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15 Settembre, 2002
Lettera aperta ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil Cremona sui temi del welfare locale
a cura della commissione welfare-sanità dell'Ulivo Cremonese

COMMISSIONE WELFARE-SANITA' DELL'ULIVO CREMONESE
Via Beltrami, 18 - 26100 Cremona
Ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil Cremona
-Massimiliano Dolci Cgil
-Mario Daina Cisl
-Mino Grossi Uil
Cremona 6 febbraio 2004
Ogg. Trasmissione lettera aperta
Cari Amici,
con riferimento al vostro documento“Per un welfare cremonese, fortemente solidaristico e responsabile” ed agli incontri e contatti intervenuti , in allegato trasmetto :
· lettera aperta sui temi del welfare locale
· alcune riflessioni di accompagnamento.

Nell’augurarvi buon lavoro siamo convinti che il confronto di idee che si svilupperà a partire dal vostro documento sia di ottimo auspicio rispetto a comuni iniziative, nel rispetto delle reciproche autonomie, che saremo chiamati ad affrontare per lo sviluppo del welfare locale.
Cordialmente

p.la COMMISSIONE
WELFARE-SANITA' DELL'ULIVO CREMONESE
Gian Carlo Storti
--------------------------------------------

Lettera aperta ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil Cremona sui temi del welfare locale

La Commissione Welfare-Sanità dell’Ulivo Cremonese valuta positivamente il documento dei sindacati confederali “Per un welfare cremonese, fortemente solidaristico e responsabile” in quanto non solo affronta efficacemente tematiche cruciali per tutti i cittadini, ma anche manifesta la volontà unitaria di approfondirle e di tradurle in strategie concrete sul piano territoriale. Inoltre, su molti e fondamentali punti condividiamo l’esame della situazione socio-economica e politica, a partire dal giudizio negativo sulle scelte politiche oggi attuate da chi ci governa a livello nazionale e regionale.
Con questa lettera aperta, oltre a confrontarci sui temi di più diretto riferimento all’agenda politica e sindacale locale, abbiamo voluto anche sviluppare (si vedano le pagine qui allegate) alcuni punti generali della vostra elaborazione, al fine di armonizzare strategie e iniziative che, nel pieno rispetto delle rispettive identità, si possono attuare nella nostra realtà territoriale.
In primo luogo, la nostra riflessione focalizza la problematica del welfare alla luce dei grandi (e preoccupanti) processi dell’economia e del lavoro. Vulnerabilità economica e sociale, dinamiche e rischi di esclusione, difficoltà a darsi progetti di vita, hanno sempre più a che fare con gli attuali negativi processi economici, con la sfiducia in chi ci governa e in un mercato lasciato senza regole e controlli. La frammentazione e l’insicurezza sociale hanno sempre più a che fare anche con il lavoro oggi, con la tendenziale perdita della sua centralità politica e sociale e con le sue nuove dinamiche: la perdita del lavoro, la disoccupazione e la condizione di endemica precarietà, logorano status e relazioni sociali, favoriscono in ampie fasce di popolazione disagio, marginalità, “ cronicità”.
Un altro grande fattore da approfondire riguarda l’aumento enorme delle persone non autosufficienti o fragili. Nel passato questa condizione riguardava una parte limitata e prevedibile di popolazione, al punto che il sistema assicurativo poteva quantificarne e sopportarne l’onere per la collettività. Oggi non è più così, e milioni di persone sono in crescente difficoltà, tanto più è molto più debole la possibilità di assistenza delle famiglie e delle reti di prossimità. Anche l’organizzazione dei servizi socio-sanitari del welfare tradizionale è, ovunque e da decenni, in forte difficoltà in fatto di costi, efficienza, flessibilità, corrispondenza a bisogni sempre più variegati e complessi, disponibilità al cambiamento.
Sarebbe pertanto sbagliato attardarci a difendere le modalità con le quali il tradizionale welfare, i cui aspetti positivi vanno riconosciuti e salvaguardati, tendeva a soddisfare domande “tradizionali”. Tanto per fare subito un esempio: è impossibile pensare di rispondere ai bisogni dei nostri due milioni di anziani in difficoltà (ai quali vanno aggiunte le tante altre persone fragili), usando solo gli stretti criteri del welfare tradizionale.
Ma se è vero che il tradizionale welfare era già in crisi da decenni, è anche vero che non sempre le strategie per riformarlo sono da considerare valide. La soluzione più enfatizzata, quella “deregolativa”, ha messo confusamente insieme processi validi e innovativi ad altri di segno opposto, i quali soprattutto oggi tendono a prevalere. Come anche voi con forza denunciate, le politiche del governo hanno risposto ai problemi del welfare minacciando le sue fondamenta, a partire dal principio dell’universalità dei diritti: esso stabilisce che le situazioni di povertà, esclusione, marginalità debbano essere prevenute e corrette, e che è il repertorio dei diritti sociali a definire in buona sostanza gli stessi compiti delle istituzioni e dei soggetti sociali.
Condividiamo un’altra tesi centrale del vostro documento: lo Stato va inteso come perno nella costruzione di politiche sociali. Il compito fondamentale dell’istituzione pubblica oggi, oltre alla riqualificazione dei suoi servizi, riguarda la definizione delle complessive politiche sociali; la regia dell’azione di cura, di assistenza e di protezione sociale dei vari attori, pubblici, di mercato, di terzo settore; la crescita della domanda sociale, delle reti di accesso.
Questa funzione del soggetto pubblico è resa ancor più necessaria dalle prorompenti novità costituite dal principio di sussidiarietà previsto dalla nostra legislazione e garantito da un nuovo articolo della Costituzione. Al contrario di chi ci governa a livello nazionale e regionale, che la concepisce soprattutto come deresponsabilizzazione dello Stato praticata attraverso la privatizzazione o la mera aziendalizzazione del pubblico, noi riteniamo la sussidiarietà fondata sull’impegno dello Stato a garantire legami di reciprocità tra attori istituzionali e attori sociali. Sotto questo aspetto, come indica anche la legge 238/2000 che ha riformato il sistema socio-assistenziale, i cittadini e le loro realtà associative, a partire dai sindacati, sono chiamati ad assolvere funzioni pubbliche quando sono impegnati in azioni partecipative e di solidarietà e quando la loro attività è ritenuta finalizzata al bene comune.
Con questa visuale va affrontata il tema del “terzo settore (volontariato, associazionismo, cooperazione sociale) e della sua effettiva e potenziale capacità di realizzare a livello diffuso feconde esperienze di “cittadinanza attiva”.
