15 Settembre, 2002
Acqua pubblica senza se e senza SPA
Vecchi metodi e vecchie teorie. Lettera ai Sindaci ATO
Acqua pubblica senza se e senza SPA
Vecchi metodi e vecchie teorie. Lettera ai
Sindaci ATO
Stimato signor sindaco,
come avrà certamente saputo, per lunedì prossimo
(tra soli quattro giorni) è convocata una
assemblea dell’Autorità d’Ambito Territoriale
Ottimale all’interno della quale il punto
essenziale all’o.d.g. sarà la scelta del
modello gestionale del servizio idrico.
Quello che ancora lei forse non sa è che
le verrà presentata una sola scelta, quella
fortemente voluta dal presidente Salini e
dai presidenti delle aziende, cioè quella
che prevede la privatizzazione del servizio
idrico. Difficile parlare di “scelta”, se
si presenta una sola soluzione.
Quello che ancora lei non sa (a meno che
lei non faccia parte del consiglio di amministrazione
dell’AATO) è che sul campo in realtà ci sono
almeno (per quanto ne sappiamo noi) due alternative:
una concepita da noi con l’aiuto del Forum
Nazionale dei Movimenti per l’Acqua Pubblica
e una presentata dalle aziende ex-municipalizzate
soresinesi.
Quello che continuerà a non sapere è che
queste due proposte (presentate in consiglio
di amministrazione da membri dello stesso)
sono state scartate dal presidente Salini
dopo pochi secondi di “esame”, senza che
questa esclusione sia stata minimamente motivata
né sul piano formale né sostanziale, senza
alcun parere scritto (cioè giuridicamente
fondato e discutibile).
Ancora una volta, come successo l’anno scorso
(ma con una presidenza di segno politico
“opposto”) le verrà chiesto di votare a favore
o contro la cessione ai privati della gestione
dell’acqua dei suoi amministrati. Con una
differenza non secondaria: ora non si parla
più “solo” di erogazione ma dell’intera gestione
(cioè del “cuore” del servizio); inoltre
la legge vigente prevede una partecipazione
privata almeno del 40 per cento. Una fetta
pesantissima di potere, che diventerà preponderante
e prevalente in ogni decisione, come si è
visto succedere in tutta Italia.
Noi siamo profondamente delusi dal perpetuarsi
di questi comportamenti di arrogante esercizio
del potere e crediamo che togliere voce alle
proposte alternative alla propria sia un
metodo scarsamente democratico e poco rispettoso
dei diritti dei cittadini. Ancora di più
crediamo che sia avvilente nei confronti
dei sindaci, che sono stati eletti dai loro
amministrati con lo scopo di governare, di
fare scelte, non di alzare una mano per dire
sì o no all’unica proposta in campo. Ancora
più scandaloso è che l’unica proposta in
campo non sia stata loro formalizzata (correggeteci
se sbagliamo) con un anticipo sufficiente
a permettere ad ogni sindaco di valutarla
o farla valutare a persone esperte.
Visto quindi che il presidente Salini non
si preoccuperà di farvela avere, provvediamo
in proprio ad inviarvi copia della nostra
proposta, che — teniamo a sottolinearlo —
è pienamente valida dal punto di vista giuridico,
è sostenuta da ragioni di fondo che speriamo
anche voi condividiate (cioè la considerazione
dell’acqua come bene comune, come diritto
dei cittadini e non come merce), è pienamente
realizzabile (le aziende di diritto pubblico
sino a prova contraria esistono in Italia
e sono pure numerose), rispetta pienamente
la normativa europea ed è, allo stato dell’arte,
l’unica che permetta di mantenere indefinitamente
in mani esclusivamente pubbliche il servizio
idrico. Infatti sinora almeno 140 comuni
di tutta Italia (citiamo Verona, Torino,
Pisa solo a titolo di esempio: nel nostro
territorio, San Daniele Po e Casalmaggiore)
hanno iniziato questo percorso, scegliendo
di non privatizzare. Evidentemente secondo
il presidente Salini tutti questi comuni
non conoscono la legge e stanno realizzando
l’impossibile. Vi interesserà sapere che
i comuni che stanno opponendosi alla privatizzazione
si sono riuniti in un Coordinamento Nazionale
degli Enti Locali per l’Acqua Pubblica per
lavorare insieme ed aiutarsi nella realizzazione
pratica del percorso di pubblicizzazione
del servizio idrico.
Aggiungiamo che la nostra proposta in prospettiva
permette ad ogni comune (se vuole) di mantenere
il controllo delle proprie ex-municipalizzate,
risolvendo così magicamente il problema della
creazione di una azienda patrimoniale unica
provinciale, obiettivo sul quale da anni
le aziende esistenti continuano (vergognosamente)
a non trovare un punto di accordo.
La proposta di Salini invece consegna tutte
le nostre ditte e i nostri lavoratori nelle
mani del privato ed addirittura, se andrà
in porto la quotazione in borsa di Linea
Group Holding, come si leggeva ieri sui quotidiani
locali, trasformerà l’acqua nemmeno più in
una merce, ma in un prodotto finanziario:
ancora c’è qualcuno, dopo le esperienze Cirio
e argentine, che crede che in borsa non si
corrano rischi pesantissimi? Ci sono in Toscana
comuni che, per ripianare i pesanti debiti
delle loro aziende, indebitatesi fino al
collo per una gestione privatistica del servizio
idrico, ora sono costretti a cedere le proprie
partecipazioni (l’ultima briciola di pubblico
rimasta nelle loro mani) alle banche. E’
questa la fine che volete far fare all’acqua
di tutti?
Tenete infine presente che la legge nazionale
in base alla quale ora si vuole privatizzare
è già oggetto di ricorso da parte di ben
cinque regioni italiane per pregiudizio di
incostituzionalità. Inoltre in aprile (cioè
tra poche settimane) inizierà la raccolta
firme per un referendum nazionale volto ad
abrogare le norme incriminate. Rischiate
cioè di decidere di privatizzare in base
a norme che potranno essere abolite o stravolte
nel giro di pochi mesi.
