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15 Settembre, 2002
La leggenda dei pesci bambini di Francesco Bova
libro edito da Giulio Perrone Editore

La leggenda dei pesci bambini di Francesco Bova
libro edito da Giulio Perrone Editore

La nuova collana di narrativa italiana e internazionale arriva a novembre...
di Valentina Colacelli
Sarà La leggenda dei pesci bambini straordinario romanzo d’esordio di Francesco Bova ad aprire la nuova collana di narrativa italiana e internazionale che dovrà porsi come obiettivo quello di divenire un punto di riferimento sia per la ricerca letteraria che per la scoperta di nuove tendenze. Un’avventura che inizia da un autore italianissimo, già poeta importante tra gli anni ’70 e ’80 oltre che stimato partner di progetti importanti come quello della rivista letteraria Malvagia portata avanti, fra gli altri, con Carlo Cassola.
Dell’autore si sono occupati fra gli altri Roberto Roversi, Cesare Viviani e Primo Levi che dice di lui e della sua opera: "Vi si colgono letture fruttuose di modelli recenti e lontani, anche molto lontani; sono allegri e tristi (ed è questa appunto, la condizione umana), ma tutti alacri e liberi."
Formato 15 x 21
pp. 240 - Euro 14,00

Giulio Perrone Editore
Via Giovanni da Procida, 31
Roma RM 00162 Italia
Tel: 06 99709480 - Fax: 06 99709480
redazione@giulioperroneditore.it
www.giulioperroneditore.it




Francesco Bova è nato a Pietra Ligure nel 1953.
Vive e lavora in provincia di Milano. Negli anni Settanta ha pubblicato quattro piccoli libri di poesia: Amore di nano (1973), Il suicidio di Stato (1977), Il leone Giustino e l’indiana Manù (1979), Narciso e Autòs (1989). Negli anni Ottanta ha partecipato a molti meeting di poesia in pubblico e alla radio e con alcuni amici, tra cui Carlo Cassola, ha partecipato all'esperienza della rivista di letteratura Malvagia.

Il mito
Se esiste una geografia esistenziale che descrive i luoghi della memoria, una sorta di cartografia dell’anima, anche la collina di Canun e il torrente Scarinciu distano poche miglia di pensiero da Santo Stefano Belbo e dalle Langhe di Pavese.
La strada di San Giovanni di Calvino è ripida come quella calpestata da Luca. E forse anche nelle acque del Ticino di Mastronardi vive una colonia di pesci bambini, fratelli con le branchie e le ali di quelli che vivono nella pozza del canneto.




Piani narrativi che paiono costruiti per non toccarsi mai, la cui eco magicamente torna indietro, come un boomerang sapien-temente lanciato verso altezze irraggiun-gibili alle quali il lettore giunge sempli-cemente alzando una mano e afferrandolo.
Numerosi gli elementi che marcano l’unicità del primo romanzo di Francesco Bova.
A partire dallo spazio che lo scrittore si ritaglia per introdurre il capitolo: la “Nota dell’Autore”.
E’ l’angolo delle sue confidenze al lettore, una terra di nessuno in cui è possibile essere fuori e, contemporaneamente, dentro il romanzo: riusciamo quasi a vederlo, l’Autore, mettere una mano di taglio affianco alla bocca e parlarci all’orecchio, un sussurro sapiente che ci mette a parte di ingranaggi a noi sconosciuti. Poi ci sono i personaggi di questa storia, tutti delineati con precisione e passione, pure se – per fortuna - non sempre con realismo. A cominciare dai pesci bambini, naturalmente, gli amici di Luca, protagonista trasversale del romanzo. I pesci bambini sono “le anime argentate che guizzano nell’anima più grande del mondo”, ovvero i suoi sogni e – cosa più importante– i canti della sua memoria.
Luca è il nodo gordiano intorno a cui la storia si stringe: il protagonista è come tangente alla storia che attinge linfa dal sentimento di estraneità al mondo che Luca sempre più isola riconoscendolo come il suo male oscuro, quello da cui potrà liberarsi solo ricongiungendosi con il tutto.
Destino che l’autore riserva anche a Salva, l’omicida che con un gesto imprevedibile fa strage dei suoi vicini di casa. Lui è l’uomo imprigionato nel suo peccato che dal suo peccato esce solo compiendone un altro contro se stesso. Indimenticabili le pagine che raccontano il centellinare del tempo in carcere, la non vita che si sostituisce al pulsare del cuore, il pensiero che si fa reiterata costruzione di cerchi concentrici.
E poi ci sono le donne. A loro sono riservate pagine speciali. Un amore fuori misura quello dell’Autore per le sue donne prostitute, streghe, lucciole… angeli… fontane: come non sentire il pesce bambino che nuota nella pancia colma d’acqua di Caterina che rammenta la propria gravidanza?
Un elemento che contraddistingue le donne di questa storia è il pervicace attaccamento alla vita contro una fascinazione della morte tutta maschile: l’attaccamento alla vita di Magda che, ferita a morte, non riesce a liberarsi della nostalgia del corpo, la resistenza di Lella che sopravvive allo scempio che viene fatto del suo corpo, la triste consapevolezza di Caterina che accetta il sacrificio del figlio che il vento le sussurra all’orecchio. E poi c’è Marianne, la compagna di Luca, la madre di suo figlio, quella che più di ogni altra lo conosce, che riesce ad amare quelle stesse debolezze per le quali lo perderà.
Nell’opera la narrazione pura lascia spesso il posto all’introspezione psicologica che si stempera nella cronaca di un omicidio per poi avvilupparsi tra le maglie di un suicidio annunciato dove l’assassino non è solo responsabile dell’annichilimento della sua famiglia e della sterilità dei suoi campi ma è chiamato anche a pagare il fio di barbi che scorazzano nello Scarinciu intorno a pesci bambini, oltre ad essere reo della sua stessa morte dopo un rito che richiama la preparazione dei kamikaze musulmani ad un attentato suicida.
Morte chiama morte, sogni chiamano illusioni, follia chiama riflessione. Tutte queste componenti si mescolano nel romanzo di Bova per poi disincantarsi in un’alchimia dal sapore culinario: la sensazione è quella di una goccia di olio che qua e là cade nel composto letterario consentendo la separazione della morte piuttosto che del sogno in questo impasto così sapientemente dosato. Dosate quindi anche le separazioni che incorniciano alcuni momenti in zoomate silenziose che permettono al lettore di insinuarsi tra le pieghe di una storia multipla che in un percorso circolare parte dalla morte irragionevole, violenta e senza senso, per giungere a una morte letteraria.
Irreale questa quanto cruda quella; filosofica questa quanto quella è realistica al limite del possibile;dolce e “indolore” questa come atroce l’altra. Laddove, infine, quella morte è l’emblema di un’uscita forzata dalla vita, quest’altra che conclude il romanzo è emblematica del ricon-giungimento con la natura, un ritorno all’unità.
Finalmente il congiungimento con il tutto.
Angela Manganaro

 


       



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