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15 Settembre, 2002
Gianfranco Pasquino: Berlusconismo senza Berlusconi?
In questo articolo il noto politologo recensisce tre volumi sul tema: di Paul Ginsborg, di Alfio Mastropaolo e di Luca Ricolfi

Gianfranco Pasquino: Berlusconismo senza Berlusconi?

Che cosa è stato, se è effettivamente esistito, il berlusconismo? È davvero un fenomeno nato con Silvio Berlusconi che finirà con la sua eventuale sconfitta elettorale nel 2006, oppure, come hanno sostenuto molti commentatori e molti politici, è addirittura già finito agli inizi del maggio 2005 con la formazione del governo detto Berlusconi-bis?

Fioriscono le interpretazioni, mentre tacciono i protagonisti che non hanno (ancora?) rilasciato interviste piccanti e scritto libri di memorie con appassionanti rivelazioni. Difficile, pertanto, sostenere, come talvolta è stato fatto da alcuni commentatori di sinistra, che il berlusconismo è stato un progetto, non certamente politico, ma "antipolitico", ovvero addirittura un complotto. E, naturalmente, appare sostanzialmente inopportuno e fuorviante, neppure a mo' di provocazione o di satira, proporne qualsiasi collegamento con gli altri "ismi" della storia politica occidentale: totalitarismo, stalinismo, franchismo e, nel caso più vicino a noi, mussolinismo. Ai fini della chiarificazione e della comprensione del fenomeno "berlusconismo", valga, anzitutto, l'analisi strutturale.

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Berlusconismo senza Berlusconi?
GIANFRANCO PASQUINO

PAUL GINSBORG, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Torino, Einaudi, pp. 90, €9,00

ALFIO MASTROPAOLO, La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 200, €13,00

LUCA RICOLFI, Dossier Italia. A che punto è il "Contratto con gli italiani", Bologna, Il Mulino, pp. 177, €11,00

Che cosa è stato, se è effettivamente esistito, il berlusconismo? È davvero un fenomeno nato con Silvio Berlusconi che finirà con la sua eventuale sconfitta elettorale nel 2006, oppure, come hanno sostenuto molti commentatori e molti politici, è addirittura già finito agli inizi del maggio 2005 con la formazione del governo detto Berlusconi-bis?1

Fioriscono le interpretazioni, mentre tacciono i protagonisti che non hanno (ancora?) rilasciato interviste piccanti e scritto libri di memorie con appassionanti rivelazioni. Difficile, pertanto, sostenere, come talvolta è stato fatto da alcuni commentatori di sinistra, che il berlusconismo è stato un progetto, non certamente politico, ma "antipolitico", ovvero addirittura un complotto. E, naturalmente, appare sostanzialmente inopportuno e fuorviante, neppure a mo' di provocazione o di satira, proporne qualsiasi collegamento con gli altri "ismi" della storia politica occidentale: totalitarismo, stalinismo, franchismo e, nel caso più vicino a noi, mussolinismo. Ai fini della chiarificazione e della comprensione del fenomeno "berlusconismo", valga, anzitutto, l'analisi strutturale.

In una situazione di grave crisi politica e istituzionale, come quella sperimentata con l'esaurimento della prima fase della Repubblica, si aprí fra la metà del 1993 e le elezioni politiche del marzo 1994, una grande voragine ovvero un grande spazio politico. Su questo punto concordano le analisi sia di Paul Ginsborg sia di Alfio Mastropaolo.

Certamente preoccupato dalla vittoria – percepita allora come assolutamente probabile – dello schieramento di sinistra, nonché dalle politiche di un governo che, prevedibilmente, sarebbe stato assai poco rispettoso dei suoi interessi di imprenditore televisivo, Silvio Berlusconi, confortato dal parere di alcuni consiglieri, decise di "scendere in campo". Oltre che dalla condizione di "disponibilità" politica di una cospicua porzione dell'elettorato italiano, rimasto quasi del tutto privo dei suoi tradizionali referenti partitici (fino ad allora coalizzati nel pentapartito), Berlusconi venne favorito nell'impresa dalla sua notevole dotazione di denaro, dall'intensità del suo "fuoco" televisivo (che, talvolta, Ginsborg sembra ritenere decisiva), dalla sua capacità di utilizzare efficaci strumenti (sondaggi, focus groups, political marketing) per l'acquisizione di informazioni politicamente ed elettoralmente rilevanti sulle preferenze degli italiani.