Preghiamo quindi ognuno di voi di affermare
prima di tutto i vostri diritti e rivendicare
la vostra dignità e piena potestà decisionale;
di chiedere come minimo un congruo periodo
di tempo (almeno un mese) per esaminare tutte
le proposte sul tappeto; di prendere in seria
considerazione sia la nostra proposta che
quella soresinese, di valutarle e farle valutare
da esperti di vostra fiducia.
Soprattutto vi scongiuriamo di votare contro
la proposta di privatizzazione che vi verrà
propinata come unica “alternativa” all’assemblea
di lunedì. Rivendicate il vostro diritto
di essere informati pienamente e di essere
messi in condizione di conoscere bene e con
il dovuto anticipo quanto vi viene richiesto
di votare.
Noi dal canto nostro siamo a piena disposizione
di ognuno di voi per un incontro esplicativo
della nostra proposta e per l’organizzazione
di eventi aperti al pubblico in cui si spieghino
i termini del problema e si faccia su queste
cose finalmente chiarezza davanti ai cittadini.
Lunedì saremo presenti anche noi per farvi
sentire tutto il nostro appoggio e la nostra
preoccupazione pronti ad affiancarvi in questa
battaglia di civiltà.
per il Comitato Acqua Pubblica Cremona
Giampiero Carotti
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PREMESSA
L’approvazione definitiva da parte del Parlamento
Italiano della normativa in materia di servizi
pubblici locali a rilevanza economica (legge
133/08 art. 23 bis come modificato dall’art.
15 del d.l. 135/09 convertito nella legge
dello Stato n.166/09) ha avuto una forte
eco sull’opinione pubblica del nostro Paese
e ha allarmato e ulteriormente motivato i
comitati, le reti di cittadini, le associazioni
che si battono per la salvaguardia dei beni
comuni e del diritto di accesso paritario
per tutti ai beni e ai servizi essenziali.
Rendere effettivamente esigibili (e non solo
in teoria) i diritti fondamentali delle persone
assume poi particolare importanza quando
si vivono tempi come questo di grave crisi
generale, di perdita di lavoro, di forte
riduzione della disponibilità economica per
una sempre più larga parte di popolazione.
Come Comitato Beni Comuni - Comitato Acqua
Pubblica abbiamo sempre cercato di fare la
nostra parte nel diffondere la cultura dei
beni comuni, le pratiche per loro tutela
e la loro preservazione dallo spreco, ritenendo
fondamentale e rivendicando per essi lo status
di beni e non di merci, difendendo la titolarità
dell’accesso ai beni come diritto dei cittadini,
preferendo considerare questi ultimi come
utenti e non consumatori. Per questo in questi
anni è diventata per noi essenziale la battaglia
contro la privatizzazione del servizio idrico
che, se in mani pubbliche e gestito correttamente
e in modo trasparente, garantisce equamente
a tutti i cittadini, in quantità e qualità,
un bene vitale insostituibile e prezioso
a un costo accessibile.
In questi cinque anni di attività il Comitato
ha seguito le vicende piuttosto travagliate
del servizio idrico di questa provincia cercando
di avviare un’interlocuzione con gli amministratori
e di far partecipi i cittadini di quanto
veniva discusso e deliberato in seno all’assemblea
dell’AATO. In questi anni purtroppo la progressiva
liberalizzazione dei servizi pubblici favorita
da provvedimenti legislativi sempre più attenti
a riversare nuovi oggetti sul mercato piuttosto
che a tutelare i diritti dei cittadini ci
ha visto sempre più in apprensione ma anche
sempre più determinati nella difesa di quei
diritti.
Un primo obiettivo che il Forum Nazionale
dei Movimenti per l’Acqua (a cui noi come
Comitato aderiamo da tempo) si è dato è stato
quello della redazione di una proposta di
legge di iniziativa popolare per disciplinare
ed omogeneizzare l’intera normativa concernente
il servizio idrico integrato nella direzione
di una reale e sostanziale ripubblicizzazione.
Tale proposta di legge ha ora iniziato l’iter
parlamentare e il Forum si è nel frattempo
preoccupato di fare un passo in più, elaborando
una strategia pratica, un percorso che nonostante
il regime vigente permetta di mantenere in
mani completamente pubbliche la proprietà
e la gestione dei sistemi idrici del nostro
Paese. Oggi per la prima volta grazie alla
sensibilità di alcuni sindaci e alla disponibilità
degli amministratori dell’AATO della provincia
cremonese il Comitato ha la possibilità di
presentare la propria proposta sostenendone
la validità giuridica; ci piace pensare che
questo sia il primo passo verso l’apertura
di un tavolo permanente di discussione e
confronto tra l’AATO, i cittadini cremonesi
e i rappresentanti legali del Forum Nazionale.
LE NOSTRE PREOCCUPAZIONI.
Preoccupante è la notizia della proposta
presentata in seno al CdA dell’AATO di pervenire
entro il corrente anno ad un affidamento
del servizio idrico integrato ad una società
mista pubblico-privata, con scelta del socio
privato mediante procedura ad evidenza pubblica
secondo quanto stabilito dall’art. 23 bis,
comma 2, lettera b, legge 133/09 come modificata
dalla legge 166/09.
Le ragioni dell’esclusione delle altre alternative
previste dalla legge 166/09 sono note: l’In-House
Providing viene trascurato in quanto, nella
legislazione nazionale relativa ai servizi
pubblici locali a rilevanza economica (art.
23 bis, comma 3, Legge 133/09 come modificata
dalla Legge 166/09) esso viene considerato
marginale, mentre l’affidamento ad una società
privata (art. 23 bis, comma 2, lettera a,
Legge 133/09 come modificata dalla Legge
166/09) non viene preso in considerazione
in quanto non permetterebbe di “salvare”
nulla delle aziende gestionali fino ad oggi
operanti, completamente pubbliche, costruite
nel tempo con le risorse economiche di tutti
noi cittadini.
