15 Settembre, 2002
Lettera aperta ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil Cremona sui temi del welfare locale
a cura della commissione welfare-sanità dell'Ulivo Cremonese
COMMISSIONE WELFARE-SANITA' DELL'ULIVO CREMONESE
Via Beltrami, 18 - 26100 Cremona
Ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil Cremona
-Massimiliano Dolci Cgil
-Mario Daina Cisl
-Mino Grossi Uil
Cremona 6 febbraio 2004
Ogg. Trasmissione lettera aperta
Cari Amici,
con riferimento al vostro documento“Per un
welfare cremonese, fortemente solidaristico
e responsabile” ed agli incontri e contatti
intervenuti , in allegato trasmetto :
· lettera aperta sui temi del welfare locale
· alcune riflessioni di accompagnamento.
Nell’augurarvi buon lavoro siamo convinti
che il confronto di idee che si svilupperà
a partire dal vostro documento sia di ottimo
auspicio rispetto a comuni iniziative, nel
rispetto delle reciproche autonomie, che
saremo chiamati ad affrontare per lo sviluppo
del welfare locale.
Cordialmente
p.la COMMISSIONE
WELFARE-SANITA' DELL'ULIVO CREMONESE
Gian Carlo Storti
--------------------------------------------
Lettera aperta ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil
Cremona sui temi del welfare locale
La Commissione Welfare-Sanità dell’Ulivo
Cremonese valuta positivamente il documento
dei sindacati confederali “Per un welfare
cremonese, fortemente solidaristico e responsabile”
in quanto non solo affronta efficacemente
tematiche cruciali per tutti i cittadini,
ma anche manifesta la volontà unitaria di
approfondirle e di tradurle in strategie
concrete sul piano territoriale. Inoltre,
su molti e fondamentali punti condividiamo
l’esame della situazione socio-economica
e politica, a partire dal giudizio negativo
sulle scelte politiche oggi attuate da chi
ci governa a livello nazionale e regionale.
Con questa lettera aperta, oltre a confrontarci
sui temi di più diretto riferimento all’agenda
politica e sindacale locale, abbiamo voluto
anche sviluppare (si vedano le pagine qui
allegate) alcuni punti generali della vostra
elaborazione, al fine di armonizzare strategie
e iniziative che, nel pieno rispetto delle
rispettive identità, si possono attuare nella
nostra realtà territoriale.
In primo luogo, la nostra riflessione focalizza
la problematica del welfare alla luce dei
grandi (e preoccupanti) processi dell’economia
e del lavoro. Vulnerabilità economica e sociale,
dinamiche e rischi di esclusione, difficoltà
a darsi progetti di vita, hanno sempre più
a che fare con gli attuali negativi processi
economici, con la sfiducia in chi ci governa
e in un mercato lasciato senza regole e controlli.
La frammentazione e l’insicurezza sociale
hanno sempre più a che fare anche con il
lavoro oggi, con la tendenziale perdita della
sua centralità politica e sociale e con le
sue nuove dinamiche: la perdita del lavoro,
la disoccupazione e la condizione di endemica
precarietà, logorano status e relazioni sociali,
favoriscono in ampie fasce di popolazione
disagio, marginalità, “ cronicità”.
Un altro grande fattore da approfondire riguarda
l’aumento enorme delle persone non autosufficienti
o fragili. Nel passato questa condizione
riguardava una parte limitata e prevedibile
di popolazione, al punto che il sistema assicurativo
poteva quantificarne e sopportarne l’onere
per la collettività. Oggi non è più così,
e milioni di persone sono in crescente difficoltà,
tanto più è molto più debole la possibilità
di assistenza delle famiglie e delle reti
di prossimità. Anche l’organizzazione dei
servizi socio-sanitari del welfare tradizionale
è, ovunque e da decenni, in forte difficoltà
in fatto di costi, efficienza, flessibilità,
corrispondenza a bisogni sempre più variegati
e complessi, disponibilità al cambiamento.
Sarebbe pertanto sbagliato attardarci a difendere
le modalità con le quali il tradizionale
welfare, i cui aspetti positivi vanno riconosciuti
e salvaguardati, tendeva a soddisfare domande
“tradizionali”. Tanto per fare subito un
esempio: è impossibile pensare di rispondere
ai bisogni dei nostri due milioni di anziani
in difficoltà (ai quali vanno aggiunte le
tante altre persone fragili), usando solo
gli stretti criteri del welfare tradizionale.
Ma se è vero che il tradizionale welfare
era già in crisi da decenni, è anche vero
che non sempre le strategie per riformarlo
sono da considerare valide. La soluzione
più enfatizzata, quella “deregolativa”, ha
messo confusamente insieme processi validi
e innovativi ad altri di segno opposto, i
quali soprattutto oggi tendono a prevalere.
Come anche voi con forza denunciate, le politiche
del governo hanno risposto ai problemi del
welfare minacciando le sue fondamenta, a
partire dal principio dell’universalità dei
diritti: esso stabilisce che le situazioni
di povertà, esclusione, marginalità debbano
essere prevenute e corrette, e che è il repertorio
dei diritti sociali a definire in buona sostanza
gli stessi compiti delle istituzioni e dei
soggetti sociali.
Condividiamo un’altra tesi centrale del vostro
documento: lo Stato va inteso come perno
nella costruzione di politiche sociali. Il
compito fondamentale dell’istituzione pubblica
oggi, oltre alla riqualificazione dei suoi
servizi, riguarda la definizione delle complessive
politiche sociali; la regia dell’azione di
cura, di assistenza e di protezione sociale
dei vari attori, pubblici, di mercato, di
terzo settore; la crescita della domanda
sociale, delle reti di accesso.
Questa funzione del soggetto pubblico è resa
ancor più necessaria dalle prorompenti novità
costituite dal principio di sussidiarietà
previsto dalla nostra legislazione e garantito
da un nuovo articolo della Costituzione.
Al contrario di chi ci governa a livello
nazionale e regionale, che la concepisce
soprattutto come deresponsabilizzazione dello
Stato praticata attraverso la privatizzazione
o la mera aziendalizzazione del pubblico,
noi riteniamo la sussidiarietà fondata sull’impegno
dello Stato a garantire legami di reciprocità
tra attori istituzionali e attori sociali.
Sotto questo aspetto, come indica anche la
legge 238/2000 che ha riformato il sistema
socio-assistenziale, i cittadini e le loro
realtà associative, a partire dai sindacati,
sono chiamati ad assolvere funzioni pubbliche
quando sono impegnati in azioni partecipative
e di solidarietà e quando la loro attività
è ritenuta finalizzata al bene comune.
Con questa visuale va affrontata il tema
del “terzo settore (volontariato, associazionismo,
cooperazione sociale) e della sua effettiva
e potenziale capacità di realizzare a livello
diffuso feconde esperienze di “cittadinanza
attiva”.