Gli errori del centro e della sinistra fecero il resto. Tuttavia, un conto è vincere le elezioni, ben altro è governare. Sul punto ha molto da dire, e in maniera documentata, Luca Ricolfi, che analizza lo stato di attuazione del "Contratto con gli italiani". In ogni modo, nonostante la prosecuzione del suo controllo sulla televisione, Berlusconi fu sconfitto nelle elezioni politiche del 1996. Dunque, la manipolazione della televisione da sola non fa "berlusconismo". Serve anche la capacità di costruire e tenere insieme un'alleanza (nel 1996 la Lega si presentò da sola) cosicché una qualche abilità di mediazione e di persuasione risulta essere una componente intrinseca del berlusconismo.

La spiegazione strutturale, utile per capire le origini politiche del fenomeno, vede ridimensionarsi la sua validità quando cambiano le condizioni di fondo, quando non è più il tempo dell'ansietà collettiva, ma quello della soluzione dei problemi quotidiani. Dopo un po', il richiamo allarmato "al lupo, al lupo (comunista)" funziona meno, poiché il lupo non arriva e quando arriva ha vesti che sono assolutamente non identificabili con il comunismo. Venute meno le condizioni di ansietà rimangono, però, alcune trasformazioni della politica – e non soltanto di quella italiana – che favoriscono una specifica componente o variante del berlusconismo.

Declinati i partiti come organizzazioni e come luogo di reclutamento e selezione del personale politico, l'alternativa viene a essere rappresentata dall'autoproposizione di personalità spesso favorite nel consenso popolare dalla loro provenienza esterna alla politica. Per quanto qualche elemento di questo tipo sia riscontrabile anche in altri sistemi politici democratici (e bene fa Mastropaolo a evidenziarlo), è la cultura fondamentalmente antipolitica dell'Italia che ha aperto lo spazio più ampio e duraturo a questo fenomeno. Il berlusconismo è stato la punta più elevata della personalizzazione in politica. Si tratta di un elemento sicuramente non soltanto italiano,2

In quanto personalizzazione al massimo grado della politica, il berlusconismo ha potuto fare leva sui successi, per lo più molto concreti, dell'imprenditore fondatore e padrone della Fininvest e, in misura tutt'altro che trascurabile, del proprietario e presidente del Milan Football Club, in un paese dove, sarà bene ricordarlo, il calcio è lo sport più seguito (e più praticato). Il berlusconismo si è fondato sulla contrapposizione fra il potere personale acquisito da un imprenditore nella società e nell'economia, grazie al suo successo soprattutto monetario e finanziario, e il potere politico, o meglio dei politici, che, nella valutazione abituale di Berlusconi, non hanno mai lavorato.

Quando Berlusconi uscirà, o sarà messo fuori, dalla scena politica, potremo forse presumere che il berlusconismo sia finito, ma sottovaluteremmo le pulsioni antipolitiche della società e della cultura italiane, che sono destinate a restare poiché costituiscono un humus con radici profondissime nella storia del paese. Mi pare che né Ginsborg né Mastropaolo sappiano o vogliano approfondire questo delicato tema.

Nel corso della crisi di governo che ha portato alla formazione del Berlusconi-bis, qualche commentatore ha affermato che, in fondo, Berlusconi aveva conseguito indubbi risultati positivi e che avrebbe fatto meglio a uscire di scena in bellezza. L'exit sarebbe stato, nella grandiosità del gesto, all'altezza dell'incipit del 1994. Lasciando il teatrino della politica, sempre secondo questi commentatori, Berlusconi avrebbe anche potuto rivendicare due meriti straordinari: il primo, politico; il secondo, istituzionale.