Nella scelta della società mista si presenta
però come un macigno il problema del rapporto
tra il socio pubblico e quello privato: i
fautori di questo modello organizzativo sostengono
che la separazione tra proprietà e gestione
di un bene non determina conseguenze sulla
qualità e disponibilità del bene stesso,
così come, venendo al campo idrico, c’è chi
sostiene (Roberto Passino, presidente Co.Vi.Ri.,
Sole 24 ore giovedì 19 novembre 2009) che
poco conta se il gestore sia una SpA controllata
dal pubblico o dal privato, conta che tutte
le leggi confermino da anni l’acqua come
bene pubblico, che gli impianti idrici siano
tutti di proprietà pubblica, che l’organismo
di controllo sia pubblico e che la formazione
delle tariffe resti in mano pubblica.
Le società idriche miste pubblico-private
tuttavia, anche in Italia, hanno una storia
ormai quasi quindicinale e pertanto è lecito
e doveroso trarne insegnamento e l’insegnamento
è purtroppo costantemente negativo: nelle
società miste così come nei casi di affidamento
completo del servizio a un privato, i cittadini
non trovano nessun vantaggio e anzi vedono
peggiorare il servizio ed impennarsi le tariffe,
generando molto spesso contenziosi tra utenti
e ditte e (per traslato) tra cittadini ed
amministratori.
La gestione privatistica dei servizi idrici
potrebbe essere presa come esempio da manuale
di uno degli insegnamenti basilari ed ormai
infatti codificato delle teorie di economia
aziendale, e cioè la distinzione tra proprietà
formale del bene e delle infrastrutture e
gestione effettiva del servizio.
L’esperienza insegna (non solo in Italia)
che tra il soggetto pubblico e quello privato
vi è una pesante asimmetria d’informazioni,
al punto da porre la necessità di distinguere
tra proprietà formale e proprietà sostanziale
del bene. Secondo questa distinzione, purtroppo
confortata dall’esperienza, il proprietario
reale del bene non è colui che possiede patrimonialmente
le infrastrutture ma è colui che gestisce
il bene ed eroga il servizio. Tradotto in
termini più semplici ed applicato al servizio
idrico, i sindaci perdono ogni potere e capacità
di controllo sull’acqua che a nome loro giunge
nelle case dei loro amministrati.
Ma soprattutto è noto che il governo e il
controllo pubblico diventano pressoché nulli
nel momento in cui ci si trova dinanzi a
forme giuridiche societarie di diritto privato,
regolate dal diritto commerciale, dove la
missione principale dell’azienda diventa
vendere un prodotto o un servizio tenendo
più bassi possibile i costi di produzione
e massimalizzando il profitto (mantenendo
cioè prezzi alti e/o incentivando i consumi).
Questi effetti negativi iniziano già a manifestarsi
quando a capo di un servizio pubblico si
trova una azienda SpA, pur se a capitale
totalmente pubblico; quando l’azienda è mista
o privata gli effetti diventano molto più
marcati ed evidenti, essendo vanificata ogni
possibilità di imporre controlli effettivi
ed efficaci che pongano un argine a tale
tendenza.
La soluzione dell’azienda mista pubblico-privata
dunque, pur presentandosi apparentemente
come una soluzione in qualche modo di mediazione
tra il “tutto pubblico” e il “tutto privato”,
ha dimostrato nei fatti ove è stata applicata
che assomma i difetti e non i pregi di entrambi
i sistemi: questo non in quanto le applicazioni
reali avutesi sul territorio italiano siano
state “mal realizzate” ma in quanto le finalità
dei due soggetti (pubblico e privato) sono,
se applicate a un bene comune e a un diritto
dei cittadini, decisamente confliggenti.
Ed è chiaro che in situazione di conflitto
ma in ambito di diritto societario privato
(qual è quello in cui si muove per legge
l’azienda mista) è il privato ad avere sempre
il potere maggiore.
In questo senso la soluzione in-house presenterebbe
qualche elemento di maggiore tutela dei diritti
pubblici, ma ha il difetto sostanziale di
essere condizionata, in base alle norme recentemente
approvate, da una scadenza (31 dicembre 2011)
ormai molto ravvicinata, al di là della quale
comunque si dovrebbe passare a una privatizzazione.
Da questo sostanziale “imbuto” legislativo,
che sembra lasciare ai sindaci l’unica soluzione
della privatizzazione (totale o parziale)
della gestione dei servizi a rilevanza economica
— presentandola oltre tutto come un adempimento
obbligatorio imposto dalla Comunità Europea
— è però possibile uscire. Scopo di questo
documento, prendendo spunto proprio da atti
ufficiali della Comunità Europea, è anche
quello di dimostrare prioritariamente l’assoluta
infondatezza di questa affermazione.
Partiamo da quest’ultimo aspetto.
L’EUROPA E IL CASO DI PARIGI
La normativa europea che interviene in materia
di servizi pubblici trova i suoi fondamenti
negli articoli 5, 16, 86 e 295 del Trattato
sull’Unione Europea. Questi articoli fissano
i seguenti principi di fondo, che costituiscono
le grandi discriminanti su cui articolare
qualunque ragionamento sui servizi pubblici
nell’Unione Europea:
il principio di auto-organizzazione amministrativa
sancito dall’art. 5, sulla cui base sono
costruiti:
a) la libertà di definizione, nel senso che
la definizione di servizio “di interesse
generale” e di servizio “di interesse economico
generale” compete agli Stati membri e alle
loro suddivisioni costituzionalmente riconosciute
(nel caso italiano quindi alle autonomie
locali), sulla base del principio di sussidiarietà.
b) il diritto per gli stati membri e le istituzioni
locali di ricorrere alla autoproduzione dei
servizi.
