15 Settembre, 2002
«Una società liberale che vuole durare deve difendere chi è colpito dal cambiamento»
Mercato e welfare, l'Italia e la Fiat sulla scena economica mondiale - L'intervento di Sergio Marchionne al convegno de «L'industria»
Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha pronunciato
al convegno della rivista «L'Industria» un applaudito intervento sui
modelli di capitalismo e la responsabilità sociale. Eccone i passaggi
più significativi.
La storia della Fiat richiede di essere collocata e compresa
all'interno del contesto sociale in cui il turnaround è stato
realizzato. Gestire un'impresa in Europa significa prima di tutto
avere a che fare con un modello di capitalismo che ha caratteristiche
molto specifiche. Alcuni economisti sono convinti che il sistema
europeo - per migliorare produttività, efficienza e profitti - debba
convergere verso il modello americano. Non credo che questo tipo di
convergenza sia possibile nel medio termine, ma non credo neppure sia
auspicabile. Le organizzazioni europee sono nate e cresciute in un
terreno culturale fertilizzato da due condizioni storiche: una
tradizione di apertura al mercato relativamente recente e un forte
senso di responsabilità sociale. Non esiste un unico modello di
capitalismo. Stati Uniti, Asia, Europa sono tutti in competizione fra
loro ma nessuno converge verso nessun altro. L'unico denominatore
comune è il mercato. Queste organizzazioni danno il meglio di sé
quando sono messe a bagno nella concorrenza aperta e globale.
È il concetto di responsabilità sociale che differenzia l'Europa
dagli Stati Uniti. Secondo un'analisi dell'Ocse, la spesa pubblica
sociale è circa il 27% del Pil in Francia, Germania e Italia - in
Svezia addirittura il 38% - mentre si aggira intorno al 16% negli
Usa. La differenza tra i livelli di spesa pubblica - europeo e
americano - si manifesta in modo evidente a partire dal 1975. Da quel
momento vi è un notevole aumento della spesa in Europa mentre in Usa
si mantiene costante nel tempo. Indagare quali siano i motivi è
compito dei politici. Qualunque sia la ragione, queste differenze
esistono e chiunque operi in Europa deve considerare questo
particolare contesto sociale e politico. Sono convinto, non solo
sulla base della mia esperienza in Fiat, ma anche in altre realtà
industriali europee, che si può e si deve cercare il dialogo
costruttivo. E che le soluzioni si possono trovare.
In Fiat abbiamo ottenuto risultati importanti sulla via del dialogo.
Dopo dieci anni - e senza un'ora di sciopero, che è un caso più unico
che raro per l'Italia - è stato rinnovato il contratto integrativo
aziendale. Dopo dieci anni sono stati assunti in fabbrica i primi
giovani, in cambio di turni straordinari di lavoro. Abbiamo siglato
un importante accordo con le istituzioni locali per la
riqualificazione di Mirafiori, il più grande complesso industriale
italiano, che ha comportato anche l'avvio di una nuova linea di
produzione e l'assorbimento della cassa integrazione congiunturale. I
risultati raggiunti da Fiat dimostrano che trasformazioni simili sono
possibili, anche in un Paese con una forte coscienza sindacale e con
quello che la maggior parte dei commentatori anglosassoni
chiamerebbero «struttura del lavoro poco flessibile». Se dovessi
scegliere tra cercare di risolverela relazione di General Motors con
i suoi sindacati (Uaw) o di trattare i livelli occupazionali in
Europa, io preferirei la seconda.
Non c'è dubbio che la produttività e la flessibilità rimangono gli
elementi chiave del nostro sviluppo industriale. In questo contesto,
l'Italia è decisamente indietro rispetto al resto dell'Europa, ma
resto convinto che è sulla strada del dialogo costruttivo che i
problemi si possono risolvere. Se una società liberale deve durare
nel tempo, è nel suo interesse sostenere coloro che sono colpiti dal
cambiamento.
L'Europa può e deve distinguersi nella creazione e nella gestione di
mercati liberi, riconoscendo e trattando in modo efficace le
conseguenze delle loro attività sui propri membri. E deve farlo in
maniera onesta e giusta, senza cadere preda di certi meccanismi
troppo protettivi che sono già in uso in alcuni paesi membri e che,
soprattutto in Italia, possono seriamente minacciare la ripresa
industriale del Paese. Ma l'impegno esiste e non può essere ignorato.
Lo sviluppo di un'impresa non è solo una questione di tecnologia o di
risorse finanziarie. È prima di tutto una questione di cultura. Le
nostre imprese hanno bisogno di abbracciare la sfida del nuovo e
pensare al futuro come a una grande opportunità. Hanno bisogno di un
contesto trasparente e altamente competitivo. Hanno bisogno di vivere
la cultura del cambiamento come una necessità. Di misurarsi ogni
giorno sul merito, di fondare le proprie radici sui valori della
concorrenza e del mercato. Quello che ogni Paese può fare è garantire
che questa partita si giochi alla pari, che le opportunità siano le
stesse offerte ad altre imprese in altri Paesi. In Italia non sempre
queste condizioni sono così facili da trovare.