Non c’è dubbio che anche il sindacato, secondo la sua specifica identità e forma organizzativa, svolge una (preziosa) funzione di “cittadinanza attiva”, che presenta in larga misura contenuti e obiettivi vicini a quelli che ispirano tanti soggetti del terzo settore. Da qui, si impone la necessità di migliori relazioni e azioni comuni fra questi due grandi attori sociali.
Reimpostare le relazioni del sindacato con gli altri attori sociali a livello locale costituisce uno dei punti aperti più propulsivi ed insieme problematici per il prossimo futuro, così come quello di rafforzare e innovare il rapporto delle forze sociali con le istituzioni locali, a partire dalla effettiva partecipazione alla lettura dei bisogni sociali e alla costruzione dei piani socio-assistenziali di zona.
Su un altro punto centrale concordiamo: il welfare locale dei servizi è la nuova frontiera del welfare. Si tratta di una prospettiva che di certo non vuole esaltare il localismo angusto e la confusione dei poteri, dei compiti, la frammentazione dei vari ambiti e livelli dello stato, del sociale, del privato. Essa rimanda alla politica nazionale ed insieme a quella territoriale, alle scelte previdenziali, formative, fiscali, urbanistiche, sanitarie, sociali, di genere.
In questo quadro, il modello di welfare assicurativo non è più sufficiente. Per chi ha responsabilità di governo, l’obiettivo di ricostruire relazioni, autonomie e capacità comporta una nuova ottica: basare le tutele sociali sul protagonismo delle persone, sulla qualità di relazioni stabili, sull’integrazione tra pubblico, privato-sociale e volontariato, sulla prossimità e sulla flessibilità, sulle reti, sull’equità e sull’eguaglianza. Un’ottica in contrasto inevitabile con il modello di mercato sociale costruito sulla cieca e anonima transazione cliente/fornitore e sui rapporti di forza che si è in grado di esprimere nella negoziazione.
Il vostro e il nostro modello si chiama invece capitale sociale, che è il prodotto degli scambi tra soggetti, individuali e collettivi che creano, mettono in campo risorse e conoscenze, si aiutano, cooperano, si danno fiducia. Il primo riferimento è all’enorme ricchezza esistenziale, economica, sociale, educativa, assistenziale realizzata dalle reti familiari.
Se le dinamiche che si sviluppano spontaneamente nel vivo del corpo sociale generano valore aggiunto e questo valore è essere accumulato e diffuso, abbiamo trovato una nuova ottica per riconsiderare e rendere sostenibile il welfare.
Se bisogna pienamente riconoscere e promuovere il protagonismo dei cittadini che si aiutano, si organizzano, occorre nello stesso tempo evitare una fiducia “magica” nei confronti della comunità civile. Come ottenere risultati virtuosi dalle dinamiche sociali spontanee è proprio il nuovo tema del welfare locale. La politica, le istituzioni, i servizi, possono e devono sostenere queste competenze ed esperienze, stimolando i cittadini a creare reti aperte, a giocare le loro attività in una dimensione comunitaria.
Le scelte politiche del governo nazionale e regionale non solo riducono in modo drastico le risorse per le politiche sociali, ma rinviano le politiche sociali alla centralità del mercato e delle sue logiche di profitto (per pochi) e a una dimensione privata e familistica (si veda fra l’altro il proliferare di bonus economici, per altro sempre meno adeguati, sostitutivi dei servizi) configurante una forma di sussidiarietà in buona sostanza alternativa all’intervento pubblico.
In questo modo non solo si riducono le possibilità di risposta ai bisogni sociali, ma si caricano sulle spalle dei cittadini responsabilità e oneri finanziari sempre più pesanti, penalizzando sopratutto le persone più povere e meno capaci di orientarsi nel campo delle prestazioni e dei servizi socio-sanitari.
Di fronte a questo quadro generale, con voi riteniamo che oggi sia necessario unire tutte le forze disponibili per costruire una piattaforma di obiettivi in grado di alimentare strategie d’azione concrete sul piano del welfare locale.
Il tema è enorme, ma possiamo partire da alcune priorità strategiche. La prima: non serve una mera aggiunta quantitativa di prestazioni, quanto un modello nuovo in grado di moltiplicare il rendimento delle risorse. Il welfare territoriale non può reggere mantenendo la centralità del servizio a prestazione individuale: richiederebbe un volume enorme di operatori professionali e otterrebbe risultati modesti. Tanto per fare un esempio, la qualità, l’universalità e la sostenibilità dell’assistenza ai vecchi fragili va pensata introducendo un cambiamento di prospettiva: dal singolo individuo alle reti naturali di aiuto; dalla presa in carico alla condivisione delle scelte soggettive e alla promozione; dalla prestazione professionale al capitale sociale. Un’ottica che chiama alla trasformazione tutti i servizi sociali, sanitari, educativi, culturali. Gli operatori in primo luogo sono chiamati a innovare le loro culture, ma a guidare il passaggio al nuovo deve essere la politica.
Nel nostro documento di riflessione, abbiamo prestato particolare attenzione al tema della famiglia. Non vogliamo il riconoscimento retorico del suo valore, che spesso serve da alibi per gravarla ulteriormente di solitudine e di compiti, ma effettive occasioni affinché la famiglia sempre meno sia semplice destinataria indiretta di servizi rivolti a specifiche categorie di utenti (anziani, minori, disabili, ecc.), e sempre più co-protagonista dell’attività di cura e di assistenza.
Inoltre, proponiamo come decisiva la necessità di rinnovare, valorizzare e riqualificare il grande, ricco ed insieme contraddittorio quadro della cura e dell’assistenza privata, che vede impegnati una varietà molteplice di soggetti, da quelli delle reti familiari e di volontariato, agli operatori individuali retribuiti, fra cui le assistenti familiari straniere (le cosiddette “badanti”), delle quali continuiamo a sottovalutare la grande, feconda ed insieme problematica funzione (in Italia, quelle regolari sono più di 400 mila).
La terza focalizzazione riguarda un irrinunciabile obiettivo: l’integrazione fra gli ambiti e i servizi istituzionali, così come tra i soggetti che sono a vario titolo impegnati nel lavoro di cura e di assistenza. Si parla continuamente di rete, che esprime l’idea e la strategia di collaborazione tra i soggetti istituzionali e sociali, e tra i servizi: ma la sua traduzione in realtà è ancora molto difficile (la prova più immediata ci viene dalla perdurante difficoltà a far collaborare i servizi sociali e sanitari: si pensi solo ai rapporti tra Sad e Adi).