Infatti nella “Risoluzione sul Libro verde
sui servizi di interesse generale (COM (2003)
270 – 2003/2152 (INI))” del 14 gennaio 2004
il Parlamento Europeo:
“18. ribadisce l’importanza del principio
di sussidiarietà, a norma del quale le autorità
competenti degli Stati membri possono operare
la loro scelta in materia di missioni, organizzazione
e modalità di finanziamento dei servizi di
interesse generale e dei servizi di interesse
economico generale; sottolinea che una direttiva
non può stabilire una definizione europea
uniforme dei servizi di interesse generale,
poiché la loro definizione e strutturazione
deve restare di competenza esclusiva degli
Stati membri e delle loro suddivisioni costituzionalmente
riconosciute”;
“35. Auspica che, in ossequio al principio
di sussidiarietà, venga riconosciuto il diritto
degli enti locali e regionali di “auto produrre”
in modo autonomo servizi di interesse generale
a condizione che l’operatore addetto alla
gestione diretta non eserciti una concorrenza
al di fuori del territorio interessato; chiede,
conformemente alla sua posizione sulle direttive
concernenti i contratti di servizio pubblico,
che le autorità locali vengano autorizzate
ad affidare i servizi a entità esterne senza
procedure d’appalto qualora la loro supervisione
sia analoga a quella esercitata da esse sui
propri servizi e qualora svolgano le loro
principali attività mediante tale mezzo”.
la neutralità rispetto alla proprietà, pubblica
o privata, sancita dall’art. 295, con il
quale l’Unione Europea si astiene dall’indicare
la natura pubblica o privata delle imprese
che, nel nostro caso, gestiscono i servizi
pubblici: non c’è alcun obbligo alla privatizzazione
delle imprese pubbliche, come, d’altro canto,
le norme in materia di concorrenza e di mercato
si applicano, con le dovute specificazioni,
indipendentemente dal regime di proprietà
di un’impresa;
la proporzionalità, intesa nel senso di assicurare
un appropriato bilanciamento tra adempimento
degli obblighi di servizio pubblico e regole
della concorrenza. Come recita infatti l’art.
86 “le imprese incaricate della gestione
di servizi di interesse economico generale
o aventi carattere di monopolio fiscale sono
sottoposte alle norme del presente trattato,
e in particolare alle regole di concorrenza,
nei limiti in cui l'applicazione di tali
norme non osti all'adempimento, in linea
di diritto e di fatto, della specifica missione
loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non
deve essere compromesso in misura contraria
agli interessi della Comunità”. Quindi le
regole della concorrenza si applicano purché
non ostacolino la missione affidata ai servizi
di interesse economico generale, missione
che l’art. 16 del Trattato riconduce ai valori
comuni dell’Unione Europea e al ruolo che
i servizi di interesse economico generale
svolgono “nella promozione della coesione
sociale e territoriale”. In più, nell’interpretazione
dell’art. 86 del trattato sull’Unione Europea
fornita dalla stessa Commissione Europea
nel Libro Bianco sui servizi di interesse
generale del 12/5/2004 n. COM (2004) 374
si legge che: “ […] in base al Trattato CE
e in presenza delle condizioni di cui all’art.
86, paragrafo 2, l’effettiva prestazione
di un compito di interesse generale prevale,
in caso di controversia, sull’applicazione
delle norme del trattato. Pertanto, la normativa
tutela i compiti piuttosto che le loro modalità
di esecuzione. Il Trattato consente quindi
di conciliare il perseguimento e la realizzazione
degli obiettivi di politica pubblica con
gli obiettivi di competitività dell’Unione
Europea nel suo insieme”. La Commissione
prosegue, commentando la propria proposta
di direttiva sui servizi d’interesse generale,
affermando (pag. 11) che “un aspetto ancora
più importante risiede nel fatto che la proposta
non impone agli Stati membri di aprire i
servizi di interesse economico generale alla
concorrenza e non interferisce sulle modalità
di finanziamento o di organizzazione”.
Più di recente la Commissione, nella Comunicazione
interpretativa sull’applicazione del diritto
comunitario degli appalti pubblici e delle
concessioni ai partenariati pubblico-privati
istituzionalizzati del 5 febbraio 2008 n
C(2007) 6661, ribadisce nuovamente che “nel
diritto comunitario le autorità pubbliche
sono infatti libere di esercitare in proprio
un’attività economica o di affidarla a terzi,
ad esempio ad entità a capitale misto costituite
nell’ambito di un partenariato pubblico-privato”.
A tale proposito è molto significativo che
la stessa Commissione Europea, notoriamente
attenta ad impedire potenziali violazioni
del principio di libera concorrenza, debba
comunque dar conto della cedevolezza del
detto principio concorrenziale di fronte
a quello della libertà di autorganizzazione
degli Stati membri e delle loro articolazioni
interne. Anche se il principio della concorrenza
è da considerarsi uno dei principi ispiratori
del diritto comunitario tuttavia non è il
solo né il prioritario: ne esistono altri
che godono di almeno pari dignità e rilevanza.
Insomma, a differenza di quanto spesso viene
sostenuto, l’Unione europea non solo non
impone la privatizzazione dei servizi pubblici
ma, in buona sostanza, lascia liberi gli
Stati membri di definire quali siano i servizi
di interesse generale e quali quelli di interesse
economico generale, libertà che comprende
le loro forme di gestione: essa lascia impregiudicato
il regime di proprietà pubblico o privato
delle imprese e, anzi, riafferma che compito
dei servizi pubblici è di promuovere la coesione
sociale e territoriale.
E’ in questo quadro interpretativo che si
inserisce — esempio illuminante — la scelta
effettuata dalla Municipalità di Parigi di
ripubblicizzare il servizio idrico, scelta
divenuta operativa dal 1° Gennaio 2010. Tale
ripubblicizzazione avviene trasformando la
precedente gestione affidata ad una società
mista, di proprietà maggioritaria del Comune
con la partecipazione di Suez e Véolia, in
un EPIC (Etablissement Public à caractère
Industriel et Commercial). In base al diritto
francese uno stabilimento pubblico (établissement
public) è un Ente morale di diritto pubblico:
questo a sua volta si suddivide nella tipologia
di EPA (Etablissement Public a caractère
Administratif) e, per l’appunto, EPIC: il
primo è totalmente soggetto alle regole del
diritto amministrativo, mentre l’EPIC è comunque
un soggetto di diritto pubblico, ma che,
in alcuni campi, si muove secondo le regole
del diritto privato, in particolare per quanto
riguarda le norme sul personale e l’utilizzo
delle norme della contabilità privata. In
Francia sono EPIC le Ferrovie Nazionali,
la RAPT (Ente che gestisce il trasporto pubblico
di Parigi) e altre importanti realtà che
gestiscono servizi pubblici. Per fare un
paragone con la situazione italiana, l’EPIC
assomiglia al nostro Ente Pubblico economico
e, a livello locale, all’Azienda speciale.