Qualche ragione c'è se gli investimenti esteri sono ancora così
bassi. E queste ragioni si chiamano burocrazia, servizi,
infrastrutture, tasse e costi di gestione. Dalla mia esperienza
personale, ho visto che i vincoli burocratici alla fine proteggono
aziende inefficienti, aziende che non hanno prospettive di sviluppo e
nella maggior parte dei casi scaricano i costi sui clienti. La
burocrazia non fa che alimentare se stessa. Perché porta la società a
chiudersi a riccio, a proteggere quello che già esiste, senza mai
affrontare le sfide del cambiamento. Allo stesso modo, ci sono altri
elementi importanti per costruire un sistema economico che possa
mostrarsi «attrattivo» non soltanto per chi opera già oggi in Italia
ma anche per le aziende estere. Penso al miglioramento dei servizi
pubblici, alla creazione di una rete di infrastrutture efficiente e
moderna, a cominciare dal sistema viario e dei trasporti in genere.
Ma penso anche alla riduzione della pressione fiscale e ad un tema
come il costo dell'energia che in Italia è decisamente eccessivo
rispetto al resto dei Paesi più industrializzati.
Tutti questi ragionamenti valgono a maggior ragione per il Sud
Italia, dove è prioritario colmare il gap nei confronti del resto del
Paese. Ma la prospettiva con cui ci si deve muovere non può essere
quella assistenziale. La cultura dell'assistenzialismo produce
dipendenza e spegne lo spirito di iniziativa e il senso di
responsabilità. Il lavoro si crea solo se i meccanismi economici sono
efficienti e se gli stimoli del mercato sono forti. In questo modo
anche la cultura del cambiamento e della competizione possono trovare
un terreno fertile. Credo che il caso della Fiat sia solo un esempio
della ristrutturazione dell'industria in Europa e della forza
positiva del cambiamento. Il nostro cambiamento è stato realizzato da
un gruppo di manager internazionali, molti dei quali italiani, che
hanno abbracciato l'idea della competizione globale e che sono
disposti a mettersi in gioco e a coinvolgere gli altri stakeholders
nel sistema economico per raggiungere i necessari livelli di
competitività. Grandi organizzazioni sono il risultato dell'esercizio
della leadership di uomini e di donne che comprendono il concetto di
servizio, di comunità, di rispetto fondamentale per gli altri e che
ispirano.
C'è una storia che oggi non vi ho raccontato. In un certo senso è
troppo presto per raccontarla, è la storia della trasformazione
personale dei leader che sono stati coinvolti nel rilancio della Fiat
e delle persone che gestivano. Ci sono dozzine di esempi simili e
indubbiamente più validi e significativi: General Electric negli
ultimi 25 anni, prima con Jack Welch ed adesso con Jeff Immelt; la
resurrezione di Ibm operata da Lou Gerstner, le esperienze di Robert
Oppenheimer nel Manhattan project con il team che ha costruito la
bomba atomica, l'incredibile vittoria di Bili Clinton nelle elezioni
presidenziali del 1992. Ma l'elemento comune a tutti questi casi è
che tutti hanno lasciato un segno indelebile sulla formazione e sulla
crescita dei leader. Sono cambiati per sempre.
Stiamo imparando come si vive da sopravvissuti e stiamo sviluppando
le capacità di pensare al futuro in modo aggressivo e positivo. E lo
stiamo facendo in un paese che è stato spesso etichettato
dall'Economist strutturalmente e cronicamente perdente con titoli
quali «Arrivederci. dolce vita» e «Don't cry for me, Italia». Ma
questa è la prova che c'è speranza per tutti noi: nemmeno gli inglesi
hanno la capacità di andare oltre i limiti della credulità e
dell'immaginazione. Dopo tutto, la storia della Fiat è la storia del
potere della leadership e della mancanza di paura di un gruppo di
leader integri impegnati a raggiungere gli obiettivi. Come dice Mel
Gibson nel film Braveheart: «Gli uomini non seguono gli uomini. Gli
uomini seguono il coraggio». E forse dobbiamo dare ragione a un
teorico politico molto frainteso - Niccolò Machiavelli - che circa
600 anni fa disse: «Il ritorno al principio è spesso determinato
dalla semplice virtù di un uomo. Il suo esempio ha una tale influenza
che gli uomini buoni desiderano imitarlo e quelli cattivi si
vergognano di condurre una vita contraria al suo esempio».
In Fiat stiamo costruendo un gruppo guidato da uomini e donne di
virtù. Ed è grazie al loro coraggio e alla loro virtù se oggi posso
concludere citando la fine del libro ``Una storia tra due città'' di
Charles Dickens e parafrasando le ultime parole: «It is a far, far
better thing Fiat does, than it has ever done. It is a far, far
better place it is going to than it has ever gone». Tradotto: «Fiat
sta facendo molto, molto meglio di quanto non abbia mai fatto. Sta
andando verso un posto migliore, molto migliore di quanto non sia mai
stata».
 
Fonte Il Corriere della Sera
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