15 Settembre, 2002
Fra gli argini di Ennio Serventi
C’erano degli spazi compresi fra l’argine grande e quello piccolo, non erano nè campi nè palude..
Fra gli argini di Ennio Serventi
C’erano degli spazi compresi fra l’argine
grande e quello piccolo, non erano nè campi
nè palude, l’acqua ne copriva stabilmente
soltanto due estesi avvallamenti, divisi
fra loro da una stradina di terra che non
ho mai percorso fino in fondo. Nulla di voluto
dall’uomo cresceva in quelle aree; non l’alta
intricata e verde vegetazione ai bordi delle
parti umide né tanto meno i paglierini steli
verticali, all’apparenza già rinsecchiti
nella loro piena inarrestabile crescita,
che spuntavano nella parte emersa. L’acqua
in quelle bassure non arrivava al ginocchio,
sugli sterpi inerpicanti delle rive e sulle
penzolanti flessibili frasche dei salici
non più intinte aveva lasciato il segno della
passata altezza. L’acqua, al finire di quella
lunga estate senza pioggia, appariva piana
ed immobile, ma l’occhio esperto avrebbe
potuto cogliere il leggero superficiale movimento
del suo lento defluire. S’infilava in un
pertugio che stretto passava sotto alla stradina
di terra che univa la lanca alta alla lanca
bassa, qui gli indizi del suo scorrere erano
visibili all’occhio che sapeva guardare.
Immobili corpi di piccoli insetti galleggianti
insieme a detriti del bosco venivano trascinati
e la percezione del loro movimento amplificata
dal confronto con l’ immobilità delle rive.
Radicate nel fondo, le erbe acquatiche s’allungavano
distese sulla superficie dell’acqua in cerca
di luce. Spinte dalla leggera corrente si
muovevano, allungandosi in una unica direzione,
sinuose come bisce scure. Scavato nella terra,
senza erba sulle sponde, un canale marcava
la divisione fra l’insieme delle due lanche
e l’ area riarsa. Raccoglieva i colaticci
del fondo accompagnandoli oltre il piccolo
argine e la strada alzaia, lasciandoli poi
liberi di dilagare prima che si riversassero
nel fiume. IL canale aveva inizio lontano
in un posto di golena, oltre il vecchio,
ora declassato, argine maestro, in un luogo
che noi di porta Po chiamavamo semplicemente
“la lanca”, così senza un nome. Tutte le
lanche avevano un nome, tutte tranne questa.
Era come se il canale insieme all’acqua lo
avesse portato via , lasciando anonimo quello
spazio. Alla “lanca” l’acqua era scomparsa
portata via dal canale. Sulla terra emersa,
tra un coltivo ed una boscaglia di salici
e pioppi cedui, in uno spiazzo duro d’argilla
calpestata fattasi quasi rossa per detriti
di fornace ed il gran sole, spesso conteso
da gruppi di ragazzi in cerca di un luogo
per il gioco, noi disputavamo pomeridiane
interminabili partite di pallone. Un giorno
sarebbe stato così anche qui, alle lanche
del Boscone; granoturco e girasole avrebbero
distrutto questo posto isolato dove a volte
noi ragazzi venivamo a spogliarci, prendere
il sole e fare il bagno nell’acqua caldiccia
del fosso. Il periodo migliore per il bagno
era giugno e qualche giorno di luglio, prima
che l’acqua diventasse troppo bassa e troppo
calda. In superficie, quella portata della
ciclica piena primaverile e tracimata dal
più basso argine di golena si era ritirata.
Restava quella trattenuta, invisibile e profonda,
fluttuante fra i grani e i sassi delle diverse
ghiaie sotterranee. Anche questa, lentamente
filtrata ed emunta, sarebbe finita a rimpinguare
il canale. In un punto, vicino alla lanche
del Boscone, l’irrompere dell’acqua della
piena ne aveva approfondito l’alveo, arrotondato
ed allargate le sponde, creato un minuscolo
cratere d’acqua che lo spezzava in due tronconi.
Da un segmento di rotaia per carrelli messo
di traverso alla piccola voragine era possibile
anche tuffarsi. La profondità della buca
ed il livello dell’acqua lo permettevano.
La sabbia, rigurgitata sulla sponda dal riversarsi
delle acque di piena, costituiva la modesta
spiaggia capace di contenere forse una decina
di corpi sdraiati. Niente di quel posto era
paragonabile alle spiagge del PO, ma certamente
aveva un suo nascosto segreto fascino, almeno
per noi ragazzi che a volte, non sempre,
lo sceglievamo per venirvi ad esporre al
sole le nostre nudità pagane. Non che questa
ormai persa libera pratica fosse vietata
sugli arenili del fiume, ma in quei luoghi
era di tutti. L’ampia generale e rumorosa
condivisione impediva il soffermarsi, toglieva
il gusto del personale intimo gesto, dell’ingenuo
peccato, del dispetto fatto all’onnipresente
angelo custode. Da quel punto della spiaggia
del Po le nudità, visibili fin dalla strada
alzaia, immacolatamente esposte, richiamavano
ormai, forse, solo l’attenzione delle lunghe
file degli allievi del seminario vescovile
che, da quelle parti, venivano per la loro
passeggiata pomeridiana. Si annunciavano
rumorosamente ed improvvisi quando, alla
svolta con la via del Sale, rompevano tutti
insieme la regola del silenzio che li aveva
tenuti muti fin dalla lontana via per Milano,
dove era il loro istituto. IO non so dire
quanti fossero, certamente tanti, tantissimi.
