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15 Settembre, 2002
«Gli zampognari di Scapoli»
Mostra fotografica di Vittorio Dotti alla Libreria Ponchielli

Gli zampognari di Scapoli: il Festival Internazionale della Zampogna e l’“essenza sonora” dell’uomo

Mostra fotografica a cura di Vittorio Dotti
Libreria Ponchielli – Cremona
dal 13 marzo al 1 aprile 2006

 

La musica è il sole umido
che canta l’aurora
(Marius Schneider)
Me voglie fà nu cante ‘n cim’a stu colle,
Voglie fa rintrunà tutta la valle
(sonetto molisano raccolto a Tavenna)

La forza della procreazione,
la prima estasi di vivere
e la gioia di fronte alla crescita
trasformarono il silenzio della contemplazione
nel suono
(canto Maori)

(…) la natura rinnova agli occhi dell’uomo i fasti
del suo incommensurabile equilibrio. E’ dentro
questo equilibrio che si muove ogni essere e ogni
cosa. L’equilibrio che ci riguarda è direttamente
legato all’uomo; anzi devo dire che il suono è
anche creato in lui.
(Franco Izzi, conservatore del folklore scapolese)

I – Uno sguardo storico-antropologico ed etnomusicologico

A) Storia, architettura e paesaggio - Innominato sulle guide turistiche o disbrigato con svelti accenni cursori, l’abitato di Scapoli (alt. 611 s.l.m.; sup. 16 kmq.; abit. 945) sorge alle pendici meridionali delle Mainarde, nell’Alta Valle del Volturno, pochi chilometri a nord-ovest di Isernia.

Nel Chronicon Volturnense (principale fonte documentaria dell’Abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno) si afferma che fino all’VIII secolo il sito dell’odierna Scapoli consisteva in un lussureggiante manto boschivo. Al volgere dell’anno Mille, nell’epoca detta dell’incastellamento – in cui vennero fondati molti paesi dell’Alta Valle volturnese –, si registra la nascita del Castrum Scappili. Sempre nel Chronicon vien detto che intorno al 981 l’abate Giovanni “homines conduxit et habitare fecit in Castro Scappili”. Furono dunque i monaci di San Vincenzo, insieme ai primi abitanti del territorio (di cui vengono menzionati i nomi: mastro Lupo e mastro Giovanni, coi loro figli; Varvato e Azzo Cantoni, coi fratelli ed eredi), che resero coltivabile questa terra altrimenti inospitale.

Le indagini toponomastiche hanno evidenziato alcune possibili origini del nome: 1) essendo scapoli (non ammogliati) i primi dissodatori; 2) dal lat. scopulus (scoglio, rupe), oppure da scapulae

(spalle, declivio di monte); 3) dal nome dei primi affittuari della zona: Scaptilus Sculdais.

Nel periodo della dominazione angioina, Scapoli appartenne all’Abruzzo Citra (Chieti). Nella seconda metà XVI sec. fu proprietà della famiglia Bucciarelli, poi nel XVII fu aggiudicato ad Innico di Grazia, barone di Cerro, che lo cedette a Tommaso Calvo. Gli ultimi signori di Scapoli furono i Cestari, un ramo della famiglia Ayerbo d’Aragona, alla fine del XVIII secolo. In seguito, il paese fece parte della Terra di Lavoro e soltanto nel 1861 entrò nel territorio di Campobasso (attuale capoluogo della Regione Molise). Dal 1970, infine, rientra nella provincia di Isernia.

Le vicende storiche che ho brevemente delineato non distinguerebbero Scapoli da tanti altri villaggi dell’alto Volturno. Ma c’è un episodio, accaduto durante il secondo conflitto mondiale, che impone il paese di cui ci stiamo occupando alla ribalta storiografica nazionale: fu qui che, nella primavera del 1944, si costituì il Corpo Italiano di Liberazione (CIL) che, sotto la guida del generale Umberto Utili – talvolta son’utili anche i generali! –, conquistò Monte Marrone e penetrò nella linea “Gustav”, a nord-est di Cassino. Nel piccolo abitato vulturnese venne siglato un atto glorioso del grande dramma civile della Resistenza. Ne è ulteriore testimonianza la stele dell’intellettuale Jaime Pintor, ucciso poco più che ventenne mentre attraversava queste zone per unirsi alle file partigiane del Lazio.