Non c’è dubbio che anche il sindacato, secondo
la sua specifica identità e forma organizzativa,
svolge una (preziosa) funzione di “cittadinanza
attiva”, che presenta in larga misura contenuti
e obiettivi vicini a quelli che ispirano
tanti soggetti del terzo settore. Da qui,
si impone la necessità di migliori relazioni
e azioni comuni fra questi due grandi attori
sociali.
Reimpostare le relazioni del sindacato con
gli altri attori sociali a livello locale
costituisce uno dei punti aperti più propulsivi
ed insieme problematici per il prossimo futuro,
così come quello di rafforzare e innovare
il rapporto delle forze sociali con le istituzioni
locali, a partire dalla effettiva partecipazione
alla lettura dei bisogni sociali e alla costruzione
dei piani socio-assistenziali di zona.
Su un altro punto centrale concordiamo: il
welfare locale dei servizi è la nuova frontiera
del welfare. Si tratta di una prospettiva
che di certo non vuole esaltare il localismo
angusto e la confusione dei poteri, dei compiti,
la frammentazione dei vari ambiti e livelli
dello stato, del sociale, del privato. Essa
rimanda alla politica nazionale ed insieme
a quella territoriale, alle scelte previdenziali,
formative, fiscali, urbanistiche, sanitarie,
sociali, di genere.
In questo quadro, il modello di welfare assicurativo
non è più sufficiente. Per chi ha responsabilità
di governo, l’obiettivo di ricostruire relazioni,
autonomie e capacità comporta una nuova ottica:
basare le tutele sociali sul protagonismo
delle persone, sulla qualità di relazioni
stabili, sull’integrazione tra pubblico,
privato-sociale e volontariato, sulla prossimità
e sulla flessibilità, sulle reti, sull’equità
e sull’eguaglianza. Un’ottica in contrasto
inevitabile con il modello di mercato sociale
costruito sulla cieca e anonima transazione
cliente/fornitore e sui rapporti di forza
che si è in grado di esprimere nella negoziazione.
Il vostro e il nostro modello si chiama invece
capitale sociale, che è il prodotto degli
scambi tra soggetti, individuali e collettivi
che creano, mettono in campo risorse e conoscenze,
si aiutano, cooperano, si danno fiducia.
Il primo riferimento è all’enorme ricchezza
esistenziale, economica, sociale, educativa,
assistenziale realizzata dalle reti familiari.
Se le dinamiche che si sviluppano spontaneamente
nel vivo del corpo sociale generano valore
aggiunto e questo valore è essere accumulato
e diffuso, abbiamo trovato una nuova ottica
per riconsiderare e rendere sostenibile il
welfare.
Se bisogna pienamente riconoscere e promuovere
il protagonismo dei cittadini che si aiutano,
si organizzano, occorre nello stesso tempo
evitare una fiducia “magica” nei confronti
della comunità civile. Come ottenere risultati
virtuosi dalle dinamiche sociali spontanee
è proprio il nuovo tema del welfare locale.
La politica, le istituzioni, i servizi, possono
e devono sostenere queste competenze ed esperienze,
stimolando i cittadini a creare reti aperte,
a giocare le loro attività in una dimensione
comunitaria.
Le scelte politiche del governo nazionale
e regionale non solo riducono in modo drastico
le risorse per le politiche sociali, ma rinviano
le politiche sociali alla centralità del
mercato e delle sue logiche di profitto (per
pochi) e a una dimensione privata e familistica
(si veda fra l’altro il proliferare di bonus
economici, per altro sempre meno adeguati,
sostitutivi dei servizi) configurante una
forma di sussidiarietà in buona sostanza
alternativa all’intervento pubblico.
In questo modo non solo si riducono le possibilità
di risposta ai bisogni sociali, ma si caricano
sulle spalle dei cittadini responsabilità
e oneri finanziari sempre più pesanti, penalizzando
sopratutto le persone più povere e meno capaci
di orientarsi nel campo delle prestazioni
e dei servizi socio-sanitari.
Di fronte a questo quadro generale, con voi
riteniamo che oggi sia necessario unire tutte
le forze disponibili per costruire una piattaforma
di obiettivi in grado di alimentare strategie
d’azione concrete sul piano del welfare locale.
Il tema è enorme, ma possiamo partire da
alcune priorità strategiche. La prima: non
serve una mera aggiunta quantitativa di prestazioni,
quanto un modello nuovo in grado di moltiplicare
il rendimento delle risorse. Il welfare territoriale
non può reggere mantenendo la centralità
del servizio a prestazione individuale: richiederebbe
un volume enorme di operatori professionali
e otterrebbe risultati modesti. Tanto per
fare un esempio, la qualità, l’universalità
e la sostenibilità dell’assistenza ai vecchi
fragili va pensata introducendo un cambiamento
di prospettiva: dal singolo individuo alle
reti naturali di aiuto; dalla presa in carico
alla condivisione delle scelte soggettive
e alla promozione; dalla prestazione professionale
al capitale sociale. Un’ottica che chiama
alla trasformazione tutti i servizi sociali,
sanitari, educativi, culturali. Gli operatori
in primo luogo sono chiamati a innovare le
loro culture, ma a guidare il passaggio al
nuovo deve essere la politica.
Nel nostro documento di riflessione, abbiamo
prestato particolare attenzione al tema della
famiglia. Non vogliamo il riconoscimento
retorico del suo valore, che spesso serve
da alibi per gravarla ulteriormente di solitudine
e di compiti, ma effettive occasioni affinché
la famiglia sempre meno sia semplice destinataria
indiretta di servizi rivolti a specifiche
categorie di utenti (anziani, minori, disabili,
ecc.), e sempre più co-protagonista dell’attività
di cura e di assistenza.
Inoltre, proponiamo come decisiva la necessità
di rinnovare, valorizzare e riqualificare
il grande, ricco ed insieme contraddittorio
quadro della cura e dell’assistenza privata,
che vede impegnati una varietà molteplice
di soggetti, da quelli delle reti familiari
e di volontariato, agli operatori individuali
retribuiti, fra cui le assistenti familiari
straniere (le cosiddette “badanti”), delle
quali continuiamo a sottovalutare la grande,
feconda ed insieme problematica funzione
(in Italia, quelle regolari sono più di 400
mila).
La terza focalizzazione riguarda un irrinunciabile
obiettivo: l’integrazione fra gli ambiti
e i servizi istituzionali, così come tra
i soggetti che sono a vario titolo impegnati
nel lavoro di cura e di assistenza. Si parla
continuamente di rete, che esprime l’idea
e la strategia di collaborazione tra i soggetti
istituzionali e sociali, e tra i servizi:
ma la sua traduzione in realtà è ancora molto
difficile (la prova più immediata ci viene
dalla perdurante difficoltà a far collaborare
i servizi sociali e sanitari: si pensi solo
ai rapporti tra Sad e Adi).
Senza pretendere di esaurire una problematica
così complessa, ci pare che il primo obiettivo
del welfare territoriale sia quello della
domiciliarità, intendendola come un progetto
culturale e politico ben più ampio del semplice
favorire la permanenza a domicilio dei soggetti
anziani o in perdita di autonomia: è il collegamento
delle persone, delle famiglie, delle varie
reti comunitarie alla globalità del contesto
territoriale, dalla famiglia alla comunità
locale, in cui i soggetti sono inseriti.