Avanzavano per la strada alzaia divisi in
tre distinti plotoni, intercalati da uno
spazio vuoto a rimarcare la diversa età anagrafica
degli allievi che li componevano. Camminavano
sul lato sinistro della strada, in fregio
alla siepe che delimitava l’area delle “colonie
padane”, sulla quale fiorivano delle bacche
rosse che alcuni di noi mangiavano. Neri
nelle loro divise che tutto coprivano, giacca
abbottonata al collo con pantaloni lunghi
per i più piccoli e tonaca per i grandi,
erano quanto di più diverso da noi si potesse
immaginare. Noi, che da porta PO, arrivavamo
a quel posto già scalzi e con quasi tutti
i vestiti in mano.
. Non so dire se i seminaristi, passando,
per non incorrere almeno in uno dei sette
vizi capitali distogliessero lo sguardo e
mormorassero preghiere, ma almeno un paio
dei loro accompagnatori, tenendosi il lembo
della tonaca e con passo affrettato immancabilmente
percorrevano il sentiero che discendeva la
scarpa dell’argine e s’imboccava con il ponticello
di legno. Questo sovrapassava “la mànega”,come
noi e quelli di porta PO chiamavamo il tratto
d’acqua che separava la strada alzaia dai
boschi spontanei e dall’arenile. “ I préet!
i préet !” urlavano i primi di noi che li
avevano visti ed era una divertita corsa
generale verso il bosco dei salici.
Questo non succedeva alle lanche del Boscone
dove non passava mai nessuno e potevamo starcene
tranquillamente nudi sdraiati al sole, come
in quel pomeriggio.
Dopo il bagno ci eravamo stesi al sole. Non
so dire il tempo che rimasi supino, con gli
occhi chiusi per proteggermi dalla gran luce.
Quando mi rigirai e potei vedere, i corpi
dei ragazzi quasi facevano cerchio. Roberto,
seduto, con una mano palpeggiava fra le gambe
il ragazzo che gli stava sdraiato vicino.
Teneva la testa leggermente reclinata, gli
occhi che sembravano sorridere compiaciuti
fissi a guardare il lento alternato movimento
del suo pugno. Guardai come gli altri incuriosito,
al primo stupore subentrò il piacere che
pareva volermi adescare ed invitarmi partecipe.
Non vinsi la timidezza ne il timore che m’incuteva
l’angelo custode, misterioso guardone inseguitore
e delatore sempre presente; nessuno mi aiutò.
Incuriositi rimanemmo tutti a guardare, scambiandoci
occhiate interrogative e tirati sorrisi.
Roberto, con le gambe distese in avanti e
il braccio sinistro fortemente puntellato
nel terreno, si reggeva il tronco per evitare
che l’accentuata inclinazione lo facesse
cadere all’indietro. Lui traeva piacere da
quell’esercizio, lo si capiva dal suo sguardo
dolce quando per brevi attimi lo dirigeva
verso di noi. Erano fugaci, consapevoli,rapidissimi
stacchi che incrociavano i nostri sguardi,
riversandovi un po’ della sua voluttà e,
forse, cercandone complice consenso. Distese
il corpo appoggiandosi al gomito e avvicinando
la faccia al pube dell’amico quasi volesse
incontrarlo. Senza fermare il movimento o
alterare la stretta della mano, tornò a raccogliersi
solamente sull’intimo e sereno andare e venire
del suo pugno dal quale ritmicamente emergeva
e si rituffava, timida, la parte del corpo
dell’amico. Roberto assaporava il piacere
di Gigi, se ne impadroniva facendolo anche
suo ed il corpo alzava, tesa, la parte più
intima. Si mosse con la gamba fino ad incontrare
la mano che l’amico teneva stesa lungo il
corpo, con la coscia la strinse contro la
coscia di lui mandandogli un messaggio. Gigi
non capì o non volle capire. Roberto lasciò
l’amico, con la mano liberata si tocco e
si avvolse il piccolo coso erto sorto fra
le sue gambe. Gigi lo rivolle per sé, con
atto più d’imperio che di preghiera l’afferrò,
lo tirò per il polso che non oppose resistenza
e la mano docile di Roberto tornò al suo
ritmico movimento.
Ci distolse, improvvisa, la voce di Leo:
“cosa state facendo ?”urlò. Gigi fu rapido
nella risposta: “io…niente!”. Ritrasse velocemente
le gambe, si rannicchiò, piegò e si abbracciò
le ginocchia appoggiandovi il mento spargendo
intorno un sorriso furbastro ed ipocrita.
