15 Settembre, 2002
Gli anni sessanta dall’oggetto all’Arte Povera
Mostra organizzata dalla Fondazione Città di Cremona. Inaugurazione e conferenza d’apertura:15 maggio 2008, ore 17
Fondazione Città di Cremona Mostra e conferenza gli anni sessanta dall’oggetto all’Arte Povera
Relatrice: elena pontiggia
Inaugurazione e conferenza d’apertura:
15 maggio 2008, ore 17
Fondazione Città di Cremona, piazza Giovanni
XXIII , 1
Apertura:
16 maggio – 20 giugno 2008
Orari:
dal lunedì al venerdì: 15 – 19
sabato e festivi: 17 – 19
visite guidate per gruppi su prenotazione
anche il mattino
chiusura 1 e 2 giugno
Il quarto appuntamento del progetto “L’Arte
in Italia dal 1945”, curato da Mariarosa
Ferrari Romanini e ospitato nello storico
palazzo della Fondazione Città di Cremona,
si aprirà il 15 maggio p.v. alle ore 17 con
la conferenza di Elena Pontiggia.
Elena Pontiggia è titolare della cattedra
di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia
di Brera a Milano. Si occupa in particolare
dell’arte italiana e internazionale fra le
due guerre (Sironi, Arturo Martini, Carrà,
Novecento Italiano, Picasso, Hopper, Nuova
Oggettività tedesca) e del rapporto fra modernità
e classicità. Collabora regolarmente a quotidiani
e riviste. I suoi ultimi volumi pubblicati
sono Edward Hopper (Milano, Rizzoli, 2004); 1935. La grande Quadriennale (Milano, Electa, 2006, con C.F. Carli); Modernità e classicità (Milano, Bruno Mondadori, uscita 2008). Ha
curato numerose mostre. Tra le ultime: Arturo Martini (Milano e Roma, 2006-2007); Sironi. Gli anni 40 e 50 (Milano, 2008).
La relazione di Elena Pontiggia apre anche
la mostra, nella quale sono esposte opere
degli artisti italiani più rappresentativi
delle varie esperienze che si sono diramate
negli anni sessanta nei gruppi Azimuth, Arte
Cinetica, Gruppo Uno, nella Scuola di Piazza
del Popolo e nella Pop Art, nell’Arte Povera
e nei Concettuali.
Gli artisti presenti in mostra sono: Valerio
Adami, Vincenzo Agnetti, Franco Angeli, Gastone
Biggi, Alighiero Boetti, Agostino Bonalumi,
Enrico Castellani, Alik Cavaliere, Mario
Ceroli, Gianni Colombo, Dadamaino, Lucio
Del Pezzo, Tano Festa, Giosetta Fioroni,
Piero Gilardi, Piero Manzoni, Mario Merz,
Aldo Mondino, Michelangelo Pistoletto, Concetto
Pozzati, Mario Schifano, Emilio Tadini, Giuseppe
Uncini, Grazia Varisco, Gilberto Zorio.
Nel periodo di apertura della mostra sono
previsti tre incontri culturali, illustrati
in allegato.
Si riporta di seguito l’introduzione al catalogo
di Mariarosa Ferrari Romanini.
Gli anni sessanta
Mariarosa Ferrari Romanini
Sul finire degli anni cinquanta, il linguaggio
artistico viene fortemente influenzato dai
mass media ed in particolare dalle immagini
rimandate dalla televisione, dal cinema,
dai rotocalchi, ed importante è anche il
rifiuto, da parte degli artisti, per i materiali
e l’uso di questi in modo tradizionale: la
pittura a olio per i quadri, il bronzo ed
il marmo per le sculture che vengono così
sostituiti da oggetti e materiali di uso
comune reperiti dal quotidiano.
La Popular Art (arte popolare), termine coniato dal critico
inglese Lawrence Alloway ed abbreviato poi
in Pop Art, coinvolge diversi gruppi di artisti
che lavorano in America ed in Europa.
La Pop Art è un movimento che nasce già nel 1952-53
in Inghilterra con il lavoro di Eduardo Paolozzi
e di Richard Hamilton i quali attraverso
incontri proposti dall’Indipendent Group
(circolo legato ad un gruppo di intellettuali)
danno vita a un dibattito internazionale
su società e cultura riportato alla tecnologia
e alla comunicazione di massa. Emblematica
è l’opera di Richard Hamilton esposta alla
Whitechapel Gallery di Londra nel 1956; un
collage di ritagli di giornali con immagini
di manifesti pubblicitari, cibi in scatola,
elettrodomestici, mobili e suppellettili,
dove un culturista ed una pin-up prendono
parte a questo improbabile ambiente domestico.