LA NORMATIVA ITALIANA E LA DEFINIZIONE DI
“SERVIZIO DI RILEVANZA ECONOMICA” / “SERVIZIO
PRIVO DI RILEVANZA ECONOMICA”.
L’art. 23 bis della Legge 133/09, modificato
dall’art. 15 del decreto 135/09 convertito
nella Legge 166/09, interviene solo in materia
di servizi pubblici locali di rilevanza economica,
compiendo a nostro avviso un’operazione indebita
nel momento in cui, parlando esplicitamente
di servizi pubblici locali come il servizio
idrico, la gestione del ciclo dei rifiuti
e il trasporto pubblico locale, presume e
dà per acquisito che essi siano servizi di
rilevanza economica.
Le cose non stanno in questi termini perché
non si può assolutamente sostenere che il
servizio idrico integrato (per limitare il
discorso a questo servizio) sia un servizio
di rilevanza economica. A sostegno di quanto
da noi affermato, un primo importante rilievo
viene dalla sentenza n. 272/04 della Corte
Costituzionale che, richiamandosi alla normativa
comunitaria, fa presente che: “a questo proposito
la Commissione europea, nel "Libro Verde
sui servizi di interesse generale” (COM-2003-270)
del 21 maggio ha affermato che le norme sulla
concorrenza si applicano soltanto alle attività
economiche, dopo aver precisato che la distinzione
tra attività economiche e non economiche
ha carattere dinamico ed evolutivo, cosicché
non sarebbe possibile fissare a priori un
elenco definitivo dei servizi di interesse
generale di natura "non economica"”.
Secondo la costante giurisprudenza comunitaria
spetta infatti al giudice nazionale valutare
circostanze e condizioni in cui il servizio
viene prestato, tenendo conto, in particolare,
dell'assenza di uno scopo precipuamente lucrativo,
della mancata assunzione dei rischi connessi
a tale attività ed anche dell'eventuale finanziamento
pubblico dell'attività in questione (Corte
di giustizia CE, sentenza 22 maggio 2003,
causa 18/2001). Per i servizi locali che,
in relazione al soggetto erogatore, ai caratteri
ed alle modalità della prestazione, ai destinatari,
appaiono privi di rilevanza economica, ci
sarà dunque spazio per una “specifica ed
adeguata disciplina di fonte regionale ed
anche locale”.
Questo rilievo fondamentale, e cioè che non
è possibile fissare a priori un elenco definitivo
dei servizi di rilevanza economica o di quelli
privi di rilevanza economica, è peraltro
corroborato dalla situazione di fatto. Infatti,
non esiste in alcuna fonte legislativa o
regolamentare del nostro Paese una norma
definitoria di questi servizi. L’unico riferimento
esistente è quello della legge 448/01 (Finanziaria
2002), con la quale, al comma 16 dell’art.
35, il Governo si impegnava ad adottare “le
disposizioni necessarie per l’esecuzione
e l’attuazione del presente articolo, con
l’individuazione dei servizi di cui all’articolo
113, comma 1, del testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, di cui
al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267,
come sostituito dal comma 1 del presente
articolo, entro sei mesi dalla data di entrata
in vigore della presente legge”. Tale impegno
di individuazione dei servizi di rilevanza
economica non è mai stato realizzato.
Infine ci sostiene nelle nostre tesi il recente
parere della Sezione della Lombardia della
Corte dei Conti del 17 marzo 2009 che recita
esplicitamente: “L’ambito di disciplina previsto
dall’art. 23 bis del D.L. n. 112/2008 riguarda
i servizi pubblici a rilevanza economica.
Tuttavia, non è possibile individuare a priori,
in maniera definita e statica, una categoria
di servizi pubblici a rilevanza economica,
che va, invece, effettuata di volta in volta,
con riferimento al singolo servizio da espletare,
da parte dell’ente stesso, avendo riguardo
all’impatto che il servizio stesso può avere
sul contesto dello specifico mercato concorrenziale
di riferimento ed ai suoi caratteri di redditività/autosufficienza
economica (ossia di capacità di produrre
profitti o per lo meno di coprire i costi
con i ricavi)”.
Inoltre la già citata sentenza della Corte
Costituzionale 272/2004 recita: “il titolo
di legittimazione per gli interventi del
legislatore statale costituito dalla tutela
della concorrenza non è applicabile a questo
tipo di servizi, proprio perché in riferimento
ad essi non esiste un mercato concorrenziale”.
Il passo si riferisce all’abrogazione per
illegittimità costituzionale dell’art. 113
bis del D.Lgs 276/2000 (TUEL) che disciplinava
i servizi pubblici locali privi di rilevanza
economica. In altre parole, si afferma che
il legislatore statale, in materia di servizi,
può legiferare soltanto in riferimento al
tema della tutela della concorrenza: tutto
il resto è demandato al livello locale. Lo
Stato cioè non ha più competenza regolamentare
esclusiva sui servizi pubblici locali, essendo
entrato in vigore il nuovo titolo V della
Costituzione. Proprio in virtù di quest’ultimo
il Consiglio di Stato fermò il regolamento
della finanziaria dell’anno 2002 che tentava
di obbligare gli enti locali a trasformare
tutte le aziende speciali e i consorzi comunali
in SpA e Srl.
I pronunciamenti sopra citati nel loro insieme
portano a ribadire in modo chiaro che è l’Ente
Locale che, di volta in volta, con riferimento
al singolo servizio da espletare, definisce
se si sia nel campo dei servizi di rilevanza
economica o di quelli privi di rilevanza
economica. E’ anche da qui che trova conferma
la nostra proposta che, stante la legislazione
vigente, traccia la via per la ripubblicizzazione
del servizio idrico attraverso la modifica
degli Statuti comunali (provinciali, regionali)
o perlomeno di una delibera consigliare degli
stessi enti che dichiari il servizio idrico
privo di rilevanza economica.