 

Tra le emergenze architettoniche scapolesi si distingue senz’altro il Palazzo dei Marchesi Battiloro, con vertiginose mura strapiombanti sulla roccia. Ariose stanze all’interno, ripostigli e, nei locali della cucina, un grandioso camino di pietra. Un dedalo di passaggi segreti aggiunge mistero alla visita del Palazzo marchesale.

Antistante Palazzo Battiloro un magnifico androne, detto Sporto, da cui inizia il Cammino di Ronda. L’itinerario si snoda a 360° lungo il profilo roccioso su cui si estolle il borgo di Scapoli.

Dallo Sporto s’imbocca la viuzza detta Scarupato, sormontata da secolari travi lignee, e si prosegue in un percorso che alterna anguste finestrelle e antichi portoncini di fóndachi. Sul lato destro dell’itinerario, aperture a tutto sesto permettono di abbracciare con lo sguardo il paese sottostante.

Superata la Portella, la stradina si fa più ampia e da un muretto è possibile avvistare Monte Azzone e le romantiche vestigie di Rocchetta Vecchia. Inoltrandosi fino alle Merghe si conquista la prospettiva più panoramica del cammino: stupefacente approdo visuale sulle cime di Monte Marrone e Monte Mare, appartenenti alla catena delle Mainarde.

Si narra che il pittore francese Charles Moulin, osservando per la prima volta i tagli di luce rosata sulle cime innevate di Monte Mare al crepuscolo, sia quasi caduto in un deliquio di estasi.

 

Situata ai piedi del Cammino di Ronda, nel Rione San Giovanni, l’omonima Cappella custodisce un pregevole affresco, nel quale Cristo è effigiato nell’abbraccio vulvare di una mandorla.

All’esterno della Cappella si può ancora vedere l’antica fonte, da cui fino agli anni settanta le belle fanciulle scapolesi attingevano l’acqua con le tine.

Nella Chiesa Parrocchiale di San Giorgio la pala dell’altar maggiore ritrae l’omonimo santo, patrono del paese.

Di grande impatto estetico sono, infine, le vecchie dimore scapolesi, che i virtuosi scalpellini locali hanno dotato di pregevoli portali e chiavi di volta in pietra.

A testimoniare il valore dei magnani (fabbri ferrai) autoctoni, restano superbi balconcini in ferro battuto, che le donne scapolesi, a primavera, adornano con le tinte e i profumi dei fiori.

 

B) Il Festival Internazionale della Zampogna – Scapoli è denominata “capitale mondiale della zampogna”. Dal 1975, infatti, vi si svolge, nell’ultimo week-end di luglio, la Mostra Mercato e Festival Internazionale della Zampogna. La manifestazione richiama nel borgo vulturnese migliaia di turisti, provenienti da ogni parte d’Italia e alcuni anche dall’estero: cultori delle tradizioni artigiane, esperti di musica popolare, persone di varia estrazione ed età, attratte tutte dal fascino naïf del folklore musicale.

In occasione del Festival, convengono a Scapoli i migliori virtuosi della zampogna italomeridio_

nali nonché alcuni epigoni della tradizione esecutiva scozzese.

In un vano di Palazzo Battiloro, nella parte alta del paese, e nelle suggestive borgate di Ponte e di Fontecostanza - raggiungibili percorrendo un antico sentiero tra fruscìi d’ulivi, dei peri, dei sorbi, degl’albicocchi e dei ciliegi - si possono visitare le botteghe dei più noti costruttori di zampogne molisani.

 

C) Gli zampognari, la zampogna e gli artigiani-costruttori di Scapoli – Connessa intimamente

alle vive fibrille della tradizione pastorale e assurta quasi ad emblema di quella cultura, la zampogna ha subito lo stesso processo di marginalizzazione che ha sfibrato il nucleo pulsante della civiltà contadina.

Un tempo encomiati interpreti della sacralità natalizia, nonché acclamati esecutori di tanta musica profana (saltarelli, tarantelle etc.), oggi gli zampognari ravvivano soltanto qualche sparuto (e spesso oleografico) fenomeno di revival.