Senza pretendere di esaurire una problematica così complessa, ci pare che il primo obiettivo del welfare territoriale sia quello della domiciliarità, intendendola come un progetto culturale e politico ben più ampio del semplice favorire la permanenza a domicilio dei soggetti anziani o in perdita di autonomia: è il collegamento delle persone, delle famiglie, delle varie reti comunitarie alla globalità del contesto territoriale, dalla famiglia alla comunità locale, in cui i soggetti sono inseriti. La dimensione della domiciliarità richiede un nuovo protagonismo e impegno delle forze sociali, e di istituzioni e di servizi che sappiano progettare e guidare i processi, osservare e capire che cosa succede dentro e fuori di loro.
Se l’idea di domiciliarità rafforza l’attenzione al territorio e alla comunità, rimane però il rischio che sia pensata unicamente dal lato delle soluzioni organizzative. Ma queste, come ad esempio i supporti economici e di sollievo, non sono sufficienti per realizzare quella cultura della domiciliarità diffusa che serva da perno per il rinnovamento dell’intero sistema di welfare territoriale. La domiciliarità sollecita non solo cambiamenti organizzativi, quanto soprattutto un cambiamento di lettura della realtà e della più tradizionale impostazione del rapporto servizio-utente, suggerendo uno sguardo più attento alle persona, alla sua famiglia, ai luoghi, ai tempi e alle relazioni in cui si dà la sua vita.

I temi più immediati del welfare cremonese

Affidando al documento che accompagna questa nostra “lettera aperta” il compito di meglio illustrare queste riflessioni, ci soffermiamo su alcuni temi e obiettivi di più immediata utilità..
§ Riteniamo principio irrinunciabile che sia il sistema pubblico a configurare i parametri ispiratori e i criteri regolatori delle prestazioni assistenziali di base (Lea nella sanità; Leas nel sociale) e a garantire la loro giusta applicazione a tutti i livelli e ambiti, attuata in un sistema che valorizzi e ponga in sinergia pubblico e privato.
§ La differenza di valutazione che abbiamo riscontrato a proposito della applicazione della legge regionale sulla trasformazione delle Ipab, non ci impedisce ora di lavorare per obiettivi comuni che siano a vantaggio delle comunità locali e in particolare di quella parte della popolazione non autosufficiente oggi più indifesa. Dobbiamo ripartire dalla durezza dei dati oggettivi: il taglio di circa 300 posti letto nelle Rsa della provincia di Cremona ha messo a dura prova il sistema, obbligando tutti, in particolare gli enti locali, a mettere in discussione i modelli organizzativi. Tuttavia, ci sembra che sia stata complessivamente ribadita la necessità e la centralità della presenza “pubblica” nel governo del sistema. Per questo riteniamo che la scelta di trasformare le ex Ipab costituendo Fondazioni o Asp o Aziende Speciali (come per il Comune di Cremona), faccia parte in ultima analisi di un unico disegno che vuole mantenere al centro le comunità locali e le loro istituzioni nella gestione del welfare. Pensiamo che si sia vanificata così l’opzione Regione Lombardia di espropriare le comunità locali di beni, di compiti e di funzioni che invece sono di loro primaria competenza.
In questo ordine di ragionamenti, riteniamo discutibile il duro giudizio del vostro documento sulla cosiddetta “privatizzazione“ delle ex Ipab. In primo luogo, non si è trattato di “privatizzazione” (l’affidare cioè ad un terzo soggetto, appunto privato, la gestione e le scelte) ma di “depublicizzazione” di un sistema che resta senz’altro incernierato nel contesto pubblico (il ruolo dei Comuni). Per quanto riguarda altri seri e condivisibili motivi di preoccupazione, nell’impegnarci a mantenere alta la vigilanza e la pressione, non ci sembra di dover registrare in questa fase tentativi di rimettere in discussione quanto formalmente pattuito e stabilito riguardo al mantenimento dei diritti degli operatori delle ex Ipab. Inoltre, gli stessi utenti non hanno visto significative diminuzione delle prestazioni loro dirette, e se ciò si registra, pare dipendere da dinamiche che non concernono la nuova identità giuridica. Infine, possiamo sostenere che in buona sostanza il sistema appare ancora oggi in equilibrio e che questo è anche il risultato del non allentamento dell’attenzione e dell’impegno da parte degli Enti locali, dei Sindaci.
§ Anche ma non solo per queste ragioni appare assolutamente necessario costruire un “patto politico” per lo sviluppo del welfare locale che veda sullo stesso fronte le Organizzazioni Sindacali ed i Comuni contro una Regione ed un Governo Nazionale che sempre di più sviliscono in risorse e in possibilità di azione il livello territoriale. Di fronte a questa così come a tante altre motivazioni, non appare perseguibile, in sede locale, l’obiettivo di aumentare le risorse facendo leva sull’addizionale Irpef locale. Individuare l’ente locale come la controparte significa non solo assolvere i governi nazionali e regionali delle loro scelte sbagliate ma aprire un contenzioso in sede locale che porterà inevitabilmente alla guerra “fra poveri”, allontanando per tutti la risoluzione dei problemi. Fondamentale è invece perseguire quella politica di progettazione e di coesione sociale che veda nel livello distrettuale la forma di aggregazione più consona a scelte di programmazione, e nella Provincia lo strumento più adeguato per svolgere un ruolo progettuale, propositivo e di coordinamento.
Sui temi posti nel capitolo sull’assistenza alcune rapide considerazioni:
o Si condivide la necessità di applicare il sistema Isee per i costi alberghieri relativi al ricovero in Rsa nella consapevolezza che oggi il problema appare quello di una vasta e diffusa incapacità del sistema familiare farsi carico dei costi: ne é una prova l’aumento degli stanziamenti dei comuni verso un numero crescente di famiglie sempre più in difficoltà;
o Sulle rette va rivendicato un maggiore stanziamento da parte della Regione della quota sanitaria ancora oggi non adeguata alla copertura della spesa;
o Le scelte tese a diminuire il ricovero in Rsa pone e porrà nel futuro gli enti gestori a razionalizzare i posti letto con una tendenza alla loro diminuzione;
o Si conviene sulla necessità che i meccanismi atti alla definizione delle liste di attesa per le Rsa vadano meglio affinati sia sul piano sociale che economico; da questa responsabilità, l’Asl non può in ogni caso chiamarsi fuori, come invece cerca di fare;
o Il problema dei volumi di posti letto accreditati si acuirà fra breve, quando l’Asl chiamerà gli enti gestori delle Rsa a definire i nuovi contratti sia per volume che per numero; appare impraticabile l’idea di non gestire alcuni posti letto con la spesa totale a carico delle famiglie; se il meccanismo per l’ingresso nelle Rsa va assolutamente affinato per evitare i disguidi dell’oggi, va assunto anche il fatto che non tutti, rispetto alle risorse disponibili, hanno diritto ad entrare in Rsa con spesa sanitaria a carico della comunità.