Roberto reagì dignitoso. Non si ripiegò su
se stesso né assunse atteggiamento di passiva
difesa. Si alzò con la rapidità di uno sparo.
Nudo in piedi, serio e sereno come un guerriero
buono, resse gli sguardi dei ragazzi e gli
occhi accusatori di Leo. Vincendo il disagio
che gli provocava la leggera balbuzie, disse:
“ Che cosa c’è di male?”, ci incalzò ripetendo
la domanda: “ditemi che cosa ho fatto di
male”!. Attese una nostra risposta che non
venne. Mite, sembrò giganteggiare su tutti
noi. La magia di quel pomeriggio era ormai
rotta, qualcuno guardò le ombre che i due
bastoncini proiettavano sulla rudimentale
meridiana disegnata nella sabbia, cominciò
a rivestirsi. Scavalcammo in fila indiana
la sommità del grande argine oltre il quale
il sentiero s’allargava passando fra i rustici
della cascina”Boscone”. I cani annusarono
da lontano la nostra presenza, il loro abbaiare
ci venne incontro accompagnandoci ben oltre
il casotto che era stato la polveriera dell’armaiolo
Galli. Ed è ancora lì il casotto, dove l’argine
piega leggermente verso sinistra e pare sdoppiarsi
in un percorso che segue lo scorrere dell’acqua
relitta e l’altro che va per campi verso
la cascina Boscone. Abbandonata è ancora
lì, dall’altra parte del Morbasco, anche
quella che al tempo mi sembrava una torre
quasi di fortezza. LI collocavo, l’uno e
l’altra, all’interno dei racconti di quei
giorni che narravano di tedeschi in ritirata
e del loro fortunoso attraversamento del
PO, contrastati da partigiani del nostro
quartiere in luoghi che mi sforzavo di individuare.
Così l’argine, la torre (che altro non era
che il modesto alloggiamento degli impianti
irrigui del “sollevamento Ghisleri”), il
casotto delle polveri dell’armaiuolo, il
tracciato dei fossi e le bassure ed i rialti
del terreno diventavano nel mio sforzo fantastico
i luoghi dei contrasti e degli scontri. Quel
pomeriggio di ritorno dalle lanche del Boscone,
camminavamo, come era nostra abitudine e
per facilitare la comune conversazione, più
o meno allineati in un'unica fila occupando
tutta la larghezza della strada che era,
ed è ancora, anche l’argine del MOrbasco.
Gigi e Rico,parlando fra loro, accorciarono
il passo, rimasero un tantino indietro, continuarono
a seguirci. Anche Leo rallentò, poi gli altri
due e tutti fecero gruppo con i primi. IO
rimasi con Roberto ed insieme affrettammo
la marcia aumentando la distanza dagli altri.
Passammo la “Cascinetta”, che aveva la concimaia
proprio a lato della strada ed il suo odore
forte era lo stesso, a me familiare, di Terra
Amata. Passammo il luogo dove sorse la prima
fabbrica cremonese del ghiaccio con gli enormi
platani superstiti. Non ci fermammo, come
era d’abitudine, a rinfrescarci nell’acqua
veloce del canale adduttore della turbina
dove, dopo il lavoro, con sapone da bucato
ed asciugamani, venivano a lavarsi anche
gli operai della vicina fornace ( “a tergere
il nobile sudor” mi verrebbe da dire). Non
parlammo degli eventi di quel pomeriggio,
forse non parlammo affatto, fino all’incrocio
con via del Giordano dove le nostre strade
divergevano. Roberto non si fece più vedere
nel nostro angolo di via Bissolati, noi non
parlammo più di lui. Erano gli ultimi giorni
di settembre, in un’ora insolita per le visite
degli amici, dal cortile della casa dove
abitavo mi sentii chiamare. Roberto con il
braccio mi fece cenno di scendere. Era venuto
a salutarmi. L’onda lunga di quel 25 aprile
aveva travolto anche la sua famiglia costringendola
a dividersi; il padre, da quel giorno, si
era rifugiato da amici in una località del
lago di Garda dove durante la republichetta
aveva svolto qualche marginale incarico.
La madre si era messa con un tale che faceva
il calzolaio, si chiamava “Turiddu” e sparì
con lui. Loro, Roberto ed il fratello, sarebbero
partiti il giorno dopo per Genova ospiti
di chissà quali parenti. Non volle avventurarsi
a fare un giro nella strada né rivedere l’angolo
dove ci si incontrava. Rimanemmo a parlare
nel piccolo corridoio fra il cortile e la
porta d’ingresso dalla strada. Si ricordò
di quel pomeriggio e dei ragazzi, li nominò
tutti senza dimenticare Leo, mi lasciò l’incarico
di salutarli. “Adesso vado” disse, l’accompagnai
fino al marciapiede. MI salutò senza parole
dandomi, con il pugno, un leggero confidenziale
colpo alla spalla. Sorrise e svelto andò
via così, per sempre.
Ennio Serventi
 
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