Assistiamo qui all’ennesimo (e purtroppo ordinario) esempio di come la civiltà dell’industria e delle macchine – con saccente e spietata arroganza – trascuri e annulli tutto ciò che non rientra nel novero dei suoi valori e che essa – ignorandone i nessi – non riesce a comprendere: la natura, le tradizioni, la nostalgia, la memoria, la lentezza, il silenzio, il pregio della solitudine e il significato del tempo… (Dir questo non significa demonizzare in toto le realizzazioni sociali, culturali, scientifiche e tecnologiche che si sono affermate a partire dalla seconda metà del secolo scorso).

Credo comunque che sia pienamente giustificato se un senso di lutto e di dolore vena il nostro stupore dinnanzi allo strenuo rigoglio di costumanze ancestrali: è come vedessimo, in una pianta gemmante fuori stagione, che il suo fusto non ha radici né humus cui attingere, né aria da cui bere la luce.

 

La zampogna è uno strumento aerofono ad ancia, diffuso sin dall’antichità con una grande varietà tipologica in tutta l’Europa, in Asia e nell’Africa settentrionale. Deriva presumibilmente dal flauto di Pan o siringa (strumento noto anche nell’antichità classica) mediante l’innesto di alcune ‘canne’ (o ‘fusi’) in un ‘otre’ di pelle riempito d’aria.

La ricerca etno-organologica non ha ancora individuato con certezza l’epoca e la regione in cui fu ideato l’innesto ‘fuso-otre’, a causa dell’assenza di fonti bibliografiche ed iconografiche probanti.

Presso i Romani era in uso uno strumento simile alla zampogna, conosciuto col nome di tibia utricularis. Dal Medioevo in poi si moltiplicarono strumenti affini, il più noto dei quali, la cornamusa, conobbe un’ampia diffusione nella musica tradizionale scozzese, irlandese ed inglese.

L’etimologia più accreditata rimanda al termine greco ‘symphonia’ (accordo di suoni), ma è pure interessante esaminare quella proposta da Franco Izzi (esperto conoscitore della prassi costruttiva ed esecutiva degli strumenti scapolesi): essendo particolarmente difficile acquisire quella coordinazione tra pressione del braccio e respiro necessaria per ottenere una fluida continuità di emissione sonora, Izzi suppone il termine zampogna derivare da ‘sanbursa’ o ‘sonbursa’, come crasi di ‘san-’ (da ‘sapiens’ sapiente, o da ‘sonà’ sonare) e di ‘-bursa’ (otre di pelle).

Dante Alighieri utilizza, nel Paradiso, il termine “sampogna”.

Rifacendoci ad una categoria ormai acquisita nella ricerca musicologica contemporanea, possiamo affermare che “gli strumenti musicali, come tutti gli elaborati culturali, seguono vicende generali (insediamenti, migrazioni, conflitti e commistioni tra popoli); in questo senso alcuni tra i caratteri tipologici fondamentali degli strumenti a noi contemporanei possono essere ricondotti […] a due grandi aree, entro le quali hanno agito, in epoche diverse, i flussi compositi di grandi correnti culturali: l’area mediterranea, interessante l’Italia centro-meridionale e le isole da una parte, e l’area continentale europea, cui si connettono i caratteri dell’Italia del nord dall’altra […] (Febo Guizzi). Le zampogne dell’Italia centrale e meridionale (area mediterranea) si distinguono da quelle dell’Italia settentrionale (baghèt delle Alpi bergamasche, piva dell’Appennino parmense, müsa delle «Quattro Provincie») per la presenza del doppio chanter (termine anglosassone indicante la canna dotata di fori digitali, che non trova corrispettivo nella lingua italiana, ma svariate designazioni vernacolari) e dei bordoni (uno, due, tre, eccezionalmente quattro) impiantati nello stesso blocco che porta i due chanters.

La varietà tipologica che presentano le zampogne italiane centro-meridionali e siciliane sembra dipendere dai differenti stadi evolutivi dello strumento. Ricordiamo la «zampogna di Fossalto» (in Molise), un tempo suonata durante il rito maggese della Pagliara; la surdulina, diffusa nella Calabria settentrionale e nelle colonie albanesi al confine tra Calabria e Basilicata; la zampogna a paro, della Calabria meridionale e della Sicilia sud-orientale.

