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 Politica

15 Settembre, 2002
Un voto che pota i cespugli
Luca Ricolfi, su La Stampa del 30 aprile 2007, interviene intorno ai temi del referendum elettorale

La raccolta delle firme per il referendum elettorale è partita da meno di una settimana e già il mondo politico è in subbuglio. Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti si spinge ad affermare che il referendum sulla legge elettorale è «una minaccia per la democrazia, perché il suo esito può mettere in discussione i partiti». Da parte loro i referendari, molto sobriamente, si limitano a tre affermazioni difficilmente controvertibili: primo, un eventuale successo del referendum darebbe all'Italia una legge elettorale imperfetta ma comunque migliore di quella attuale; secondo, il referendum ha già ottenuto il risultato di risvegliare il Parlamento dal suo torpore; terzo, la raccolta delle firme non impedisce in alcun modo al Parlamento di varare una nuova legge elettorale, migliore di quella attuale e migliore di quella che risulterebbe dal referendum. Su queste tre affermazioni dei referendari concordano la stragrande maggioranza degli studiosi indipendenti. Su quella di Bertinotti, invece, ci sarebbe molto da riflettere. È vero che il referendum «mette in discussione i partiti»?

Intanto occorrerebbe ricordare che, da anni ormai, i partiti sono l'istituzione meno rispettata del Paese e che ciò è imputabile esclusivamente ai partiti stessi e agli uomini che li guidano: vanitosi, dimentichi delle promesse, nemici della verità, autoreferenziali, affamati di poltrone, tutt'altro che trasparenti e democratici nella scelta dei candidati. Di per sé un indebolimento dei partiti non sarebbe affatto un male e lo potrebbe diventare solo se coincidesse con il rafforzamento di meccanismi di rappresentanza ancora peggiori dei partiti (impresa ardua, visto il punto cui siamo giunti).

Da questa angolatura mi sembra che il referendum abbia effetti sostanzialmente neutrali: purtroppo non toglie ai partiti la loro capacità di occupare la Rai, di nominare i medici negli ospedali, di comandare nelle municipalizzate, di intrufolarsi nelle fondazioni e nelle istituzioni culturali.

Ma per fortuna non rafforza forme di rappresentanza ancora più pericolose e antidemocratiche dei partiti.

È vero, però, che un eventuale successo del referendum potrebbe anche cambiare i rapporti di potere fra i partiti, facendo contare di più i grandi partiti, di meno i partiti piccoli, e poco o niente i cespugli. Questo esito non dipende meccanicamente dal referendum, ma potrebbe essere aiutato dall'idea centrale del referendum: dare il premio di maggioranza al partito più votato, anziché alla coalizione più votata come attualmente avviene. Certo questa regola è aggirabile con listoni-insalata, ossia finti partiti che si sciolgono subito dopo il voto; ma provate a immaginare che cosa succederebbe se, anziché farsi ricattare dai piccoli partiti e dai cespugli, i maggiori partiti di centro-sinistra e centro-destra dessero vita a due grandi partiti capaci di attirare su di sé il 30-35% dei consensi qualsiasi cosa facciano i loro alleati potenziali. Se il referendum spingesse a questo, se fra un anno ci fossero a sinistra il Partito democratico (Pd) e a destra il Partito della libertà (Pl), anche un'eventuale trattativa con i partiti minori si svolgerebbe in condizioni del tutto nuove: ad avere il coltello dalla parte del manico sarebbero le due grandi corazzate, e le piccole imbarcazioni dovrebbero venire a più miti consigli.

È questa, probabilmente, la prospettiva che tanto spaventa il club dei piccoli. I quali hanno anche, naturalmente, le loro buone ragioni: ci sono sicuramente, in Italia, segmenti di elettorato che da un eventuale Partito democratico e da un eventuale Partito della libertà non si sentirebbero adeguatamente rappresentati. Ma è difficile credere che le tradizioni politiche in cui tali elettorati si riconoscono siano alcune decine, e soprattutto che un parlamento debba riprodurre come una fotocopiatrice ad alta definizione tutte le distinzioni che - spesso artificiosamente - i professionisti della politica cercano di far sopravvivere nella società civile. Oggi, a quasi vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino, ci sono ancora in Italia quattro partiti comunisti (due presenti in Parlamento), quattro partiti di matrice cattolica (tutti presenti in Parlamento), almeno tre partiti socialisti, diversi partiti di matrice fascista, un medio partito post-comunista (Ds), un medio partito post-fascista (An).

Tutti necessari? No, perché - come mostrano gli studi sull'opinione pubblica - i segmenti elettorali veramente diversi fra loro non sono più di sei o sette, e la frammentazione del voto è il frutto non voluto della disperazione: la gente vota con fantasia, spesso rifugiandosi nei partiti minori, non perché è divisa in mille fazioni, ma semplicemente perché non ha fiducia in nessun partito e ogni volta che è chiamata a votare cerca disperatamente l'anfratto del «meno peggio».

Da questo punto di vista il referendum è anche una sfida. Può condurre i partiti ad aggirarlo e a ripresentarci la solita minestra delle coalizioni-ammucchiata, che si uniscono prima del voto e si dividono immediatamente dopo. Ma può anche essere l'occasione per riflettere, per iniziare a potare la selva delle sigle di partito, senza aspettare il «decespugliatore» di una nuova legge elettorale.

Se questa riflessione portasse a qualche risultato, e fra un anno ci trovassimo con un'offerta politica meno rigogliosa, la maggior parte dei cittadini apprezzerebbero, e il referendum avrebbe vinto senza colpo ferire.

 


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