La dimensione della domiciliarità richiede
un nuovo protagonismo e impegno delle forze
sociali, e di istituzioni e di servizi che
sappiano progettare e guidare i processi,
osservare e capire che cosa succede dentro
e fuori di loro.
Se l’idea di domiciliarità rafforza l’attenzione
al territorio e alla comunità, rimane però
il rischio che sia pensata unicamente dal
lato delle soluzioni organizzative. Ma queste,
come ad esempio i supporti economici e di
sollievo, non sono sufficienti per realizzare
quella cultura della domiciliarità diffusa
che serva da perno per il rinnovamento dell’intero
sistema di welfare territoriale. La domiciliarità
sollecita non solo cambiamenti organizzativi,
quanto soprattutto un cambiamento di lettura
della realtà e della più tradizionale impostazione
del rapporto servizio-utente, suggerendo
uno sguardo più attento alle persona, alla
sua famiglia, ai luoghi, ai tempi e alle
relazioni in cui si dà la sua vita.
I temi più immediati del welfare cremonese
Affidando al documento che accompagna questa
nostra “lettera aperta” il compito di meglio
illustrare queste riflessioni, ci soffermiamo
su alcuni temi e obiettivi di più immediata
utilità..
§ Riteniamo principio irrinunciabile che
sia il sistema pubblico a configurare i parametri
ispiratori e i criteri regolatori delle prestazioni
assistenziali di base (Lea nella sanità;
Leas nel sociale) e a garantire la loro giusta
applicazione a tutti i livelli e ambiti,
attuata in un sistema che valorizzi e ponga
in sinergia pubblico e privato.
§ La differenza di valutazione che abbiamo
riscontrato a proposito della applicazione
della legge regionale sulla trasformazione
delle Ipab, non ci impedisce ora di lavorare
per obiettivi comuni che siano a vantaggio
delle comunità locali e in particolare di
quella parte della popolazione non autosufficiente
oggi più indifesa. Dobbiamo ripartire dalla
durezza dei dati oggettivi: il taglio di
circa 300 posti letto nelle Rsa della provincia
di Cremona ha messo a dura prova il sistema,
obbligando tutti, in particolare gli enti
locali, a mettere in discussione i modelli
organizzativi. Tuttavia, ci sembra che sia
stata complessivamente ribadita la necessità
e la centralità della presenza “pubblica”
nel governo del sistema. Per questo riteniamo
che la scelta di trasformare le ex Ipab costituendo
Fondazioni o Asp o Aziende Speciali (come
per il Comune di Cremona), faccia parte in
ultima analisi di un unico disegno che vuole
mantenere al centro le comunità locali e
le loro istituzioni nella gestione del welfare.
Pensiamo che si sia vanificata così l’opzione
Regione Lombardia di espropriare le comunità
locali di beni, di compiti e di funzioni
che invece sono di loro primaria competenza.
In questo ordine di ragionamenti, riteniamo
discutibile il duro giudizio del vostro documento
sulla cosiddetta “privatizzazione“ delle
ex Ipab. In primo luogo, non si è trattato
di “privatizzazione” (l’affidare cioè ad
un terzo soggetto, appunto privato, la gestione
e le scelte) ma di “depublicizzazione” di
un sistema che resta senz’altro incernierato
nel contesto pubblico (il ruolo dei Comuni).
Per quanto riguarda altri seri e condivisibili
motivi di preoccupazione, nell’impegnarci
a mantenere alta la vigilanza e la pressione,
non ci sembra di dover registrare in questa
fase tentativi di rimettere in discussione
quanto formalmente pattuito e stabilito riguardo
al mantenimento dei diritti degli operatori
delle ex Ipab. Inoltre, gli stessi utenti
non hanno visto significative diminuzione
delle prestazioni loro dirette, e se ciò
si registra, pare dipendere da dinamiche
che non concernono la nuova identità giuridica.
Infine, possiamo sostenere che in buona sostanza
il sistema appare ancora oggi in equilibrio
e che questo è anche il risultato del non
allentamento dell’attenzione e dell’impegno
da parte degli Enti locali, dei Sindaci.
§ Anche ma non solo per queste ragioni appare
assolutamente necessario costruire un “patto
politico” per lo sviluppo del welfare locale
che veda sullo stesso fronte le Organizzazioni
Sindacali ed i Comuni contro una Regione
ed un Governo Nazionale che sempre di più
sviliscono in risorse e in possibilità di
azione il livello territoriale. Di fronte
a questa così come a tante altre motivazioni,
non appare perseguibile, in sede locale,
l’obiettivo di aumentare le risorse facendo
leva sull’addizionale Irpef locale. Individuare
l’ente locale come la controparte significa
non solo assolvere i governi nazionali e
regionali delle loro scelte sbagliate ma
aprire un contenzioso in sede locale che
porterà inevitabilmente alla guerra “fra
poveri”, allontanando per tutti la risoluzione
dei problemi. Fondamentale è invece perseguire
quella politica di progettazione e di coesione
sociale che veda nel livello distrettuale
la forma di aggregazione più consona a scelte
di programmazione, e nella Provincia lo strumento
più adeguato per svolgere un ruolo progettuale,
propositivo e di coordinamento.
Sui temi posti nel capitolo sull’assistenza
alcune rapide considerazioni:
o Si condivide la necessità di applicare
il sistema Isee per i costi alberghieri relativi
al ricovero in Rsa nella consapevolezza che
oggi il problema appare quello di una vasta
e diffusa incapacità del sistema familiare
farsi carico dei costi: ne é una prova l’aumento
degli stanziamenti dei comuni verso un numero
crescente di famiglie sempre più in difficoltà;
o Sulle rette va rivendicato un maggiore
stanziamento da parte della Regione della
quota sanitaria ancora oggi non adeguata
alla copertura della spesa;
o Le scelte tese a diminuire il ricovero
in Rsa pone e porrà nel futuro gli enti gestori
a razionalizzare i posti letto con una tendenza
alla loro diminuzione;
o Si conviene sulla necessità che i meccanismi
atti alla definizione delle liste di attesa
per le Rsa vadano meglio affinati sia sul
piano sociale che economico; da questa responsabilità,
l’Asl non può in ogni caso chiamarsi fuori,
come invece cerca di fare;
o Il problema dei volumi di posti letto accreditati
si acuirà fra breve, quando l’Asl chiamerà
gli enti gestori delle Rsa a definire i nuovi
contratti sia per volume che per numero;
appare impraticabile l’idea di non gestire
alcuni posti letto con la spesa totale a
carico delle famiglie; se il meccanismo per
l’ingresso nelle Rsa va assolutamente affinato
per evitare i disguidi dell’oggi, va assunto
anche il fatto che non tutti, rispetto alle
risorse disponibili, hanno diritto ad entrare
in Rsa con spesa sanitaria a carico della
comunità.