Grazie a questo pronunciamento diviene possibile
per l’Ente Locale il ricorso all’articolo
114 (che norma l’Azienda speciale) del TUEL,
che, combinato con l’articolo 31 dello stesso
TUEL, porta a dar vita ad un’Azienda speciale
consortile. A quel punto diventa possibile
passare all’affidamento diretto del servizio
idrico integrato ad un Ente di diritto pubblico,
in primis ad un’Azienda Speciale consortile,
visto che il territorio servito coinvolge
più Comuni. Il passo successivo sarà costruire
un vero e proprio piano di fattibilità tecnico/economico/sociale
per la costituzione dell’Azienda speciale
consortile.
Un altro importante passo che conferma l’autonomia
decisionale degli enti locali in materia
di servizi pubblici è stato fatto grazie
alla sentenza n. 5501/2009 del 15 settembre
2009 emessa dal Consiglio di Stato che ha
riconosciuto e resa operativa la scelta del
comune di Aprilia di non approvare la convenzione
di gestione con Acqualatina SpA (società
che gestisce il servizio idrico integrato
nell’ATO 4 del Lazio). La sentenza ribadisce
che la libertà del singolo comune di non
impegnarsi ulteriormente nell’ambito territoriale
di gestione del servizio idrico deve ritenersi
piena e non soggetta a restrizioni di sorta
e quindi il comune di Aprilia è pienamente
legittimato a non approvare la convenzione
di servizio con Acqualatina SpA; l’AATO e
la Provincia sono due enti distinti e la
Provincia non ha alcun potere di veto e di
ricorso contro le deliberazioni del singolo
ente locale appartenente all’ambito territoriale;
inoltre ha legittimato i cittadini ad agire
e ricorrere nei tribunali poiché l’erogazione
del servizio idrico rientra tra i diritti
individuali fondamentali e collettivi; infine
ha legittimato l’intervento dei cittadini-utenti
che hanno esercitato i loro diritti fondamentali
disconoscendo alla convenzione di gestione
le caratteristiche utili per assicurare un
servizio pubblico efficiente e di qualità.
L’AZIENDA SPECIALE (CONSORTILE)
L’Azienda speciale, come recita l’art. 114
del Testo Unico Enti Locali 267/2000, è “ente
strumentale dell'ente locale dotato di personalità
giuridica, di autonomia imprenditoriale e
di proprio statuto, approvato dal consiglio
comunale o provinciale”.
Si tratta pertanto di un ente diverso dal
comune o dalla provincia da cui dipende funzionalmente.
La personalità giuridica, che si acquisisce
con l'iscrizione al registro delle imprese,
fa dell'Azienda speciale un soggetto di diritto
a sé stante, indipendente e diverso dall'ente
locale che lo ha costituito. Al Comune compete
l’approvazione degli atti fondamentali dell'Azienda
speciale: il piano-programma (comprendente
il contratto di servizio), i bilanci economici
di previsione pluriennale e annuale, il conto
consuntivo e il bilancio di esercizio. Anche
lo statuto, al momento della costituzione
dell'Azienda speciale, viene approvato dal
consiglio comunale. Al comune infatti compete
soltanto la determinazione esterna di fini
e obiettivi, mentre compete all'azienda procedere
autonomamente al perseguimento dei fini posti
dell'ente locale, godendo in ciò di ampia
autonomia imprenditoriale.
L'Azienda speciale rientra, inoltre, nella
categoria degli enti pubblici economici (Cass.
Sez. un. 15 dicembre 1997, n. 12654) cioè
degli enti di diritto pubblico la cui attività,
pur se strumentale rispetto al perseguimento
di un pubblico interesse, ha per oggetto
l'esercizio di un'impresa ed è uniformata
a regole di economicità perché ha l’obiettivo
del pareggio di bilancio. L’acquisto della
personalità giuridica da parte dell'Azienda
speciale, comporta, oltre l'iscrizione nel
registro delle imprese, la sua assoggettabilità
al regime fiscale proprio delle aziende private
(Cons. Stato, III, 18 maggio 1993, n. 405)
ed alla disciplina di diritto privato per
quanto attiene al profilo dell'impresa e
per i rapporti di lavoro dei dipendenti (T.A.R.
Liguria, II, 24 maggio 1995, n. 272). Ciò,
ad esempio, significa che i contratti collettivi
di lavoro non sono necessariamente quelli
del settore pubblico, ma quelli stabiliti
dalle parti in riferimento al settore merceologico
di appartenenza (contratto gas-acqua per
i settori del gas e dell’acqua, autoferrotramvieri
per il trasporto pubblico locale e così via).
Visto il profilo della personalità giuridica
dell’Azienda speciale, la giurisprudenza
ha posto in rilievo l’applicabilità alla
medesima di alcune disposizioni tipiche del
diritto privato, in virtù della sua natura
di ente pubblico economico; è necessario
d’altro canto evidenziare anche l’altro elemento
fondamentale che connota l’istituto in questione,
cioè il già rilevato carattere strumentale
dell’ente locale. Al carattere strumentale
si ricollega l'esigenza che le attività poste
in essere siano finalizzate al conseguimento
degli stessi scopi che l’ente locale si prefigge,
cioè il soddisfacimento degli interessi della
collettività locale e lo sviluppo della stessa.
I vincoli che legano l'Azienda speciale al
Comune sono quindi così stretti, sul piano
della formazione degli organi, degli indirizzi,
dei controlli e della vigilanza, da farla
ritenere “elemento del sistema amministrativo
facente capo allo stesso Ente territoriale”
(Corte Costituzionale, n.28 12 febbraio 1996).
L'Azienda speciale cioè, pur con l'accentuata
autonomia derivantele dall'attribuzione della
personalità giuridica, è parte dell'apparato
amministrativo che fa capo al Comune e ha
connotati pubblicistici. L'attribuzione della
personalità giuridica non muta tale natura,
ma la configura solo come un nuovo centro
di imputazione di situazioni e rapporti giuridici
distinto dal Comune, con una propria autonomia
decisionale; rende altresì possibile, per
l'esercizio di un'attività che ha rilievo
economico, l’effettuazione di scelte di tipo
imprenditoriale, cioè l’organizzazione dei
fattori della produzione secondo i modelli
propri dell'impresa privata (compatibilmente
sempre con i fini sociali dell'Ente titolare)
per il conseguimento di un maggiore grado
di efficacia, di efficienza e di economicità
del servizio pubblico.