Dal punto di vista politico, a Berlusconi viene accreditato il merito di avere compiuto quello che nessuno prima di lui nella storia repubblicana aveva neppure tentato: la costruzione di una destra di governo, moderna, costituzionale, democratica. Naturalmente, ciascuno di questi aggettivi meriterebbe, singolarmente preso, un saggio apposito. Certamente, la destra italiana è stata al governo del paese. Che si sia dimostrata "moderna" a confronto con altre destre – a esempio, con i conservatori di Margaret Thatcher oppure con i popolari di José Marìa Aznar – appare discutibile. Che sia stata "costituzionale" – se si intende semplicemente che ha acquisito ed esercitato il potere nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione – appare ovvio, né si sarebbe dovuto pretendere di meno. Tuttavia, è anche innegabile che più volte la "destra", con l'attiva partecipazione di Berlusconi, ha "forzato" la Costituzione – per esempio, in materia di autonomia del potere giudiziario e di pluralismo e imparzialità dell'informazione – obbligando il presidente della Repubblica a intervenire.

Non mi soffermo sulle riforme costituzionali perché non condivido gli eccessi dei critici, parecchi dei quali nient'affatto immacolati, anche se qualche spinta anticostituzionale nelle riforme della destra la si può facilmente riscontrare. Quanto alla "democraticità" di questa destra, politicamente parlando, troppo spesso mi è parso, e ci sono buone ragioni per argomentarlo e sostenerlo, che la sua concezione della democrazia sia, da un lato, assolutamente e terribilmente semplicistica, dall'altro, populista. Semplicismo e populismo si incontrano nell'affermazione, ripetuta fino al fastidio, che il governo ha ottenuto un mandato elettorale popolare e pertanto i cittadini, dopo aver votato, debbono rimanere zitti e buoni e lasciarlo lavorare. Dal canto loro, le altre istituzioni – parlamento (e opposizione parlamentare), presidente della Repubblica, corte costituzionale e magistratura – non debbono remare contro.

Questa idea del rapporto esclusivo e diretto tra il presidente Berlusconi e il popolo (condiviso da Umberto Bossi quando il popolo è quello padano), al quale vanno subordinate tutte le istituzioni, non è, evidentemente, un tratto né moderno né democratico. Concorre, invece, in maniera cospicua a definire il berlusconismo come ideologia di Berlusconi, di molti dei suoi collaboratori, incluso il ministro dell'UDC Carlo Giovanardi, e di molti berluscones in Alleanza Nazionale (ma non Gianfranco Fini).

A questo punto, è anche opportuno ricordare che la costruzione di una destra di governo non costituí per Silvio Berlusconi il perseguimento di un disegno democratico esplicito, ma un'assoluta necessità politico-elettorale che, semmai, suggerisce quanto grande sia la forza dei meccanismi elettorali e istituzionali. Lo "sdoganamento" del Movimento Sociale ha risposto a ben altre motivazioni che non quella della democratizzazione della destra neofascista, mentre l'evoluzione successiva di Alleanza Nazionale è stata essenzialmente opera solitaria di Fini che mirava, giustamente e comprensibilmente, a legittimare se stesso e il suo partito in vista di una sua ascesa alla carica di governo più elevata e comunque ad ampliare il suo bacino elettorale. Dal canto loro, troppo spesso Berlusconi e i suoi collaboratori hanno "sdoganato" comportamenti leghisti assolutamente reprensibili (altro che destra moderna e democratica!), e persino legittimato a posteriori le attività dei "ragazzi di Salò", che è difficile rivalutare come ingenui combattenti per la libertà.

Dal punto di vista istituzionale, è stato attribuito a Berlusconi il merito della strutturazione di una democrazia bipolare. Naturalmente, questo merito appartiene in primo luogo a tutti coloro, cittadini compresi, che hanno raccolto le firme, partecipato ai comitati e, alla fine, votato per i referendum elettorali e antipartitocratici, per l'abolizione di alcuni ministeri e del finanziamento statale ai partiti. In quella non breve e non marginale storia, Berlusconi non compare affatto. La democrazia bipolare non rappresenta, da nessun punto di vista, un progetto da lui fermamente perseguito. Al contrario, quando si trattò di abolire la scheda proporzionale con il proposito di accentuare il contenuto maggioritario della legge elettorale vigente (sono costretto a semplificare), Berlusconi prima oppose la sua indifferenza, poi, nel 2000, coniò un brillante slogan: «Stare a casa per mandarli [governanti e dirigenti del centrosinistra] a casa», facendo fallire il referendum per mancanza di quorum.