o Va condotta una forte iniziativa per eliminare
le liste di attesa garantendo a tutti gli
aventi diritti l’ingresso nelle Rsa
Sulla sanità
o Certamente le scelte regionali sulla sanità
la stanno indebolendo; le decisioni della
regione sui ticket sanitari sono una prova
della incapacità di governo in questo settore
fondamentale; oggi siamo in una fase nella
quale, per effetto dei budget di spesa, i
ricoveri sono ritardati e le uscite dall’ospedale
anticipate; si crea così un’area grigia,
di malessere sociale nella quale non si sono
strutture adeguate a dare risposte;
o Su questo versante vanno intensificati
gli stanziamenti dell’Asl a favore del territorio
sul versante dei voucher relativi all’Adi;
o Importante è anche un ruolo attivo degli
enti locali per regolamentare l’apporto delle
“badanti” (più di mille nella nostra provincia):
una risorsa da intendere come una possibilità
di nuovi parameri per la cure familiari e
di nuovi rapporti fra operatori privati e
pubblici;
o Da ripensare anche il giudizio sullo scarso
ruolo dei Sindaci sulla tematica sanitaria.
Indubbiamente, i nostri Comuni devono alzare
la qualità delle loro proposte e programmazioni,
così come delle loro prese di posizione sulle
politiche regionali (ma a questo proposito
dobbiamo considerare la reale dinamica del
confronto con la stessa Asl: si ricorda che
il bilancio dell’Asl dell’anno scorso, a
conferma che i nostri Comuni hanno espresso
un giudizio negativo sul suo operato, è stato
bocciato dall’Assemblea dei sindaci). Considerando
le vostre e le nostre visioni, ponendole
in relazione con quelle dei Comuni, si aprono
tutte le premesse, al di là dei reciproci
rilievi critici e dell’autonomia delle posizioni,
per realizzare rapporti ancora più aperti,
produttivi e incardinati su valori, prospettive
e obiettivi fortemente comuni.
o Si condivide la necessità di riqualificare
la struttura ospedaliera di Soresina.
Sulla famiglia
o Condividiamo ovviamente che fondamentale
è il ruolo propositivo degli Enti Locali,
nel senso che i futuri programmi dovranno
essere lo sviluppo conseguente e innovativo
delle scelte volte in questi anni a rafforzare
il sostegno alle vecchie e nuove forme familiari.
Infine il documento affronta altri temi importanti
quali quello dei trasporti, della casa, della
scuola e delle risorse umane, sui quali è
utile sviluppare un confronto teso a costruire
momenti di ulteriore intesa programmatica.
Per concludere l’Ulivo Cremonese ribadisce
il suo giudizio positivo al documento, che
favorisce ulteriori momenti di confronto
e di incontro affinché, sul piano locale,
siano possibili accordi programmatici fra
Organizzazioni Sindacali ed Enti Locali con
l’obiettivo centrale di impedire non solo
il decadimento del welfare locale ma di favorire
un suo ulteriore sviluppo.
Riflessioni di accompagnamento alla ”Lettera
aperta” ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil
sui temi del welfare c remonese
Il primo punto di approfondimento propone
di collegare ad ogni livello la problematica
del welfare agli effetti prodotti dai processi
dell’economia e del lavoro sulle sicurezze
e relazioni sociali. Un primo esempio: avvenimenti
attuali come la bancarotta di grandi imprese
accrescono ancora di più e a tutti i livelli
la vulnerabilità economica, ma anche quella
sociale, dato che si offusca la speranza
di potersi dare propri progetti di vita e
che cresce la sfiducia nei governanti, nelle
istituzioni e nelle mirabili virtù del mercato
lasciato libero da regole e controlli.
Tutto questo conferma che il destino sociale
continua ad essere strutturato attorno alle
grandi questioni del lavoro. Emerge con evidenza
che il cambiamento delle condizioni di lavoro
o la perdita del lavoro o l‘impossibilità
ad entrare nel mercato del lavoro o ad entrarvi
in situazioni di endemica precarietà, si
legano alla rottura di significative relazioni
umane e sociali e poi a situazioni di cronicità.
La “balcanizzazione” delle forme di lavoro,
il moltiplicarsi di forme che stanno tra
lavoro e non lavoro, stabilità e precarietà,
configurano un nuovo tipo di rischio, il
rischio/esclusione, che innesca e amplifica
forme antiche e nuove di vulnerabilità sociale
per intere fasce sociali, che prima si sentivano
garantite; rischio che non tocca solo il
lavoratore generico, ma anche il lavoratore
in possesso di un’alta qualificazione, che
in tempi brevi può diventare obsoleta.
In tutta Europa sono soprattutto le fasce
dei 50-sessantenni, specie se di bassa istruzione
e qualifica, a rischiare il lento passaggio
alla marginalità; inoltre, la precarizzazione
del lavoro, specialmente tra i giovani, ha
raggiunto ovunque percentuali assai alte:
se si è ancora un lavoratore atipico o precario
a 35-36 anni, le probabilità di restare “intrappolato”
per la vita in questa condizioni è altissima;
per tutte le età, poi, per la donna aumentano
ulteriormente le difficoltà.
Il processo, inoltre, cammina di pari passo
con una tendenziale perdita di centralità
del lavoro, di riduzione della potenza politica
e sociale del lavoro, che ha rilevanti conseguenze
anche sul piano delle risorse del sistema
previdenziale, posto in difficoltà dal limitato
numero di occupati stabili e quindi dalla
riduzione crescente dei versamenti contributivi
degli occupati a favore delle pensioni e
delle prestazioni di sicurezza sociale per
le precedenti generazioni.
La seconda grande questione del welfare è
quella che anche il vostro documento bene
sottolinea: l’aumento enorme delle persone
non autosufficienti o sulla via della non
autosufficienza, cioè in condizioni di vita
precarie relativamente alla malattia, alla
vecchiaia, alla marginalità. Nel passato
queste condizioni toccavano una parte limitata
e prevedibile di popolazione, al punto che
il sistema assicurativo poteva quantificarne
e sopportarne il costo e l’onere per la collettività.
Il welfare che si è diffuso in Europa, fino
a qualche decennio fa poteva in ultima analisi
considerare la vecchiaia, la malattia, l’invalidità,
come problemi seri ma sostanzialmente residuali.
Dalla malattia, in effetti, si usciva in
un tempo relativamente limitato: si guariva
o si moriva, non era dato un terzo esito
che comportasse la permanenza sine die dallo
stato di malato, mentre oggi esistono sempre
più spesso patologie (ictus, diabete, tumori,
ecc.) che, una volta superata la fase critica,
lasciano comunque in una situazione prolungata,
se non permanente, di dipendenza socio-sanitaria.
Anche la vecchiaia era, almeno in una certa
misura, una specie di “accidente”, sia perché
pochi, rispetto, ad oggi, diventavano vecchi,
sia perché era vista essenzialmente come
una perdita del salario, sia perché la sua
copertura assicurativa riguardava, tutto
sommato, un numero limitato di anni.
