinciali competenti per territorio: non comprendiamo come questa cessione di sovranità e di potere dai comuni alle province possa trovare spazio in una Italia così gelosa delle proprie peculiarità e ricchezze locali, ma per chiarezza e completezza di informazione ne va tenuto conto.

In questa situazione complessivamente così fluida e non stabilizzata dunque il percorso che il Forum dei Movimenti per l’Acqua Pubblica indica è quello che fornisce le maggiori garanzie di praticabilità e stabilità: l’Azienda speciale consortile cioè, come evidenziato, è l’unica soluzione certa sia dal punto di vista giuridico che da quello organizzativo. Aggiungiamo che questo percorso e questa proposta, lungi dall’essere patrimonio di pochi, stanno diffondendosi a macchia d’olio su tutto il territorio italiano e anche nella nostra provincia.
Già più di 140 enti locali italiani, dai più piccoli ai più grandi, da nord a sud, dalla sinistra alla destra dell’arco costituzionale passando per molti sindaci espressioni di liste civiche, hanno approvato ordini del giorno per la modifica degli statuti comunali volti ad orientare l’ente locale verso questa soluzione. Solo a titolo di esemplificazione citiamo i comuni di Verona, Torino, Pisa, Venezia, Mantova. Per non dimenticare che l’acquedotto più grande d’Europa, quello pugliese, ha proprio in queste settimane iniziato il percorso di ripubblicizzazione mediante la progressiva trasformazione, già deliberata dalla giunta regionale, da SpA a ente strumentale, e cioè proprio la soluzione che noi stiamo prospettando.

Salvare l’acqua come diritto di tutti, rispettare le nostre aziende e la loro storia, riconoscere la professionalità dei nostri lavoratori e non far correre rischi a loro e alle loro famiglie, riportare pienamente e concretamente la gestione delle aziende nelle mani di coloro che sono titolati dal voto popolare ad esercitare tale funzione, i sindaci, è giusto ed è possibile. Bisogna semplicemente volerlo fare. Noi vi chiediamo di renderlo realtà.

Comitato Acqua Pubblica Cremona
22 Febbraio 2010

 


       



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