Se poi la democrazia bipolare corrispondesse a una sua profonda e radicata convinzione, non si capirebbe perché, almeno nel corso degli ultimi cinque anni, abbia ripetutamente manifestato l'intenzione di riformare la legge elettorale in direzione proporzionale, rendendo di conseguenza il bipolarismo molto più fragile e precario, se non quasi impraticabile, e riaprendo la strada a governi imperniati sul centro. È giusto, invece, attribuire a Berlusconi e ad alcuni suoi collaboratori il merito di avere immediatamente compreso nei suoi termini effettivi e concreti la rilevanza della competizione bipolare. Di qui, il capolavoro politico che consistette nel mettere insieme due coalizioni con partner fra loro altrimenti molto poco compatibili: Polo delle Libertà (Forza Italia e Lega al Nord) e Polo del Buongoverno (Forza Italia e Alleanza Nazionale nel Centro-Sud), in occasione delle elezioni del 1994.

Continua, tuttavia, a essere evidente la nostalgia per una situazione in cui Forza Italia, novella Democrazia Cristiana, con i suoi moderati, riuscirebbe a collocarsi al centro dello schieramento politico e a trattare/contrattare da una posizione vantaggiosa, con una pluralità di alleati possibili, una piccola gamma di maggioranze a geometria variabile, dalla destra, anche estrema, alle estremità del centro. Qualche volta tale rimpianto viene proclamato a voce alta e forte. Ripeto: Berlusconi non è affatto "bipolarista" per convinzione. Lo è esclusivamente per opportunità e per necessità. Soltanto in questo modo si capisce per quale motivo insista nel prendere in seria considerazione il ritorno a un sistema elettorale proporzionale il cui primo effetto, in un sistema partitico mantenuto frammentato dal vigente "mattarellum", consisterebbe nel vanificare il bipolarismo. Però, è anche vero che, nelle condizioni attuali di declino di Forza Italia e di debolezza delle altre componenti della Casa delle Libertà, qualsiasi sistema elettorale proporzionale consentirebbe, da un lato, di attutire le conseguenze numeriche di una sconfitta alle urne; dall'altro, di ostacolare la confluenza dei partitini del centrosinistra nel grande contenitore dell'Unione, incoraggiando, al contrario, le spinte centrifughe.

Nonostante le manifeste simpatie di Berlusconi per George W. Bush, curiosamente controbilanciate da quelle per Vladimir Putin, entrambi suoi amici perché potenti, il berlusconismo non è stato, tranne che per quel che riguarda le tasse, una variante del neoconservatorismo, almeno di quello trionfante dell'ultimo quadriennio repubblicano USA. Da una destra moderna, costituzionale, democratica ci si potrebbe attendere un atteggiamento non confessionale nei confronti della religione. Purtroppo, di questo non parlano né Ginsborg né Mastropaolo. Quanto ai neoconservatori veri, sappiamo che né Ronald Reagan né Margaret Thatcher fecero ricorso alla religione come instrumentum regni, mentre troppo spesso, in maniera evidentemente opportunistica, Berlusconi ha appoggiato posizioni clericali nel parlamento italiano e ha esaltato il papa tranne, poi, come in materia di guerra all'Iraq, disattendere completamente le posizioni di Giovanni Paolo II. Sul punto, pertanto, non credo che il berlusconismo meriti l'appellativo di clericale. Piuttosto, si tratta di opportunismo, in chiave platealmente elettoralistica, vizio alquanto diffuso nella cultura politica delle élite e delle masse italiane.