In linea generale, poi, le persone fragili
potevano ricevere molta più cura dalle famiglie,
che ad esempio avevano più figli in grado
di dividersi l’assistenza ai disabili e agli
anziani, e anche dalle reti informali di
prossimità (parentela allargata, vicinato,
ecc.).
Ora le inedite condizioni e i nuovi bisogni
delle società rendono i sistemi assicurativi
insufficienti e incapaci di rispondere alle
nuove domande di protezione sociale, cosa
che del resto può essere detta anche a proposito
dei tradizionali servizi di cura, a partire
da quelli delle istituzioni residenziali,
in difficoltà crescenti sia sul piano dei
costi, sia su quello della corrispondenza
ai sempre più gravi e diversificati bisogni
esistenziali e sociali.
Non possiamo pertanto attardarci a difendere
il modo con cui il tradizionale welfare tendeva
a soddisfare domande “tradizionali”: un sistema
che ad esempio in Italia ha sempre privilegiato
nettamente i trasferimenti monetari di tipo
previdenziale, così come la cura “riparatoria”
(la sanitaria, l’ospedalizzazione, il ricovero),
mettendo in secondo piano la rimozione di
ciò che provoca disagio, malattia, sofferenza,
ed anche le forme di accudimento-riabilitazione-cura
volte al mantenimento del potenziale di autonomia
di tante persone, nonché a scapito della
crescita complessiva delle qualità di vita,
delle capacità della persona, del gruppo,
di fare da sé, di darsi un progetto esistenziale.
Anche la gestione statale dei servizi, funzionale
a quel modello di welfare e per molto tempo
in grado di dare risposte positive, negli
ultimi decenni ha mostrato ovunque in Europa
crescenti difficoltà in fatto di efficienza,
efficacia, flessibilità. Le strutture pubbliche,
che per necessità di cose mirano a prestazioni-standard
(spesso di basso livello), trovano difficile
corrispondere ad un campo di bisogni enormemente
più complesso, mutevole e di diritti per
certi punti di vista insoddisfatti. Inoltre,
oggi una autentica cultura del bisogno e
della risposta al bisogno è imperniata su
elementi (l’apertura e la disponibilità al
cambiamento; la capacità di stimolare la
motivazione etica degli operatori del servizio
e del servizio stesso inteso come sistema;
la contestualizzazione della risposta, la
personalizzazione dell’intervento, la centralità
del bene relazionale, il coinvolgimento diretto
dei beneficiari) che trovano notevoli e particolari
difficoltà ad incardinare la missione della
macchina pubblica.
Se è vero che il tradizionale welfare era
già in crisi da decenni – soprattutto per
l’insufficienza dei suoi meccanismi a contenere
potenzialità e domande delle società contemporanee
e in seguito alla crescente constatazione
che alla titolarità dei diritti non sempre
corrisponde l’effettivo godimento di essi,
anche per il solo fatto che ciò richiede
risorse sempre più crescenti, alla lunga,
insostenibili –, è anche vero che non sempre
le strategie per riformarlo messe in atto
negli anni recenti sono state valide.
Ad esempio, abbiano visto una fase, quella
“deregolativa”, in cui si è fatto ricorso
alle più intricate e confuse miscele di risorse
per politiche pubbliche, mettendo insieme
processi validi e innovativi ad altri di
segno opposto. Oggi poi, come lo stesso vostro
documento ha con forza denunciato, le politiche
del governo hanno risposto agli oggettivi
problemi del welfare addirittura mettendo
sotto vari aspetti in discussione i suoi
capisaldi, a partire dal principio dell’universalità
dei diritti.
Si tratta di un principio che oggi deve essere
declinato in modo innovativo, dato che, come
abbiamo già visto, il modello tradizionale
provoca spesso enormi ritardi nell’adattamento
degli interventi agli imperativi e alle priorità
del momento, rivelando crescenti difficoltà
nel dare risposte adeguate a bisogni sempre
più articolati, “soggettivi” delle persone
e dei gruppi. Persone e gruppi, poi, che
non sono tutti in modo uguale esposti alle
stesse difficoltà, ai medesimi “rischi” e
non dispongono in modo uguale di risorse,
di opportunità di vita, di autonomia e di
crescita.
Tuttavia, il principio mantiene ferma una
sua valenza irrinunciabile: nei regimi democratici
le situazioni di povertà, esclusione, marginalità
debbano essere prevenute e corrette, ed è
il catalogo dei diritti sociali a definire
quelli che saranno i compiti delle istituzioni
e dei soggetti sociali.
Su un’altra proposizioni fondamentale del
vostro documento concordiamo pienamente:
anche per noi lo Stato va inteso come perno,
come istanza imprescindibile nella costruzione
di politiche sociali. Non è un caso che sul
ruolo dello Stato come stratega, si appunta
l’offensiva della destra, anche per liberare
il terreno dall’ostacolo principale verso
un modello sociale di filantropia compassionevole
che ben si sposa con gli interessi di un
mercato che privilegia gli interessi di profitto.
Il compito fondamentale dell’istituzione
pubblica oggi, oltre al rafforzamento e alla
riqualificazione dei servizi che è bene restino
pubblici, riguarda soprattutto la configurazione
delle complessive politiche sociali; l’integrazione
e la regia dell’azione dei vari attori, pubblici,
di mercato e di terzo settore, variamente
impegnati nel lavoro di cura, di assistenza
e di protezione sociale; la responsabilità
della complessa programmazione socio-sanitaria
ai vari livelli; la crescita della domanda
sociale, delle concrete possibilità e reti
di accesso.
Questa funzione del soggetto pubblico è resa
ancor più necessaria dalle prorompenti novità
costituite dai principi di sussidiarietà
verticale (nuova dislocazione delle competenze
a favore dai livelli istituzionali più vicini
ai bisogni e ai cittadini, come gli enti
locali) e orizzontale (nuove assegnazioni
di compiti e nuove sinergie tra il pubblico
e il privato) previsti dalla nostra legislazione
e garantiti da un nuovo articolo della Costituzione.
Contrariamente a chi ci governa, che concepisce
la sussidiarietà orizzontale soprattutto
come deresponsabilizzazione dello Stato praticata
attraverso la privatizzazione o la mera aziendalizzazione
del pubblico, noi riteniamo la sussidiarietà
fondata sull’impegno dello Stato a garantire
legami di reciprocità tra attori istituzionali
e attori sociali. In questa concezione, i
cittadini e le loro libere realtà associative,
a partire dai sindacati, sono chiamati, come
responsabili di azioni partecipative e di
solidarietà nella comunità e qualora la loro
attività venga riconosciuta come finalizzata
al bene comune, ad assolvere funzioni pubbliche.
Sotto questo aspetto, come indica anche la
legge 328/2000 che ha riformato il sistema
socio-sanitario, il concetto di pubblico
si dilata fino a ricomprendere, pur nella
loro autonomia, i soggetti e le organizzazioni
non statuali.