Il tipo di zampogna un tempo più diffuso nel Molise, in Abruzzo e nel Lazio era la cosiddetta

«zampogna zoppa», ampiamente rappresentata nell’iconografia ottocentesca. In questa forma, lo strumento è attualmente in uso soltanto nella zona di Amatrice (Alto Lazio), dove è denominato le ciaramelle, e in ristrette aree dell’Appennino laziale ed abruzzese (provincie di Roma, Teramo e dell’Aquila). Tutte le zampogne zoppe sono impostate con le scale delle due canne a distanza di quarta (come nelle zampogne a paro calabresi e siciliane).

Fu verosimilmente a Napoli, nel XVIII secolo, che si raggiunse lo stadio moderno dello strumento, con l’aggiunta di una chiave (simile a quella delle bombarde rinascimentali) alla canna sinistra, ottenendo la cosiddetta «zampogna a chiave», attualmente presente nel Lazio meridionale, in Molise, in Campania, nella Basilicata occidentale e nella Calabria settentrionale. L’impianto di questo strumento è basato sulle scale dei due chanters a distanza di ottava (con la particolarità della zampogna di Monreale che suona in minore). La zampogna a chiave viene costruita in varie misure; la più usuale è detta «25» (in Lazio, Molise e Campania settentrionale), dalla lunghezza in centimetri del fuso sinistro (misurato da inizio canna al primo foro melodico).

Per costruire i loro strumenti, gli artigiani scapolesi utilizzano soprattutto legno di ulivo, di ciliegio, di prugno e di acero, ma anche di mandorlo, sorbo, albicocco, pero e bosso.

Per realizzare l’otre, alle pelli di pecora e di capra va sempre più sostituendosi l’utilizzo di camere d’aria ricoperte di pelle conciata o sinetica.

 

Dal momento che la zampogna offre un ridotto spettro di modulazione melodica, nella prassi esecutiva essa funge spesso da strumento d’accompagnamento della ciaramella. La ciaramella (dal lat. tardo ‘calamellus’, dim. di ‘calamus’ canna) è un oboe semplice privo di pirouette. Denominata anche biffera, piffera o pipita, il suo utilizzo è testimoniato in Molise, Abruzzo, Lazio, in Campania e in Calabria. L’associazione della ciaramella con la corrispondente zampogna a chiave (e, più raramente, con la zampogna zoppa) è caratteristica di buona parte dell’area mediterranea.

 

E’ frequente l’interscambio fra i nomi di zampogna e di cornamusa. Si tratta, invero, di strumenti imparentati, ma notevolmente dissimili. La cornamusa è uno strumento esclusivamente solistico, con una gamma di modulazione espressiva equiparabile al repertorio melodico della ciaramella. La canna sonora a modulazione di suono delle cornamuse viene suonata come un flauto, con entrambe le mani dell’esecutore che digitano sullo stesso fuso. La zampogna, al contrario, è essenzialmente uno strumento d’accompagnamento e le mani del suonatore operano su due fusi separati (accordati – come già detto – a un’ottava negli esemplari a chiave e a una quarta nelle zoppe). Inoltre, a differenza di molte cornamuse, la zampogna italiana non monta alcun ‘soffietto’, ma viene gonfiata direttamente dalla bocca dello zampognaro.

Tra le zampogne italiane, l’unico modello che può essere correttamente assimilato alla cornamusa è la piva da saca del Veneto (la baghèt delle valli bergamasche). I 7 fori di modulazione e i 2 bordoni sonori che caratterizzano questi modelli, sembrano infatti testimoniare una derivazione diretta della piva nord-italica dalla cornamusa scozzese (Higland Bagpipe).

 

Venendo infine a trattare degli artigiani-costruttori di zampogne scapolesi, è doveroso innanzitutto affermare che Scapoli non è, evidentemente, l’unico paese italiano dove sopravvive questa preziosissima forma di artigianato. Restando in ambito molisano, è d’uopo ricordare alcuni luoghi in cui è stata tramandata nei secoli la manifestazione culturale in esame.

Villalatina anzitutto, dove la famiglia D’Agostino ha preservato e trasmesso, forse anche agli artigiani scapolesi, un’ineguagliabile maestrìa artigiana. Acquafondata, Castelnuovo al Volturno, San Polo Matese, S. Biaggio Saracinisco (i cui nomi meriterebbero menzione già solo per il loro fascino sonico) sono altri paesi che nei secoli si sono distinti nell’artigianato e nell’utilizzo musicale delle zampogne.