Infine, si dice che la distinzione destra/sinistra si sia venuta offuscando in molte democrazie. Sebbene non condivida affatto quest'affermazione, credo che neppure i suoi sostenitori si spingano fino a negare che, in generale, la destra è a favore del mercato, come luogo e strumento di assegnazione ottimale di risorse e di ricompense, mentre la sinistra continua a pensare che lo stato abbia fra i suoi compiti quello di intervenire, non esclusivamente, in ultima istanza, e solo come surrogato, nei processi di assegnazione di alcuni "beni" politici e sociali. In quanto ideologia di un imprenditore, il berlusconismo avrebbe dovuto porre al centro della sua attività proprio la costruzione di un mercato altamente competitivo, dinamico, agile fornitore di beni, servizi, premi al merito.

Non è questa la sede per entrare nella disamina dell'effettiva opera di governo di Berlusconi utilizzando come parametro, se non esclusivo, almeno dominante, lo spazio e il potere del mercato al quale affidare parti cospicue di sanità, scuola, occupazione, pensioni. Avrebbe, credo, dovuto farlo Ricolfi, approfittando dell'analisi del "Contratto con gli italiani" per andare alle radici del discorso berlusconiano. Sicuramente, Berlusconi ha incoraggiato il ricorso al mercato, ma, altrettanto sicuramente, si può affermare che non ne ha fatto una priorità dell'azione del suo governo e che, nel settore di suo personale interesse, quello delle telecomunicazioni, ha operato per mantenere il duopolio vigente e, consapevolmente, per irrigidirlo.

Da ultimo, una destra moderna, costituzionale, democratica, dovrebbe anche, e forse in special modo, caratterizzarsi come una destra liberale, lasciando a una corrente di Alleanza Nazionale di definirsi "Destra sociale", a difesa dell'intervento dello stato. Le interpretazioni del liberalismo sono molto numerose e variegate. Tuttavia, nessuno degli studiosi, neppure fra i liberali liberisti, nega che il cardine del liberalismo in politica è costituito dalla limpida separazione fra i poteri. Il liberalismo nasce e fiorisce sulla base del principio che il potere economico deve essere tenuto separato dal potere politico e che il potere politico non deve asservire il potere economico, ma non deve neppure "servirlo". L'irrisolto, nonostante l'approvazione di una truffaldina legge in materia, conflitto di interessi, rivela che il berlusconismo si è caratterizzato anche come illiberale commistione di potere economico con potere politico, con il primo regolarmente in posizione dominante: un esito senza precedenti e, almeno visibilmente, senza imitatori in nessuna delle democrazie degli antichi e dei moderni che abbiamo fin qui conosciuto.

Nessuna sconfitta elettorale può, da sola, porre fine a un'ideologia. Quand'anche Silvio Berlusconi perdesse il potere politico a livello nazionale nelle prossime elezioni generali, se il berlusconismo non è stato soltanto l'esaltazione di un concentrato di risorse, di comportamenti e di affermazioni destinato a scomparire con la fuoriuscita di Berlusconi dalla politica, ma un'ideologia, non è affatto detto che questa si dissolverà con la perdita del potere politico. Forse, il berlusconismo è stato soltanto una piccola parentesi nella storia politica italiana. Sul punto, mi sarei aspettato qualche approfondimento in più da parte di Ginsborg e di Mastropaolo. Forse, invece, con il suo populismo, con la sua antipolitica, con il suo esercizio sregolato del potere, il berlusconismo è stato un altro corposo capitolo dell'autobiografia della nazione.

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1. Si veda l'analisi di F. Rampini, "L'Italia divisa di Berlusconi", la Rivista dei Libri, giugno 2005, pp. 4-7.

2. Come documenta il bel libro curato da Th. Poguntke e P. Webb, The Presidentialization of Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford, Oxford University Press, 2005.

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GIANFRANCO PASQUINO iè professore di Scienza politica nell'Università di Bologna. Insegna anche al Bologna Center della Johns Hopkins University. È autore di Il sistema politico italiano (2002) e Sistemi politici comparati (2004), entrambi pubblicati dalla Bononia University Press, e curatore di Capi di governo (Il Mulino, 2005).

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la Rivista dei Libri
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Fonte: www.larivistadeilibri.it/2005/09/pasquino.html 


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