Nella dinamica della sussidiarietà pubblico-privato
c’è quindi una manifestazione diretta della
accresciuta capacità di iniziativa e di realizzazione
delle politiche sociali da parte di gruppi
di cittadini. Soprattutto a questo proposito,
va affrontata la tematica del volontariato,
del terzo settore. La vastissima letteratura
su questa tematica, con accentuazioni differenti
a seconda dei vari punti di vista teorici,
considera tre i fondamentali ruoli che il
volontariato già in parte assolve e che è
chiamato ad assolvere ancora di più nel futuro:
quello di lettura dei bisogni emergenti nella
comunità e di anticipazione delle risposte;
quello di proposta e di controllo di base
delle scelte, dell’azione e dei servizi delle
istituzioni; quello di educazione e di promozione
della solidarietà sociale di base.
Questa funzione del volontariato, e più in
generale dell’associazionismo, della cooperazione
sociale – l’insieme del “terzo settore” -
viene in genere definita di “cittadinanza
attiva”.
Non c’è dubbio che anche il sindacato, secondo
la sua specifica identità, modalità e forma
organizzativa, svolge queste funzioni di
“cittadinanza attiva” e con contenuti, visioni
e valori in grande misura vicini a quelli
che ispirano buona parte dei soggetti del
terzo settore. Da qui, si impone la necessità
di migliori relazioni e azioni comuni fra
questi due grandi attori sociali: la loro
natura autonoma e differente non elimina
la necessità di definire le competenze specifiche
di ciascun attore e/o di stabilire delle
forti esperienze di collaborazione e di partnership
in quanto entrambi operano per la solidarietà,
la difesa della persona e dei suoi diritti.
Non si tratta tuttavia di un compito agevole.
Potremmo anzi dire che la strada delle relazioni
con gli altri attori organizzati a livello
locale costituisce uno dei punti aperti più
problematici per il prossimo futuro. Un punto
critico che si aggiunge a quello del come
acquisire, valorizzare e trattenere le risorse
umane e le competenze indispensabili al funzionamento
organizzativo e alla negoziazione sociale.
E a quello dei modi più adeguati di rapporto
non solo episodico con i rappresentati delle
istituzioni pubbliche.
Su questa tematica, anche il vostro documento
riflette seriamente sulla difficoltà e sulla
contemporanea necessità di un rapporto nuovo
e diverso delle forze sociali con quelle
delle istituzioni locali, a partire dalla
partecipazione effettiva alla lettura dei
bisogni sociali e dalla costruzione dei piani
socio-assistenziali di zona.
Su un altro punto centrale condividiamo gli
spunti del vostro documento: il welfare locale
dei servizi è la nuova frontiera del welfare.
Ciò non significa esaltare il localismo angusto
e la confusione, la frammentazione dei poteri,
dei compiti, delle relazioni dei vari ambiti
e livelli dello stato e del sociale, del
privato. Il welfare locale deve essere profondamente
radicato dalle grandi scelte politiche nazionali.
Tutto questo complesso quadro rimanda alla
politica e alla sua capacità, ad ogni livello,
di mettere in campo scelte formative, fiscali,
urbanistiche, sanitarie, sociali, di genere,
che assumono con forza l’obiettivo di una
concezione globale dei diritti, della cittadinanza
fondati non sulla compassione ma sul protagonismo,
sulla responsabilità e solidarietà. Ed è
in questo quadro che il modello di welfare
assicurativo non è più sufficiente e dove
l’azione sul territorio assume una particolare
importanza. Qui il problema non è solo di
risarcire le persone di un danno subito,
o di fornire loro integrazioni economiche
per i momenti di difficoltà e/o istituti
“totali” di cura e di ricovero; si tratta
principalmente di aiutarle nella conciliazione
di problemi di cura e lavoro complessi, o
nel recupero di capacità non solo di reddito,
ma anche di relazione e di comunicazione,
fino a costruire equilibri e sicurezze perse
nel tempo.
Per chi ha responsabilità di governo, l’obiettivo
di difendere e ricostruire relazioni, autonomie
e capacità comporta un nuovo punto di vista;
le domande e i bisogni non sono solo disagi
da curare, ma diritti di cittadinanza da
riconoscere. Le terapie per i mali sociali
devono lasciare lo spazio a strategie di
coesione che rendono le persone più consapevoli
e attive. L’offerta deve passare progressivamente
dall’assistenza alla promozione. Decidere
di fondare le tutele sociali sul protagonismo
delle persone, sulla qualità di relazioni
stabili, sull’integrazione tra pubblico,
privato-sociale e volontariato, sulla prossimità
e sulla flessibilità, e quindi sulle reti
comunitarie, sull’equità e sull’eguaglianza,
comporta un contrasto inevitabile con il
modello di mercato sociale costruito sulla
cieca e anonima oggettività delle transazioni
cliente/fornitore e sui rapporti di forza
che si è in grado di esprimere nella negoziazione.
Il nuovo modello si chiama invece capitale
sociale. Se le dinamiche che si sviluppano
spontaneamente nel vivo del corpo sociale
generano valore aggiunto e questo valore
può essere accumulato e diffuso, abbiamo
trovato una nuova ottica per riconsiderare,
cambiare e rendere sostenibile il welfare.
Il capitale sociale viene concepito come
prodotto degli scambi tra soggetti, individuali
e collettivi, che producono, mettono in campo
risorse e conoscenze, si aiutano, cooperano,
si danno fiducia. In questo quadro, è soprattutto
la rete familiare ad essere al centro delle
analisi, in quanto enorme è la sua capacità
di produrre e distribuire ricchezze economiche,
istruzione, cultura, alloggio, occasioni
di lavoro, protezione materiale e cura. Poi
viene il ruolo del vicinato e delle associazioni,
così come di tutte le forme gruppali che
producono spontaneamente un patrimonio utile
e disponibile per la comunità.
Su questo punto, occorre essere chiari: non
tutti i modi con cui il capitale sociale
si riproduce sono buoni. Una rete chiusa,
autocentrata e ostile agli altri esprime
una solidarietà che va bene per i soggetti
che fanno parte del clan e respinge gli estranei.
Inoltre, se dispone di molte risorse, il
suo capitale sociale viene riservato ai soli
inclusi, ma ciò diventa un danno per la collettività:
vediamo sempre più spesso come la ricchezza
privata vada di pari passo con povertà pubblica.
Come ottenere risultati virtuosi dalle dinamiche
sociali spontanee è il nuovo tema del welfare
locale. Occorre valorizzare il più possibile
il protagonismo dei cittadini che si aiutano,
si organizzano, ma una fiducia “magica” nei
confronti della comunità civile è sbagliata
e non aiuta a creare efficaci politiche pubbliche.
