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 Politica

15 Settembre, 2002
Fisco. Professori allo sbaraglio (di Stefano Fassina)
La campagna elettorale in corso ha riattizzato l'attenzione sulla politica fiscale del Governo Prodi. In particolare, si contrappongono le valutazioni ......

La campagna elettorale in corso ha riattizzato l'attenzione sulla politica fiscale del Governo Prodi. In particolare, si contrappongono le valutazioni sull'efficacia delle misure di contrasto all'evasione fiscale.

Da una parte, il ministero dell'Economia e delle Finanze documenta (da ultimo ieri con i dati sul 2007 e in modo analitico con la Relazione presentata al Parlamento il 22 ottobre scorso) un risultato superiore a 20 miliardi l'anno.

All'estremo opposto, il prof Ricolfi sostiene la tesi del «mito dell'effetto Visco», ossia l'assenza di qualunque risultato. La valutazione dei risultati ottenuti dal Governo in 20 mesi di lavoro ha notevoli implicazioni politiche.

Innanzitutto, perché il programma del Pd considera, giustamente, la riduzione dell'evasione e dell'elusione fiscale quale tappa riformista fondamentale per la crescita etica, prima ancora che economica, del Paese. Del resto, è noto che l'ampiezza dell'area di evasione fiscale di un Paese è inversamente proporzionale al suo livello di sviluppo (più si evade, meno si cresce): non a caso, noi abbiamo la più alta evasione fiscale e una delle peggiori performance economiche nel mondo Ocse.

In secondo luogo, perché entra in gioco la credibilità del programma del Pd, dato che la riduzione delle imposte prevista si finanzia attraverso il consolidamento degli effetti della lotta all'evasione.

Infine, perché smontare i risultati della lotta all'evasione è la premessa per rimuovere le misure introdotte e, quindi, è la premessa per mandare messaggi a quella parte dell'elettorato alla ricerca del mondo perduto degli anni '80, quando evasione fiscale, spesa pubblica facile e svalutazioni della Lira erano fattori di competitività drogata e canali di redistribuzione regressiva del reddito.

Data la rilevanza politica del tema, affrontiamo l'analisi del prof Ricolfi, utilizzata come un randello dagli esponenti della destra in queste prime settimane di campagna elettorale. Consapevoli del rischio di scoraggiare il lettore, dobbiamo dare qualche dettaglio per motivare perché la valutazione è tecnicamente infondata.

L'analisi del prof Ricolfi si basa sul cosiddetto "metodo Baldassarri", sen di Alleanza Nazionale (non proprio uno studioso indipendente). In realtà, quanto viene pomposamente definito "metodo" è una banalissima equazione (da prime pagine di manuale di economia per gli studenti del primo anno di laurea breve), nella quale tutte le entrate delle pubbliche amministrazioni vengono spiegate attraverso l'entrate dell'anno precedente, diminuite delle una tantum, moltiplicate per la crescita nominale del Pil e dell'elasticità delle entrate al Pil e, infine, incrementate per il risultato delle manovre.

Il primo errore metodologico di Ricolfi-Baldassari è il riferimento a tutte le entrate delle pubbliche amministrazioni. È sbagliato perché, se si vuole misurare l'efficacia delle politiche fiscali del governo, si deve fare riferimento soltanto alle entrate tributarie erariali (Irpef, Ires, Iva, ecc), ossia il sottoinsieme di entrate oggetto degli interventi del governo centrale.

Che senso ha, infatti, includere nell'analisi delle politiche fiscali i contributi previdenziali (solo in parte correlati all'Irpef, in quanto proporzionali e non progressivi, differenziati sugli straordinari e la retribuzione di secondo livello, pagati su un reddito minimo dai lavoratori autonomi, ecc)? Perché incorporare le entrate tributarie e, soprattutto, extratributarie (ad esempio, le tariffe per i servizi, le multe per infrazioni con le auto, ecc) di Regioni, Province e Comuni?

Che senso ha includere entrate non tributarie in conto capitale (ad esempio, i dividendi pagati al Tesoro da Eni ed Enel)? Che senso ha applicare l'elasticità delle entrate tributarie erariali all'intero gettito? L'insieme delle entrate impropriamente incluse nell'analisi è quasi il 40 percento del totale considerato, 265 miliardi di euro rispetto ai 724 miliardi di euro raccolti nel 2007. In una disputa intorno a pochi miliardi di euro, l'estensione dell'analisi ad un aggregato improprio di 250 miliardi di euro determina, inevitabilmente, conclusioni fuorvianti.

Il secondo errore metodologico di Ricolfi-Baldassarri è nella struttura del cosiddetto "metodo". L'accorpamento in una unica variabile di tutti gli effetti di gettito delle manovre fiscali porta ad occultare il contributo delle misure antievasione quantificate e validate dagli organismi tecnici competenti (Ragioneria Generale dello Stato e Servizi Bilancio di Camera e Senato). Tali misure, come risulta dalle relazioni tecniche allegate al Decreto Visco-Bersani del luglio 2006 e alla manovra di Bilancio per il 2007, venivano "cifrate" in oltre 10 miliardi all'anno. Concentrare l'attenzione soltanto sull'extragettito o sui tesoretti per misurare l'effetto della politica antievasione del governo implica trascurare la fonte più significativa dei risultati raggiunti.

Il terzo errore metodologico di Ricolfi-Baldassarri è il semplicismo del cosiddetto "metodo": le analisi condotte dagli uffici tecnici del Ministero dell'Economia e delle Finanze hanno a riferimento la singola imposta e l'andamento della singola base imponibile corrispondente (ad esempio, i consumi interni per valutare il gettito Iva da scambi interni); il "metodo" Ricolfi-Baldassarri, invece, ammucchia tutto.

Inoltre, quarto difetto, ipotizza un'elasticità complessiva in linea con la media europea, come se il nostro comportamento fiscale fosse nella normalità delle economie dell'Unione e non avesse avuto un andamento fortemente discontinuo tra il 2001-2005 (elasticità media, 0,75) e gli ultimi due anni (elasticità pari a 2,6 e 1,5, rispettivamente nel 2006 e 2007).

A proposito della polemica sulle continue revisioni al rialzo delle previsioni di entrata e dei "tesoretti nascosti" scoperti dal sen. Baldassarri (il vero mito del prof Ricolfi), si ricorda che le regole di contabilità pubblica, opportunamente, consentono di quantificare soltanto gli effetti diretti e statisticamente prevedibili di misure specifiche.

Gli effetti indiretti di orientamenti di policy (ad esempio, la chiusura credibile della stagione dei condoni o gli indirizzi del Ministro alle agenzie fiscali) e gli effetti incerti di interventi specifici (ad esempio, l'introduzione dell'anagrafe tributaria) non possono essere quantificati e portati a copertura di riduzioni di entrate o aumenti di spesa. Sulla base di tali regole e non per "far credere all'opinione pubblica che si era finalmente avviata una seria azione di contrasto all'evasione fiscale", le maggiori entrate dovute alle misure non quantificabili ex ante venivano riflesse nei documenti di finanza pubblica soltanto ex post, ossia dopo che il maggior gettito si era manifestato.

Si potrebbe andare avanti nell'elenco dei difetti ma, per non abusare ulteriormente dei pochi lettori sopravvissuti, è necessario fermarsi. In sintesi, la valutazione ufficiale dei risultati delle politiche antievasione degli ultimi due anni è certamente discutibile. Tuttavia, il contributo del prof Ricolfi non ha la robustezza sufficiente per un confronto tecnicamente fondato.

 


       CommentoFonte L'Unità



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