o Va condotta una forte iniziativa per eliminare le liste di attesa garantendo a tutti gli aventi diritti l’ingresso nelle Rsa
Sulla sanità
o Certamente le scelte regionali sulla sanità la stanno indebolendo; le decisioni della regione sui ticket sanitari sono una prova della incapacità di governo in questo settore fondamentale; oggi siamo in una fase nella quale, per effetto dei budget di spesa, i ricoveri sono ritardati e le uscite dall’ospedale anticipate; si crea così un’area grigia, di malessere sociale nella quale non si sono strutture adeguate a dare risposte;
o Su questo versante vanno intensificati gli stanziamenti dell’Asl a favore del territorio sul versante dei voucher relativi all’Adi;
o Importante è anche un ruolo attivo degli enti locali per regolamentare l’apporto delle “badanti” (più di mille nella nostra provincia): una risorsa da intendere come una possibilità di nuovi parameri per la cure familiari e di nuovi rapporti fra operatori privati e pubblici;
o Da ripensare anche il giudizio sullo scarso ruolo dei Sindaci sulla tematica sanitaria. Indubbiamente, i nostri Comuni devono alzare la qualità delle loro proposte e programmazioni, così come delle loro prese di posizione sulle politiche regionali (ma a questo proposito dobbiamo considerare la reale dinamica del confronto con la stessa Asl: si ricorda che il bilancio dell’Asl dell’anno scorso, a conferma che i nostri Comuni hanno espresso un giudizio negativo sul suo operato, è stato bocciato dall’Assemblea dei sindaci). Considerando le vostre e le nostre visioni, ponendole in relazione con quelle dei Comuni, si aprono tutte le premesse, al di là dei reciproci rilievi critici e dell’autonomia delle posizioni, per realizzare rapporti ancora più aperti, produttivi e incardinati su valori, prospettive e obiettivi fortemente comuni.
o Si condivide la necessità di riqualificare la struttura ospedaliera di Soresina.
Sulla famiglia
o Condividiamo ovviamente che fondamentale è il ruolo propositivo degli Enti Locali, nel senso che i futuri programmi dovranno essere lo sviluppo conseguente e innovativo delle scelte volte in questi anni a rafforzare il sostegno alle vecchie e nuove forme familiari.
Infine il documento affronta altri temi importanti quali quello dei trasporti, della casa, della scuola e delle risorse umane, sui quali è utile sviluppare un confronto teso a costruire momenti di ulteriore intesa programmatica.
Per concludere l’Ulivo Cremonese ribadisce il suo giudizio positivo al documento, che favorisce ulteriori momenti di confronto e di incontro affinché, sul piano locale, siano possibili accordi programmatici fra Organizzazioni Sindacali ed Enti Locali con l’obiettivo centrale di impedire non solo il decadimento del welfare locale ma di favorire un suo ulteriore sviluppo.



Riflessioni di accompagnamento alla ”Lettera aperta” ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil sui temi del welfare c remonese

Il primo punto di approfondimento propone di collegare ad ogni livello la problematica del welfare agli effetti prodotti dai processi dell’economia e del lavoro sulle sicurezze e relazioni sociali. Un primo esempio: avvenimenti attuali come la bancarotta di grandi imprese accrescono ancora di più e a tutti i livelli la vulnerabilità economica, ma anche quella sociale, dato che si offusca la speranza di potersi dare propri progetti di vita e che cresce la sfiducia nei governanti, nelle istituzioni e nelle mirabili virtù del mercato lasciato libero da regole e controlli.
Tutto questo conferma che il destino sociale continua ad essere strutturato attorno alle grandi questioni del lavoro. Emerge con evidenza che il cambiamento delle condizioni di lavoro o la perdita del lavoro o l‘impossibilità ad entrare nel mercato del lavoro o ad entrarvi in situazioni di endemica precarietà, si legano alla rottura di significative relazioni umane e sociali e poi a situazioni di cronicità. La “balcanizzazione” delle forme di lavoro, il moltiplicarsi di forme che stanno tra lavoro e non lavoro, stabilità e precarietà, configurano un nuovo tipo di rischio, il rischio/esclusione, che innesca e amplifica forme antiche e nuove di vulnerabilità sociale per intere fasce sociali, che prima si sentivano garantite; rischio che non tocca solo il lavoratore generico, ma anche il lavoratore in possesso di un’alta qualificazione, che in tempi brevi può diventare obsoleta.
In tutta Europa sono soprattutto le fasce dei 50-sessantenni, specie se di bassa istruzione e qualifica, a rischiare il lento passaggio alla marginalità; inoltre, la precarizzazione del lavoro, specialmente tra i giovani, ha raggiunto ovunque percentuali assai alte: se si è ancora un lavoratore atipico o precario a 35-36 anni, le probabilità di restare “intrappolato” per la vita in questa condizioni è altissima; per tutte le età, poi, per la donna aumentano ulteriormente le difficoltà.
Il processo, inoltre, cammina di pari passo con una tendenziale perdita di centralità del lavoro, di riduzione della potenza politica e sociale del lavoro, che ha rilevanti conseguenze anche sul piano delle risorse del sistema previdenziale, posto in difficoltà dal limitato numero di occupati stabili e quindi dalla riduzione crescente dei versamenti contributivi degli occupati a favore delle pensioni e delle prestazioni di sicurezza sociale per le precedenti generazioni.
La seconda grande questione del welfare è quella che anche il vostro documento bene sottolinea: l’aumento enorme delle persone non autosufficienti o sulla via della non autosufficienza, cioè in condizioni di vita precarie relativamente alla malattia, alla vecchiaia, alla marginalità. Nel passato queste condizioni toccavano una parte limitata e prevedibile di popolazione, al punto che il sistema assicurativo poteva quantificarne e sopportarne il costo e l’onere per la collettività. Il welfare che si è diffuso in Europa, fino a qualche decennio fa poteva in ultima analisi considerare la vecchiaia, la malattia, l’invalidità, come problemi seri ma sostanzialmente residuali. Dalla malattia, in effetti, si usciva in un tempo relativamente limitato: si guariva o si moriva, non era dato un terzo esito che comportasse la permanenza sine die dallo stato di malato, mentre oggi esistono sempre più spesso patologie (ictus, diabete, tumori, ecc.) che, una volta superata la fase critica, lasciano comunque in una situazione prolungata, se non permanente, di dipendenza socio-sanitaria.