Dobbiamo pertanto cimentarci con altre domande:
quali dispositivi pubblici stimolano i cittadini
a creare reti aperte? Cosa può attrarre i
soggetti isolati a mettersi in sinergia e
a giocare le loro attività in una dimensione
comunitaria? Come la politica, le istituzioni,
i servizi, possono e devono sostenere queste
competenze, esperienze? Come questo prendersi
cura reciproco si può integrare con le azioni
del sistema pubblico?
Alcuni punti fondamentali di un progetto
per il welfare cremonese
Le politiche sociali che sempre più apertamente
sono proposte dal governo nazionale e regionale
tendono di fatto a recidere, in maniera sempre
più decisa, le attività di produzione da
quelle di riproduzione sociale, e a ricondurre
queste ultime a una dimensione sempre più
privata e familistica, attraverso una ben
precisa forma di “sussidiarietà orizzontale”,
considerata alternativa all’intervento pubblico,
che, ad esempio, alimenta il proliferare
di bonus economici sostitutivi dei servizi
e gli incentivi a far “rientrare” le donne
in casa per svolgere le funzioni di cura.
Le politiche economiche e sociali, così intese,
rinviano alla centralità del mercato e delle
sue logiche di profitto (per pochi, sempre
meno per tutti). E’ indubbio che così le
garanzie e la protezione sociale sono minacciate,
e che soprattutto il welfare locale trova
e troverà sempre più difficoltà a corrispondere
ai crescenti bisogni economici e sociali:
e di questo abbiamo ulteriori prove non solo
dalle molteplici ragioni individuate dal
vostro documento, a partire dai contenuti
della finanziaria 2004, ma pure dalle modalità
con cui le scelte del governo sono state
interpretate dalla Regione Lombardia.
Vengono drasticamente ridotte “le risorse
a disposizione per garantire la spesa sociale”,
per cui gli stanziamenti non solo non riusciranno
a dare risposta ai nuovi bisogni ma risulteranno
inadeguati anche per garantire gli aiuti
e i servizi attualmente erogati, soprattutto
quelli affidati agli enti locali.
Appare inoltre sempre più evidente, come
con forza sostenete, che il governo Berlusconi
e la giunta Formigoni, usando il motivo della
carenza di risorse, non solo riducono la
possibilità di risposta ai bisogni sociali,
ma caricano sulle spalle dei cittadini oneri
finanziari sempre più pesanti per la cura
e l’assistenza. Infine, governo nazionale
e regionale rendono sempre più necessaria,
in un certo senso “obbligata”, la scelta
dei cittadini, come opportunamente avete
scritto, “di rivolgersi al mercato privato
delle tutele” in carenza di un’offerta di
servizi efficienti e corrispondenti ai bisogni
di oggi, incentivando il sistema assicurativo
e il puro e semplice trasferimento monetario
(che per altro è sempre meno adeguato): oltre
a deresponsabilizzare il soggetto pubblico,
vengono penalizzate in modo particolare le
persone meno dotate di risorse finanziarie
e meno capaci di orientarsi nel campo delle
prestazioni e dei servizi socio-sanitari
e si aggravano le difficoltà e le patologie
sociali, minacciando quell’universalità dei
diritti che è garanzia dei valori irrinunciabili
della giustizia, dell'equità, della solidarietà
sociale.
Chi condivide questo quadro generale, non
può non impegnarsi a compiere un vero e proprio
salto di qualità per costruire una piattaforma
di obiettivi in grado di meglio alimentare
strategie d’azione concrete sul piano del
welfare locale.
Il tema è enorme, ma possiamo partire da
alcune nuove focalizzazioni politiche. La
prima: la soluzione non va cercata nella
mera aggiunta quantitativa di prestazioni;
servono modelli nuovi in grado di moltiplicare
il rendimento delle risorse. Si allarga il
convincimento che il welfare territoriale,
per il quale l’entità delle risorse non va
in alcun modo ridotta, non può in alcun modo
reggere mantenendo la centralità del servizio
a prestazione individuale: richiederebbe
un volume enorme di operatori professionali
e otterrebbe risultati modesti. Tanto per
fare un esempio, la qualità, l’universalità
e la sostenibilità dell’assistenza ai vecchi
in perdita di autonomia va pensata introducendo
un cambiamento di modello. L’ottica deve
essere nuova: dal singolo individuo alle
reti naturali di aiuto; dalla presa in carico
alla condivisione delle scelte soggettive;
dalla prestazione professionale al capitale
sociale.
Ma i servizi per gli anziani a loro volta
sono da intendersi come punta emergente della
grande trasformazione che dovrà riguardare
tutti i servizi, sociali, sanitari, educativi.
Qualunque sia il punto da cui si parte per
avviare il cambiamento, bisogna progettare
in grande: coniugare gradualità con una visione
d’insieme. La ricchezza prodotta dai cittadini
nel lavoro di cura mette un marcia in più
nella rete integrata dei servizi professionali;
si tratta di utilizzarla.
Gli operatori dovranno cambiare in profondità
le loro culture. Ma il passaggio al nuovo
paradigma attiene alla sfera politica.
A questo proposito, riteniamo che alcuni
nodi tematici possano servire, senza pretendere
di esaurire un discorso così vasto e complesso,
a rafforzare e qualificare le iniziative
e i processi sociali e politici in atto,
così come di avviarne e sperimentarne altri.
Il primo riguarda la famiglia, oggi oggettivamente
più povera di risorse e di possibilità interne
di cura e di assistenza, con la particolare
difficoltà della donna, che vuole ed è costretta
a lavorare ma che poi vuole ed è costretta
a fare la caregiver dei figli piccoli, degli
anziani, dei disabili, con crescenti contraddizioni
e difficoltà. Non basta il riconoscimento
astratto e addirittura retorico delle sue
irrinunciabili e preziose funzioni, che spesso
funge da alibi per gravarla ulteriormente
di compiti, responsabilità, oneri, nonché
di aumentare i pericoli di isolamento, di
autoreferenzialità e perfino di chiusura,
ma occorre contribuire ad accrescere le effettive
occasioni affinché la famiglia acquisti una
valenza nuova dal punto di vista delle politiche
sociali e dei servizi, che sempre meno devono
considerarla come semplice destinataria indiretta
di servizi rivolti a specifiche categorie
di utenti (anziani, minori, disabili, ecc.),
e sempre più come soggetto co-protagonista
dell’attività di cura e di assistenza, la
cui capacità va sotto vari aspetti valorizzata
e promossa.
E’ poi è necessario regolare, valorizzare,
riqualificare il vastissimo, variegato, ricco
ed insieme contraddittorio quadro della cura
e dell’assistenza privata: quel “mercato
di care” che vede impegnati una varietà molteplice
di soggetti, da quelli delle reti di prossimità
alle numerose realtà del terzo settore, fino
ad arrivare agli operatori individuali retribuiti,
fra i quali le assistenti familiari straniere
(le cosiddette “badanti”), di cui continuiamo
a sottovalutare la straordinaria ed insieme
problematica presenza e funzione (quelle
regolari, In Italia sono almeno 400 mila).