Scapoli resta però, attualmente, la località italiana in cui maggiormente si concentrano i costruttori e i suonatori di zampogna.

 

A questo punto vorrei nominare direttamente alcuni protagonisti di questa mirabile tradizione artigiana: Benedetto (†1965), Ettore (†1986), Luciano e Umberto Di Fiore, Gerardo Guatieri (†’04),

Angelo Guatieri, Luigi Ricci, Palmerino Caccia (†1991: costruttore di ance), Antonio Pitassi (†1993: fabbro che realizzò gli utensili per gli artigiani scapolesi).

Merita un approfondimento la figura di Gerardo Guatieri, di gran lunga il più noto e apprezzato tra i costruttori di zampogne laziali-molisane, sia presso gli specialisti sia presso il vasto pubblico amatoriale.

Fino a pochi anni or sono era possibile visitare la sua bottega, dove convenivano ricercatori e musicisti, coi quali Gerardo si intratteneva a narrare gli episodi della sua vita.

Non discendeva, lui, da antenati che gli avevano “consegnato il mestiere” (com’è il caso, ad esempio, della famiglia Di Fiore, sempre di Scapoli). Era tornitore meccanico ma, come prigioniero dei tedeschi, finse di conoscere e rapidamente acquisì l’arte della tornitura del legno, riesumando quanto aveva osservato nei laboratori artigiani di zampogne e ciaramelle, frequentati in gioventù essendo lui stesso un discreto suonatore di questi strumenti.

Dopo la liberazione aprì una sua bottega e da allora, per tutta la vita, esercitò la professione di costruttore, coniugando in modo singolarissimo l’imperativo di conservare e trasmettere il patrimonio tradizionale con un vigoroso impulso innovativo (si deve a lui, in collaborazione con Cesare Perilli, l’ideazione e la realizzazione della zampogna detta a quattro canne).

Gerardo Guatieri è morto nel 2004 ad 85 anni. Il figlio, che risiede in Belgio, non ha intrapreso la professione del padre. Con Gerardo si è spento irrevocabilmente un segmento di quella cultura orale ed artigiana – fatta di valentìa, orgoglio, caparbietà, intuizione innovativa (ma senza remissione alle mode degeneri del mercato), acuta consapevolezza del proprio compito “tradizionale-evolutivo” – che l’ignobile contaminazione di ogni stilla del vivere cogl’imperativi suicidiari del mercato ha inesorabilmente condannato all’estinzione.

Credo di non distorcere il pensiero di Saramago citando, a conclusione, le parole che egli fa dire al vasaio Cipriano Algor, protagonista del romanzo “La caverna”: […] sono i tempi che cambiano, sono i vecchi che ogni ora invecchiano di un giorno, è il lavoro che non è più quello che era, e noi che possiamo essere soltanto ciò che siamo stati, all’improvviso ci rendiamo conto di non essere più necessari nel mondo, ammesso che mai lo siamo stati, ma credere di esserlo ci sembrava già tanto, sembrava sufficiente, ed era in un certo senso eterno per il tempo in cui sarebbe durata la vita, perché l’eternità è questo, nient’altro che questo. […]

Vittorio Dotti

Bibliografia

Roberto Leydi (cur.), Canti e musiche popolari, Banca Provinciale Lombarda
Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, Mondadori
Marius Schneider, La musica primitiva, Adelphi
Pier Paolo Pasolini (cur.), Canzoniere italiano: antologia della poesia popolare, Garzanti
José Saramago, La caverna, Einaudi
Franco Izzi, Scapoli: Realtà Storiche e Culturali di Consapevolezza Tradizionale, Scapoli 1994
Ida Di Ianni, Maria Stella Rossi, Scapoli e il Festival Internazionale della Zampogna, in Altri Itinerari, Anno III N. 7 (Estate 2005), Volturnia Edizioni

Ho infine contratto un debito di stima e di riconoscenza nei confronti dell’attuale Sindaco di Scapoli – Dott. Vito Izzi – che si è prodigato per farmi ricevere in tempi strettissimi due delle succitate fonti bibliografiche.

 


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