Anche la vecchiaia era, almeno in una certa misura, una specie di “accidente”, sia perché pochi, rispetto, ad oggi, diventavano vecchi, sia perché era vista essenzialmente come una perdita del salario, sia perché la sua copertura assicurativa riguardava, tutto sommato, un numero limitato di anni.
In linea generale, poi, le persone fragili potevano ricevere molta più cura dalle famiglie, che ad esempio avevano più figli in grado di dividersi l’assistenza ai disabili e agli anziani, e anche dalle reti informali di prossimità (parentela allargata, vicinato, ecc.).
Ora le inedite condizioni e i nuovi bisogni delle società rendono i sistemi assicurativi insufficienti e incapaci di rispondere alle nuove domande di protezione sociale, cosa che del resto può essere detta anche a proposito dei tradizionali servizi di cura, a partire da quelli delle istituzioni residenziali, in difficoltà crescenti sia sul piano dei costi, sia su quello della corrispondenza ai sempre più gravi e diversificati bisogni esistenziali e sociali.
Non possiamo pertanto attardarci a difendere il modo con cui il tradizionale welfare tendeva a soddisfare domande “tradizionali”: un sistema che ad esempio in Italia ha sempre privilegiato nettamente i trasferimenti monetari di tipo previdenziale, così come la cura “riparatoria” (la sanitaria, l’ospedalizzazione, il ricovero), mettendo in secondo piano la rimozione di ciò che provoca disagio, malattia, sofferenza, ed anche le forme di accudimento-riabilitazione-cura volte al mantenimento del potenziale di autonomia di tante persone, nonché a scapito della crescita complessiva delle qualità di vita, delle capacità della persona, del gruppo, di fare da sé, di darsi un progetto esistenziale.
Anche la gestione statale dei servizi, funzionale a quel modello di welfare e per molto tempo in grado di dare risposte positive, negli ultimi decenni ha mostrato ovunque in Europa crescenti difficoltà in fatto di efficienza, efficacia, flessibilità. Le strutture pubbliche, che per necessità di cose mirano a prestazioni-standard (spesso di basso livello), trovano difficile corrispondere ad un campo di bisogni enormemente più complesso, mutevole e di diritti per certi punti di vista insoddisfatti. Inoltre, oggi una autentica cultura del bisogno e della risposta al bisogno è imperniata su elementi (l’apertura e la disponibilità al cambiamento; la capacità di stimolare la motivazione etica degli operatori del servizio e del servizio stesso inteso come sistema; la contestualizzazione della risposta, la personalizzazione dell’intervento, la centralità del bene relazionale, il coinvolgimento diretto dei beneficiari) che trovano notevoli e particolari difficoltà ad incardinare la missione della macchina pubblica.
Se è vero che il tradizionale welfare era già in crisi da decenni – soprattutto per l’insufficienza dei suoi meccanismi a contenere potenzialità e domande delle società contemporanee e in seguito alla crescente constatazione che alla titolarità dei diritti non sempre corrisponde l’effettivo godimento di essi, anche per il solo fatto che ciò richiede risorse sempre più crescenti, alla lunga, insostenibili –, è anche vero che non sempre le strategie per riformarlo messe in atto negli anni recenti sono state valide.
Ad esempio, abbiano visto una fase, quella “deregolativa”, in cui si è fatto ricorso alle più intricate e confuse miscele di risorse per politiche pubbliche, mettendo insieme processi validi e innovativi ad altri di segno opposto. Oggi poi, come lo stesso vostro documento ha con forza denunciato, le politiche del governo hanno risposto agli oggettivi problemi del welfare addirittura mettendo sotto vari aspetti in discussione i suoi capisaldi, a partire dal principio dell’universalità dei diritti.
Si tratta di un principio che oggi deve essere declinato in modo innovativo, dato che, come abbiamo già visto, il modello tradizionale provoca spesso enormi ritardi nell’adattamento degli interventi agli imperativi e alle priorità del momento, rivelando crescenti difficoltà nel dare risposte adeguate a bisogni sempre più articolati, “soggettivi” delle persone e dei gruppi. Persone e gruppi, poi, che non sono tutti in modo uguale esposti alle stesse difficoltà, ai medesimi “rischi” e non dispongono in modo uguale di risorse, di opportunità di vita, di autonomia e di crescita.
Tuttavia, il principio mantiene ferma una sua valenza irrinunciabile: nei regimi democratici le situazioni di povertà, esclusione, marginalità debbano essere prevenute e corrette, ed è il catalogo dei diritti sociali a definire quelli che saranno i compiti delle istituzioni e dei soggetti sociali.
Su un’altra proposizioni fondamentale del vostro documento concordiamo pienamente: anche per noi lo Stato va inteso come perno, come istanza imprescindibile nella costruzione di politiche sociali. Non è un caso che sul ruolo dello Stato come stratega, si appunta l’offensiva della destra, anche per liberare il terreno dall’ostacolo principale verso un modello sociale di filantropia compassionevole che ben si sposa con gli interessi di un mercato che privilegia gli interessi di profitto.
Il compito fondamentale dell’istituzione pubblica oggi, oltre al rafforzamento e alla riqualificazione dei servizi che è bene restino pubblici, riguarda soprattutto la configurazione delle complessive politiche sociali; l’integrazione e la regia dell’azione dei vari attori, pubblici, di mercato e di terzo settore, variamente impegnati nel lavoro di cura, di assistenza e di protezione sociale; la responsabilità della complessa programmazione socio-sanitaria ai vari livelli; la crescita della domanda sociale, delle concrete possibilità e reti di accesso.
Questa funzione del soggetto pubblico è resa ancor più necessaria dalle prorompenti novità costituite dai principi di sussidiarietà verticale (nuova dislocazione delle competenze a favore dai livelli istituzionali più vicini ai bisogni e ai cittadini, come gli enti locali) e orizzontale (nuove assegnazioni di compiti e nuove sinergie tra il pubblico e il privato) previsti dalla nostra legislazione e garantiti da un nuovo articolo della Costituzione. Contrariamente a chi ci governa, che concepisce la sussidiarietà orizzontale soprattutto come deresponsabilizzazione dello Stato praticata attraverso la privatizzazione o la mera aziendalizzazione del pubblico, noi riteniamo la sussidiarietà fondata sull’impegno dello Stato a garantire legami di reciprocità tra attori istituzionali e attori sociali. In questa concezione, i cittadini e le loro libere realtà associative, a partire dai sindacati, sono chiamati, come responsabili di azioni partecipative e di solidarietà nella comunità e qualora la loro attività venga riconosciuta come finalizzata al bene comune, ad assolvere funzioni pubbliche. Sotto questo aspetto, come indica anche la legge 328/2000 che ha riformato il sistema socio-sanitario, il concetto di pubblico si dilata fino a ricomprendere, pur nella loro autonomia, i soggetti e le organizzazioni non statuali.