Un quadro, questo, che mescola apporti di
grande spessore quantitativo a qualitativo
ad aspetti critici come il lavoro nero, ancora
oggi legato a condizioni di clandestinità,
come la dequalificazione, la frammentazione,
la carenza di regolazione e di controllo,
i disagi di varia natura sia dalla parte
del lavoratore (meglio ancora: della lavoratrice)
sia dell’utente.
Il terzo campo, per altro evocato dai primi
due, riguarda la necessità di accelerare
e qualificare l’integrazione fra gli ambiti
e i servizi istituzionali, così come tra
i soggetti che sono a vario titolo impegnati
nel lavoro di cura e di assistenza. Si parla
continuamente di rete, un concetto che ha
giustamente assunto un valore predominante
come espressione di un pensiero e di strategie
di collaborazione tra i soggetti istituzionali
e sociali, e tra i servizi (mentre in questi
anni ha perso valore il termine assistenza,
che rinvia ad una visione dei servizi passivizzante):
ma la sua traduzione in realtà è ancora molto
difficile, anche perché tutti i soggetti
in campo, enti locali, apparati, servizi,
operatori, soggetti sociali, sindacati…,
sono ancora in difficoltà a declinarlo in
termini di precise elaborazioni, proposte
e iniziative socio-politiche.
E’ pericoloso puntare all’integrazione solo
o eminentemente per ridimensionare i costi
del servizio, per ridurre gli sprechi derivanti
da duplicazione dei compiti, dispiegando
anche, come avviene in larga misura nei vari
processi di “razionalizzazione” e di “aziendalizzazione”
e di ”esternalizzazione” dei servizi, la
logica che guarda, in ultima analisi, solo
ai costi oppure, nei migliori dei casi, solo
ai mezzi, alle dimensioni puramente operative:
si deve indubbiamente tenere in grande conto
questi fattori, ma insieme, come sostiene
anche il vostro documento, si deve guardare
al bene della persona e alle finalità del
servizio di cura e di assistenza, cioè agli
effetti integrativi degli impatti delle politiche.
Senza pretendere di esaurire una problematica
così complessa, ci pare che l’obiettivo della
domiciliarità possa servire come utile parametro
indicatore. Tutto questo se si intende la
domiciliarità come un progetto culturale
e politico ben più ampio del semplice favorire
la permanenza a domicilio dei soggetti anziani
o malati: è il collegamento delle persone,
delle famiglie, delle varie reti comunitarie
alla globalità del contesto territoriale,
dalla famiglia alla comunità locale in cui
i soggetti sono inseriti, con le diverse
storie e tradizioni. La dimensione della
domiciliarità si basa sui rapporti, sulle
reti di relazioni, sull’appartenenza al territorio,
in senso fisico, culturale e sociale. Ha
bisogno di istituzioni e di servizi che sappiano
progettare e guidare i processi, osservare
e capire che cosa succede dentro e fuori
di loro. E’ loro compito politico e sociale
assumere il ruolo di regia generale, e questo
richiede che in ogni loro ambito e livello
sappiano conoscere e ri-conoscere le risorse
plurime presenti nella società civile, nel
volontariato, nei nuovi soggetti delle risorse
informali, per saperle poi raccordare. E’
la concezione di un territorio-laboratorio.
Pertanto, anche ritornando ai precedenti
ambiti tematici - il lavoro familiare, il
mercato privato della cura, l’integrazione
e la rete – possiamo proporre, come primo
campo di intervento, di ripensare alla funzione
dei tradizionali servizi domiciliari pubblici,
a partire dai Servizi di Assistenza Domiciliare
dei comuni. Si tratta di un tema solo apparentemente
secondario, dato che evoca uno snodo importante:
nella rete territoriale dei servizi sociali
e sanitari messi a disposizione da Comuni
e Asl, manca il tassello che consente ai
familiari di mantenere a casa i loro vecchi,
senza per questo sobbarcarsi un carico troppo
pesante e, al limite, non compatibile con
le proprie esigenze esistenziali.
I Sad devono continuare a rispondere ad una
domanda sociale che è il residuo di ciò che
non trova risposta altrove, oppure diventare
strumento di una politica regolativa del
mercato, pubblico e privato, dell’assistenza
a domicilio? In altre parole, devono svolgere
un ruolo di “tampone” rispetto alla domanda
insoddisfatta o la loro esperienza e il loro
radicamento territoriale devono servire alle
cure domiciliari nel loro complesso?
Noi riteniamo che, se è vero che il Sad non
è più il servizio di assistenza domiciliare
“per eccellenza” ma una risorsa tra le altre,
la sua mission può e deve cambiare: non solo
gestire servizi ma presidiare la rete di
cura, integrare, garantire livelli minimi
di qualità e di sicurezza.
Questa tematica, nei suoi limiti, ci spinga
alla necessità di meglio integrare il pubblico
e il privato, così come quella dei vari servizi
fra di loro, mettendo in relazione aiuti
diversi tra loro (assistenza di base con
quella specialistica, apporto professionale
con quello familiare e del terzo settore,
trasporti, residenzialità temporanea, ristorazione,
acquisto di medicine, disbrigo di pratiche
burocratiche, ma anche iniziative di socializzazione
e così via). In questa logica si tratta in
primo luogo di creare dei “ponti” tra i diversi
soggetti coinvolti, capitalizzando le professionalità
finora maturate dalle assistenti di base
a beneficio di chi è professionalmente più
debole (ad esempio, le” badanti”, a partire
da quelle più disponibili a qualificarsi).
E’ anche il terreno per far sì che il sociale
si integri sempre di più con il sanitario:
questi, malgrado tanti studi, dibattiti,
piani, programmazioni ufficiali, sono ancora
a compartimenti stagni (ad esempio, Sad e
Adi continuano a riferirsi a comparti, quindi
a percorsi decisionali, a bilanci, a professioni,
fortemente separati…).
Se l’idea di domiciliarità rafforza l’attenzione
al territorio e alla comunità, rimane però
il rischio che l’accezione con cui si utilizza
il termine faccia riferimento unicamente
a soluzioni organizzative (come supporti
economici e di sollievo). Soluzioni preziose,
ma che non devono illudere sul fatto che
siano sufficienti per realizzare quella cultura
della domiciliarità diffusa che serva da
perno per il rinnovamento dell’intero sistema
di welfare territoriale.
La domiciliarità sollecita non solo cambiamenti
organizzativi, quanto soprattutto un cambiamento
di lettura della realtà, una rivisitazione
della più tradizionale impostazione del rapporto
servizio-utente, suggerendo uno sguardo più
attento alle persona, alla sua famiglia,
ai luoghi, ai tempi e alle relazioni in cui
si dà la sua vita.
Ma è anche compito delle forze sociali far
sì che il territorio diventi laboratorio
permanente di condivisione pratica di esperienze
per l’attivazione di collaborazioni e di
sinergie tra i soggetti – servizi, associazioni
di volontariato, organizzazioni – che, a
vario titolo e con cultura, storia, funzione
e modalità anche assai diverse, operano con/per
le famiglie.
|