Un’ultima considerazione che è importante
avanzare sulle problematiche di fondo che
riguardano l’Azienda speciale è quella riferita
ai vincoli di natura occupazionale ed economici
esistenti rispetto all’Ente Locale di riferimento.
In tema di occupazione non vale per l’Azienda
speciale quanto previsto dal recente art.
19 della legge 102/2009, in base al quale
le società a totale o maggioritario capitale
pubblico titolari dell’affidamento di servizi
pubblici locali senza gara sono sottoposti
alle stesse regole relative alle assunzioni
e alla contrattazione decentrata che valgono
per l’Ente Locale proprietario o controllante.
Rispetto al Patto di stabilità la situazione
è assai confusa: la legge vigente affida
ad un regolamento ancora da emanare “l'assoggettamento
dei soggetti affidatari cosiddetti in house
di servizi pubblici locali al patto di stabilità
interno”. Occorrerà vedere il testo che uscirà,
e soprattutto come verranno identificati
i soggetti cosiddetti in house, per capire
se anche le aziende speciali verranno assoggettate
al Patto di stabilità, cosa che tuttavia
finora non avviene.
Guardando alla gestione del servizio idrico
e quindi ad un territorio composto da una
pluralità di Comuni presenti nell’ATO, appare
del tutto evidente che l’assetto dell’Azienda
speciale debba essere di tipo consortile.
In questo senso va richiamato l’art. 31 (consorzi)
del TUEL 267/2000. Il consorzio è sostanzialmente
equiparato all’Azienda speciale: lo stesso
art. 31, infatti, dispone che la costituzione
del consorzio avviene “secondo le norme previste
per le aziende speciali di cui all’art. 114
per quanto compatibili”. Parte della dottrina,
addirittura, ritiene che i consorzi siano
aziende speciali pluricomunali; anche il
Consiglio di Stato con alcune pronunce dei
primi anni ‘90 ha ritenuto che consorzio
e azienda non siano figure distinte.
Per l’Azienda speciale consortile, quindi,
valgono tutti i ragionamenti sviluppati prima;
inoltre essa, rispetto alla ordinaria Azienda
speciale, si caratterizza per la presenza
di un organo in più: l’assemblea consortile.
Mentre l’Azienda speciale è amministrata
e gestita soltanto dal Consiglio di Amministrazione
(per forza di cose ristretto e di modeste
dimensioni), nell’assemblea consortile sono
rappresentati tutti gli enti consorziati
attraverso i sindaci o loro delegati.
CONCLUSIONI
Dimostrata pertanto, come ci pare di aver
fatto, la piena fondatezza giuridica della
nostra proposta, nonché (e anzi soprattutto,
dal nostro punto di vista di membri storici
del Forum Nazionale dei Movimenti per l’Acqua
Pubblica) la sua preferibilità in termini
sia di tutela dei diritti che di miglior
servizio a favore dei cittadini, ci si permettano
alcune non secondarie considerazioni finali.
Ci piacerebbe poter salutare un pronunciamento
dei sindaci di tutta la provincia, di qualunque
colore e convinzione politica, a favore di
questa scelta come un primo e fondamentale
“scatto d’orgoglio” che riesca a porre il
territorio e i cittadini cremonesi in posizione
di avanguardia e non di timorosa retroguardia
rispetto all’evoluzione della vita sociale
e politica della nazione. Possiamo farlo
e — a nostro parere — dobbiamo farlo, dobbiamo
invertire un pericoloso cammino che ha in
questi ultimi anni svilito e tradito nei
fatti, trascinandole verso la privatizzazione,
le nostre aziende locali, che i nostri genitori
e progenitori hanno costruito con grande
sforzo finanziario e umano, con la finalità
non di crearsi una fonte di profitto ma di
fornire al loro (al nostro) territorio un
servizio essenziale e di qualità. Noi pensiamo
che questo sforzo vada riconosciuto, salvaguardato
e anzi ripreso: oggi siamo invece al paradosso
che vede delle aziende che a riconoscimento
unanime hanno lavorato e stanno lavorando
bene trattate alla stregua di aziende inefficienti
e squalificate. Cremona dovrebbe riconoscere
al proprio territorio (del quale le aziende
costituiscono un pezzo di storia) la capacità
e il diritto di continuare a gestire le aziende
pubbliche ora esistenti, riconoscere i meriti
e le capacità dei lavoratori che le fanno
funzionare, pur mirando nello stesso tempo
a un costante ed ulteriore miglioramento
del servizio.
Va sottolineato che Cremona non si troverebbe
sola in questo percorso, poiché si potrebbe
giovare non solo del nostro aiuto e dell’aiuto
degli altri comitati di cittadini italiani,
ma soprattutto dell’aiuto e della collaborazione
degli altri enti locali che già hanno deliberato
la modifica degli statuti nel senso sopra
indicato e si sono uniti in un Coordinamento
Nazionale degli Enti Locali per l’Acqua Pubblica,
soggetto che sarà in grado di fornire ogni
appoggio ed ogni consulenza sui percorsi
di pubblicizzazione, ad ogni stadio del percorso.
Ci piacerebbe cioè che anche i nostri enti
locali scegliessero di fare lo stesso percorso
di condivisione e di lavoro che noi abbiamo
intrapreso anni fa entrando nel Forum Nazionale:
perché lavorando insieme agli altri si lavora
meglio, si ottiene di più e si cresce come
cittadini.
Un punto essenziale troppo spesso trascurato
è poi quello degli enormi rischi a cui le
aziende e i lavoratori andrebbero incontro
nell’ipotesi della gara per la scelta del
socio privato. Tale socio privato infatti
non può essere un mero finanziatore, ma deve
essere un partner industriale, quindi in
pratica è un “concorrente” delle nostre attuali
aziende, ma un concorrente decisamente privilegiato.