Nella dinamica della sussidiarietà pubblico-privato c’è quindi una manifestazione diretta della accresciuta capacità di iniziativa e di realizzazione delle politiche sociali da parte di gruppi di cittadini. Soprattutto a questo proposito, va affrontata la tematica del volontariato, del terzo settore. La vastissima letteratura su questa tematica, con accentuazioni differenti a seconda dei vari punti di vista teorici, considera tre i fondamentali ruoli che il volontariato già in parte assolve e che è chiamato ad assolvere ancora di più nel futuro: quello di lettura dei bisogni emergenti nella comunità e di anticipazione delle risposte; quello di proposta e di controllo di base delle scelte, dell’azione e dei servizi delle istituzioni; quello di educazione e di promozione della solidarietà sociale di base.
Questa funzione del volontariato, e più in generale dell’associazionismo, della cooperazione sociale – l’insieme del “terzo settore” - viene in genere definita di “cittadinanza attiva”.
Non c’è dubbio che anche il sindacato, secondo la sua specifica identità, modalità e forma organizzativa, svolge queste funzioni di “cittadinanza attiva” e con contenuti, visioni e valori in grande misura vicini a quelli che ispirano buona parte dei soggetti del terzo settore. Da qui, si impone la necessità di migliori relazioni e azioni comuni fra questi due grandi attori sociali: la loro natura autonoma e differente non elimina la necessità di definire le competenze specifiche di ciascun attore e/o di stabilire delle forti esperienze di collaborazione e di partnership in quanto entrambi operano per la solidarietà, la difesa della persona e dei suoi diritti.
Non si tratta tuttavia di un compito agevole. Potremmo anzi dire che la strada delle relazioni con gli altri attori organizzati a livello locale costituisce uno dei punti aperti più problematici per il prossimo futuro. Un punto critico che si aggiunge a quello del come acquisire, valorizzare e trattenere le risorse umane e le competenze indispensabili al funzionamento organizzativo e alla negoziazione sociale. E a quello dei modi più adeguati di rapporto non solo episodico con i rappresentati delle istituzioni pubbliche.
Su questa tematica, anche il vostro documento riflette seriamente sulla difficoltà e sulla contemporanea necessità di un rapporto nuovo e diverso delle forze sociali con quelle delle istituzioni locali, a partire dalla partecipazione effettiva alla lettura dei bisogni sociali e dalla costruzione dei piani socio-assistenziali di zona.
Su un altro punto centrale condividiamo gli spunti del vostro documento: il welfare locale dei servizi è la nuova frontiera del welfare. Ciò non significa esaltare il localismo angusto e la confusione, la frammentazione dei poteri, dei compiti, delle relazioni dei vari ambiti e livelli dello stato e del sociale, del privato. Il welfare locale deve essere profondamente radicato dalle grandi scelte politiche nazionali.
Tutto questo complesso quadro rimanda alla politica e alla sua capacità, ad ogni livello, di mettere in campo scelte formative, fiscali, urbanistiche, sanitarie, sociali, di genere, che assumono con forza l’obiettivo di una concezione globale dei diritti, della cittadinanza fondati non sulla compassione ma sul protagonismo, sulla responsabilità e solidarietà. Ed è in questo quadro che il modello di welfare assicurativo non è più sufficiente e dove l’azione sul territorio assume una particolare importanza. Qui il problema non è solo di risarcire le persone di un danno subito, o di fornire loro integrazioni economiche per i momenti di difficoltà e/o istituti “totali” di cura e di ricovero; si tratta principalmente di aiutarle nella conciliazione di problemi di cura e lavoro complessi, o nel recupero di capacità non solo di reddito, ma anche di relazione e di comunicazione, fino a costruire equilibri e sicurezze perse nel tempo.
Per chi ha responsabilità di governo, l’obiettivo di difendere e ricostruire relazioni, autonomie e capacità comporta un nuovo punto di vista; le domande e i bisogni non sono solo disagi da curare, ma diritti di cittadinanza da riconoscere. Le terapie per i mali sociali devono lasciare lo spazio a strategie di coesione che rendono le persone più consapevoli e attive. L’offerta deve passare progressivamente dall’assistenza alla promozione. Decidere di fondare le tutele sociali sul protagonismo delle persone, sulla qualità di relazioni stabili, sull’integrazione tra pubblico, privato-sociale e volontariato, sulla prossimità e sulla flessibilità, e quindi sulle reti comunitarie, sull’equità e sull’eguaglianza, comporta un contrasto inevitabile con il modello di mercato sociale costruito sulla cieca e anonima oggettività delle transazioni cliente/fornitore e sui rapporti di forza che si è in grado di esprimere nella negoziazione.
Il nuovo modello si chiama invece capitale sociale. Se le dinamiche che si sviluppano spontaneamente nel vivo del corpo sociale generano valore aggiunto e questo valore può essere accumulato e diffuso, abbiamo trovato una nuova ottica per riconsiderare, cambiare e rendere sostenibile il welfare. Il capitale sociale viene concepito come prodotto degli scambi tra soggetti, individuali e collettivi, che producono, mettono in campo risorse e conoscenze, si aiutano, cooperano, si danno fiducia. In questo quadro, è soprattutto la rete familiare ad essere al centro delle analisi, in quanto enorme è la sua capacità di produrre e distribuire ricchezze economiche, istruzione, cultura, alloggio, occasioni di lavoro, protezione materiale e cura. Poi viene il ruolo del vicinato e delle associazioni, così come di tutte le forme gruppali che producono spontaneamente un patrimonio utile e disponibile per la comunità.
Su questo punto, occorre essere chiari: non tutti i modi con cui il capitale sociale si riproduce sono buoni. Una rete chiusa, autocentrata e ostile agli altri esprime una solidarietà che va bene per i soggetti che fanno parte del clan e respinge gli estranei. Inoltre, se dispone di molte risorse, il suo capitale sociale viene riservato ai soli inclusi, ma ciò diventa un danno per la collettività: vediamo sempre più spesso come la ricchezza privata vada di pari passo con povertà pubblica.
Come ottenere risultati virtuosi dalle dinamiche sociali spontanee è il nuovo tema del welfare locale. Occorre valorizzare il più possibile il protagonismo dei cittadini che si aiutano, si organizzano, ma una fiducia “magica” nei confronti della comunità civile è sbagliata e non aiuta a creare efficaci politiche pubbliche. Dobbiamo pertanto cimentarci con altre domande: quali dispositivi pubblici stimolano i cittadini a creare reti aperte? Cosa può attrarre i soggetti isolati a mettersi in sinergia e a giocare le loro attività in una dimensione comunitaria? Come la politica, le istituzioni, i servizi, possono e devono sostenere queste competenze, esperienze? Come questo prendersi cura reciproco si può integrare con le azioni del sistema pubblico?

Alcuni punti fondamentali di un progetto per il welfare cremonese

Le politiche sociali che sempre più apertamente sono proposte dal governo nazionale e regionale tendono di fatto a recidere, in maniera sempre più decisa, le attività di produzione da quelle di riproduzione sociale, e a ricondurre queste ultime a una dimensione sempre più privata e familistica, attraverso una ben precisa forma di “sussidiarietà orizzontale”, considerata alternativa all’intervento pubblico, che, ad esempio, alimenta il proliferare di bonus economici sostitutivi dei servizi e gli incentivi a far “rientrare” le donne in casa per svolgere le funzioni di cura.
Le politiche economiche e sociali, così intese, rinviano alla centralità del mercato e delle sue logiche di profitto (per pochi, sempre meno per tutti). E’ indubbio che così le garanzie e la protezione sociale sono minacciate, e che soprattutto il welfare locale trova e troverà sempre più difficoltà a corrispondere ai crescenti bisogni economici e sociali: e di questo abbiamo ulteriori prove non solo dalle molteplici ragioni individuate dal vostro documento, a partire dai contenuti della finanziaria 2004, ma pure dalle modalità con cui le scelte del governo sono state interpretate dalla Regione Lombardia.
Vengono drasticamente ridotte “le risorse a disposizione per garantire la spesa sociale”, per cui gli stanziamenti non solo non riusciranno a dare risposta ai nuovi bisogni ma risulteranno inadeguati anche per garantire gli aiuti e i servizi attualmente erogati, soprattutto quelli affidati agli enti locali.
Appare inoltre sempre più evidente, come con forza sostenete, che il governo Berlusconi e la giunta Formigoni, usando il motivo della carenza di risorse, non solo riducono la possibilità di risposta ai bisogni sociali, ma caricano sulle spalle dei cittadini oneri finanziari sempre più pesanti per la cura e l’assistenza. Infine, governo nazionale e regionale rendono sempre più necessaria, in un certo senso “obbligata”, la scelta dei cittadini, come opportunamente avete scritto, “di rivolgersi al mercato privato delle tutele” in carenza di un’offerta di servizi efficienti e corrispondenti ai bisogni di oggi, incentivando il sistema assicurativo e il puro e semplice trasferimento monetario (che per altro è sempre meno adeguato): oltre a deresponsabilizzare il soggetto pubblico, vengono penalizzate in modo particolare le persone meno dotate di risorse finanziarie e meno capaci di orientarsi nel campo delle prestazioni e dei servizi socio-sanitari e si aggravano le difficoltà e le patologie sociali, minacciando quell’universalità dei diritti che è garanzia dei valori irrinunciabili della giustizia, dell'equità, della solidarietà sociale.
Chi condivide questo quadro generale, non può non impegnarsi a compiere un vero e proprio salto di qualità per costruire una piattaforma di obiettivi in grado di meglio alimentare strategie d’azione concrete sul piano del welfare locale.
Il tema è enorme, ma possiamo partire da alcune nuove focalizzazioni politiche. La prima: la soluzione non va cercata nella mera aggiunta quantitativa di prestazioni; servono modelli nuovi in grado di moltiplicare il rendimento delle risorse. Si allarga il convincimento che il welfare territoriale, per il quale l’entità delle risorse non va in alcun modo ridotta, non può in alcun modo reggere mantenendo la centralità del servizio a prestazione individuale: richiederebbe un volume enorme di operatori professionali e otterrebbe risultati modesti. Tanto per fare un esempio, la qualità, l’universalità e la sostenibilità dell’assistenza ai vecchi in perdita di autonomia va pensata introducendo un cambiamento di modello. L’ottica deve essere nuova: dal singolo individuo alle reti naturali di aiuto; dalla presa in carico alla condivisione delle scelte soggettive; dalla prestazione professionale al capitale sociale.
Ma i servizi per gli anziani a loro volta sono da intendersi come punta emergente della grande trasformazione che dovrà riguardare tutti i servizi, sociali, sanitari, educativi.
Qualunque sia il punto da cui si parte per avviare il cambiamento, bisogna progettare in grande: coniugare gradualità con una visione d’insieme. La ricchezza prodotta dai cittadini nel lavoro di cura mette un marcia in più nella rete integrata dei servizi professionali; si tratta di utilizzarla.
Gli operatori dovranno cambiare in profondità le loro culture. Ma il passaggio al nuovo paradigma attiene alla sfera politica.
A questo proposito, riteniamo che alcuni nodi tematici possano servire, senza pretendere di esaurire un discorso così vasto e complesso, a rafforzare e qualificare le iniziative e i processi sociali e politici in atto, così come di avviarne e sperimentarne altri.
Il primo riguarda la famiglia, oggi oggettivamente più povera di risorse e di possibilità interne di cura e di assistenza, con la particolare difficoltà della donna, che vuole ed è costretta a lavorare ma che poi vuole ed è costretta a fare la caregiver dei figli piccoli, degli anziani, dei disabili, con crescenti contraddizioni e difficoltà. Non basta il riconoscimento astratto e addirittura retorico delle sue irrinunciabili e preziose funzioni, che spesso funge da alibi per gravarla ulteriormente di compiti, responsabilità, oneri, nonché di aumentare i pericoli di isolamento, di autoreferenzialità e perfino di chiusura, ma occorre contribuire ad accrescere le effettive occasioni affinché la famiglia acquisti una valenza nuova dal punto di vista delle politiche sociali e dei servizi, che sempre meno devono considerarla come semplice destinataria indiretta di servizi rivolti a specifiche categorie di utenti (anziani, minori, disabili, ecc.), e sempre più come soggetto co-protagonista dell’attività di cura e di assistenza, la cui capacità va sotto vari aspetti valorizzata e promossa.
E’ poi è necessario regolare, valorizzare, riqualificare il vastissimo, variegato, ricco ed insieme contraddittorio quadro della cura e dell’assistenza privata: quel “mercato di care” che vede impegnati una varietà molteplice di soggetti, da quelli delle reti di prossimità alle numerose realtà del terzo settore, fino ad arrivare agli operatori individuali retribuiti, fra i quali le assistenti familiari straniere (le cosiddette “badanti”), di cui continuiamo a sottovalutare la straordinaria ed insieme problematica presenza e funzione (quelle regolari, In Italia sono almeno 400 mila). Un quadro, questo, che mescola apporti di grande spessore quantitativo a qualitativo ad aspetti critici come il lavoro nero, ancora oggi legato a condizioni di clandestinità, come la dequalificazione, la frammentazione, la carenza di regolazione e di controllo, i disagi di varia natura sia dalla parte del lavoratore (meglio ancora: della lavoratrice) sia dell’utente.