Infatti il privato che si aggiudica la “fetta”
di servizio (e ricordiamo che si tratta di
una fetta molto sostanziosa) potrà non solo
o dotarsi di suo personale oppure “ereditare”
quello delle nostre aziende ma soprattutto
ricevere in “regalo” il loro know-how frutto
di decenni di lavoro, crescita professionale
ed umana.
Questo, tenuto conto anche del periodo di
crisi, è un rischio che sarebbe gravissimo
far correre al personale che attualmente
lavora nelle nostre ex-municipalizzate. Abbiamo
un grande patrimonio infrastrutturale e di
conoscenza da difendere: difendiamolo, perché
tra trent’anni — quando terminerà il periodo
di servizio che si vorrebbe ora aggiudicare
ed avremo toccato con mano che la privatizzazione
sarà stata un disastro e vorremo tornare
a una soluzione pubblica — questo patrimonio
lo dovremo ricostruire da zero.
Anche la situazione legislativa e normativa
sconsiglia di orientarsi verso la privatizzazione:
tale scelta infatti si basa principalmente
sul portato dell’art. 23 bis della più volte
citata legge 133/08. Occorre tenere presente
a questo proposito che ben cinque regioni
(Emilia Romagna, Liguria, Marche, Piemonte,
Puglia) hanno presentato ricorso per incostituzionalità
di tale norma adducendo la plausibile ragione
che essa risulti incostituzionale. Infatti
la norma in questione appare incidere indebitamente
sui seguenti aspetti:
- violazione dei requisiti di necessità ed
urgenza previsti dall’art. 77 Cost. per l’emanazione
dei decreti-legge;
- violazione del principio comunitario relativo
alla distinzione tra servizi di interesse
economico-generale e servizi di interesse
generale, ovvero alla differenza tra servizi
orientati al mercato e servizi non orientati
al mercato (art.. 14 TFUE e protocollo n.
26 del Trattato di Lisbona e relativa produzione
normativa e giurisprudenziale UE);
- violazione del principio comunitario della
coesione economico-sociale e territoriale,
in particolare nell’espressione relativa
al mantenimento di un elevato livello di
occupazione;
- violazione del principio solidaristico
e di eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3
Cost.;
- violazione del principio autonomistico
di autodeterminazione dei comuni di cui agli
artt. 5 e 18 Cost.;
- violazione dell’art. 117, comma 2 Cost.,
relativo al riparto di competenze tra Stato
e regioni;
- violazione dell’art. 41 Cost. relativo
al riconoscimento dell’attività economica
pubblica;
- violazione dell’art. 43 Cost., relativo
alla centralità del ruolo dell’impresa pubblica
nella gestione dei servizi pubblici essenziali).
Inoltre contro la stessa norma (ed altre
ad essa collegate: art. 150, commi da 1 a
4 del D.Lgs 152/2006, il cosiddetto “Codice
dell’ambiente”, e art. 154, comma 1 del medesimo
decreto limitatamente alla parte che dispone
che la tariffa costituisce il corrispettivo
del servizio idrico integrato ed è determinata
tenendo conto dell’adeguata remunerazione
del capitale investito) partirà in tutta
Italia tra poche settimane una raccolta di
firme per l’indizione di un referendum abrogativo.
Si rischia insomma di prendere decisioni
di fondamentale importanza e gravità sulla
base di norme che è ragionevole supporre
possano avere vita breve o almeno subire
tra poco sostanziali modifiche. La scadenza
del 31 dicembre 2010 è di certo non lontana,
tuttavia effettuando la scelta che proponiamo
tale limite verrebbe automaticamente a saltare.
Ulteriore e recentissimo elemento che viene
a complicare il quadro normativo è la proposta
(passata pochi giorni fa nelle Commissioni
Affari Costituzionali e Bilancio della Camera
dei deputati) di soppressione delle autorità
d’ambito, le cui competenze e prerogative
sarebbero “ereditate” dalle amministrazioni
provinciali competenti per territorio: non
comprendiamo come questa cessione di sovranità
e di potere dai comuni alle province possa
trovare spazio in una Italia così gelosa
delle proprie peculiarità e ricchezze locali,
ma per chiarezza e completezza di informazione
ne va tenuto conto.
In questa situazione complessivamente così
fluida e non stabilizzata dunque il percorso
che il Forum dei Movimenti per l’Acqua Pubblica
indica è quello che fornisce le maggiori
garanzie di praticabilità e stabilità: l’Azienda
speciale consortile cioè, come evidenziato,
è l’unica soluzione certa sia dal punto di
vista giuridico che da quello organizzativo.
Aggiungiamo che questo percorso e questa
proposta, lungi dall’essere patrimonio di
pochi, stanno diffondendosi a macchia d’olio
su tutto il territorio italiano e anche nella
nostra provincia.
Già più di 140 enti locali italiani, dai
più piccoli ai più grandi, da nord a sud,
dalla sinistra alla destra dell’arco costituzionale
passando per molti sindaci espressioni di
liste civiche, hanno approvato ordini del
giorno per la modifica degli statuti comunali
volti ad orientare l’ente locale verso questa
soluzione. Solo a titolo di esemplificazione
citiamo i comuni di Verona, Torino, Pisa,
Venezia, Mantova. Per non dimenticare che
l’acquedotto più grande d’Europa, quello
pugliese, ha proprio in queste settimane
iniziato il percorso di ripubblicizzazione
mediante la progressiva trasformazione, già
deliberata dalla giunta regionale, da SpA
a ente strumentale, e cioè proprio la soluzione
che noi stiamo prospettando.
Salvare l’acqua come diritto di tutti, rispettare
le nostre aziende e la loro storia, riconoscere
la professionalità dei nostri lavoratori
e non far correre rischi a loro e alle loro
famiglie, riportare pienamente e concretamente
la gestione delle aziende nelle mani di coloro
che sono titolati dal voto popolare ad esercitare
tale funzione, i sindaci, è giusto ed è possibile.
Bisogna semplicemente volerlo fare. Noi vi
chiediamo di renderlo realtà.
Comitato Acqua Pubblica Cremona
22 Febbraio 2010
 
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