Il terzo campo, per altro evocato dai primi due, riguarda la necessità di accelerare e qualificare l’integrazione fra gli ambiti e i servizi istituzionali, così come tra i soggetti che sono a vario titolo impegnati nel lavoro di cura e di assistenza. Si parla continuamente di rete, un concetto che ha giustamente assunto un valore predominante come espressione di un pensiero e di strategie di collaborazione tra i soggetti istituzionali e sociali, e tra i servizi (mentre in questi anni ha perso valore il termine assistenza, che rinvia ad una visione dei servizi passivizzante): ma la sua traduzione in realtà è ancora molto difficile, anche perché tutti i soggetti in campo, enti locali, apparati, servizi, operatori, soggetti sociali, sindacati…, sono ancora in difficoltà a declinarlo in termini di precise elaborazioni, proposte e iniziative socio-politiche.
E’ pericoloso puntare all’integrazione solo o eminentemente per ridimensionare i costi del servizio, per ridurre gli sprechi derivanti da duplicazione dei compiti, dispiegando anche, come avviene in larga misura nei vari processi di “razionalizzazione” e di “aziendalizzazione” e di ”esternalizzazione” dei servizi, la logica che guarda, in ultima analisi, solo ai costi oppure, nei migliori dei casi, solo ai mezzi, alle dimensioni puramente operative: si deve indubbiamente tenere in grande conto questi fattori, ma insieme, come sostiene anche il vostro documento, si deve guardare al bene della persona e alle finalità del servizio di cura e di assistenza, cioè agli effetti integrativi degli impatti delle politiche.
Senza pretendere di esaurire una problematica così complessa, ci pare che l’obiettivo della domiciliarità possa servire come utile parametro indicatore. Tutto questo se si intende la domiciliarità come un progetto culturale e politico ben più ampio del semplice favorire la permanenza a domicilio dei soggetti anziani o malati: è il collegamento delle persone, delle famiglie, delle varie reti comunitarie alla globalità del contesto territoriale, dalla famiglia alla comunità locale in cui i soggetti sono inseriti, con le diverse storie e tradizioni. La dimensione della domiciliarità si basa sui rapporti, sulle reti di relazioni, sull’appartenenza al territorio, in senso fisico, culturale e sociale. Ha bisogno di istituzioni e di servizi che sappiano progettare e guidare i processi, osservare e capire che cosa succede dentro e fuori di loro. E’ loro compito politico e sociale assumere il ruolo di regia generale, e questo richiede che in ogni loro ambito e livello sappiano conoscere e ri-conoscere le risorse plurime presenti nella società civile, nel volontariato, nei nuovi soggetti delle risorse informali, per saperle poi raccordare. E’ la concezione di un territorio-laboratorio.
Pertanto, anche ritornando ai precedenti ambiti tematici - il lavoro familiare, il mercato privato della cura, l’integrazione e la rete – possiamo proporre, come primo campo di intervento, di ripensare alla funzione dei tradizionali servizi domiciliari pubblici, a partire dai Servizi di Assistenza Domiciliare dei comuni. Si tratta di un tema solo apparentemente secondario, dato che evoca uno snodo importante: nella rete territoriale dei servizi sociali e sanitari messi a disposizione da Comuni e Asl, manca il tassello che consente ai familiari di mantenere a casa i loro vecchi, senza per questo sobbarcarsi un carico troppo pesante e, al limite, non compatibile con le proprie esigenze esistenziali.
I Sad devono continuare a rispondere ad una domanda sociale che è il residuo di ciò che non trova risposta altrove, oppure diventare strumento di una politica regolativa del mercato, pubblico e privato, dell’assistenza a domicilio? In altre parole, devono svolgere un ruolo di “tampone” rispetto alla domanda insoddisfatta o la loro esperienza e il loro radicamento territoriale devono servire alle cure domiciliari nel loro complesso?
Noi riteniamo che, se è vero che il Sad non è più il servizio di assistenza domiciliare “per eccellenza” ma una risorsa tra le altre, la sua mission può e deve cambiare: non solo gestire servizi ma presidiare la rete di cura, integrare, garantire livelli minimi di qualità e di sicurezza.
Questa tematica, nei suoi limiti, ci spinga alla necessità di meglio integrare il pubblico e il privato, così come quella dei vari servizi fra di loro, mettendo in relazione aiuti diversi tra loro (assistenza di base con quella specialistica, apporto professionale con quello familiare e del terzo settore, trasporti, residenzialità temporanea, ristorazione, acquisto di medicine, disbrigo di pratiche burocratiche, ma anche iniziative di socializzazione e così via). In questa logica si tratta in primo luogo di creare dei “ponti” tra i diversi soggetti coinvolti, capitalizzando le professionalità finora maturate dalle assistenti di base a beneficio di chi è professionalmente più debole (ad esempio, le” badanti”, a partire da quelle più disponibili a qualificarsi).
E’ anche il terreno per far sì che il sociale si integri sempre di più con il sanitario: questi, malgrado tanti studi, dibattiti, piani, programmazioni ufficiali, sono ancora a compartimenti stagni (ad esempio, Sad e Adi continuano a riferirsi a comparti, quindi a percorsi decisionali, a bilanci, a professioni, fortemente separati…).
Se l’idea di domiciliarità rafforza l’attenzione al territorio e alla comunità, rimane però il rischio che l’accezione con cui si utilizza il termine faccia riferimento unicamente a soluzioni organizzative (come supporti economici e di sollievo). Soluzioni preziose, ma che non devono illudere sul fatto che siano sufficienti per realizzare quella cultura della domiciliarità diffusa che serva da perno per il rinnovamento dell’intero sistema di welfare territoriale.
La domiciliarità sollecita non solo cambiamenti organizzativi, quanto soprattutto un cambiamento di lettura della realtà, una rivisitazione della più tradizionale impostazione del rapporto servizio-utente, suggerendo uno sguardo più attento alle persona, alla sua famiglia, ai luoghi, ai tempi e alle relazioni in cui si dà la sua vita.
Ma è anche compito delle forze sociali far sì che il territorio diventi laboratorio permanente di condivisione pratica di esperienze per l’attivazione di collaborazioni e di sinergie tra i soggetti – servizi, associazioni di volontariato, organizzazioni – che, a vario titolo e con cultura, storia, funzione e modalità anche assai diverse, operano con/per le famiglie.



 


       



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