In questa opera di piccole dimensioni è rappresentata
tutta la simbologia della Pop Art. Questo
movimento continua in Inghilterra negli anni
successivi con il lavoro e la ricerca di
alcuni artisti fra i quali: Peter Blake,
David Hockney, Allen Jones e Joe Tilson.
La Pop Art si sviluppa negli Stati Uniti ad opera
di giovani artisti come Andy Warhol, Roy
Lichtenstein, Jim Dine, Claes Oldenburg,
George Segal, James Rosenquist. La grande
abbondanza di merci e la pressante presenza
dei media agiscono nel comportamento e sulle
scelte degli artisti. Il loro intento è di
usare questi componenti per farne opere d’arte.
Andy Warhol usa le foto pubblicitarie della
Coca Cola, della zuppa Campbell’s e alla
morte di Marilyn Monroe la sua immagine per
una serie di opere alle quali cambia solamente
il colore di fondo. Continuerà poi con le
foto dei più importanti personaggi del panorama
mondiale. Tutto ciò che fa parte del reale,
e tutte le forme di comunicazione popolare
sono di stimolo per gli artisti come i fumetti
per Roy Lichtenstein, i supermercati dove
una grande quantità di scatole di detersivo
Brillo ispira un nuovo lavoro a Andy Warhol,
l’arredo della casa che suggerisce a George
Segal di ricostruire un ambiente e collocarci
una figura di gesso bianca che sta tra il
fantoccio e il fantasma, le strade con le
loro scritte sui muri, i coloratissimi cartelli
pubblicitari che rappresentano per James
Rosenquist una sorta di panorama sociale.
Contemporaneamente alla Pop Art nasce negli
Stati Uniti la Minimal Art, quasi a contrastare l’eccessiva ricchezza
della struttura urbana, dei media e della
pubblicità. La ricerca in questo campo si
basa sul concetto della “riduzione” e “contenimento”
dell’opera con l’utilizzo di elementi primari,
di forme geometriche elementari e materiali
naturali o industriali utilizzati per la
loro struttura semplice. Così mentre la Pop Art è immagine e colore, la Minimal Art
è riduzione di immagine e colore. Epigono
della Mimimal Art, termine inventato dal
critico Richard Wollheim nel 1965, è da considerarsi
Frank Stella che con Donald Judd, Robert
Morris, Carl Andre, Don Flavin e Sol LeWitt
lavorano sulla superficie pittorica usando
pochissimo colore, mentre i lavori tridimensionali
concepiti con barre o trafilati metallici,
tubi fluorescenti o feltri, formano costruzioni
ideate con semplice ma rigoroso impianto
geometrico, con equilibrio e ritmo regolare.
Il senso di questo lavoro è sintetizzato
da Frank Stella in “Ciò che vedi è ciò che
vedi”. Verso la seconda metà degli anni sessanta
alcuni artisti americani ed inglesi lavorano
intorno ad una ricerca riguardante la filosofia
del linguaggio e della forma. Un modo di
intendere l’operazione artistica come una
pura produzione mentale. Sol LeWitt nel suo
testo del 1967 scrive: “l’idea in se stessa,
anche se non realizzata visualmente, è un’opera
d’arte, tanto quanto un prodotto finito”.
E nello stesso testo compare per la prima
volta il termine Conceptual Art (Arte Concettuale).
“L’idea diventa la macchina che fa arte”
(Sol LeWitt ).
In Europa, a Zagabria, nel 1961 nasce il
movimento “nuova tendenza” che riunisce gruppi
di artisti che portano avanti ricerche indirizzate
in particolare all’arte cinetica e programmata.
L’arte cinetica, anticipata da esperienze
artistiche delle avanguardie storiche ad
opera di Duchamp, Tatlin e Man Ray, si afferma
e si diffonde negli anni cinquanta con Victor
Vasarely, Bruno Munari, Enzo Mari, Jesus
Raphael, Soto e Jean Tinguely. Questi artisti
sperimentano la possibilità di movimento
nell’opera d’arte, da quella realizzata attraverso
la disposizione di linee geometriche e rapporti
cromatici a quella dove vengono impiegate
superfici ondulate, da quelle luminose a
quelle meccaniche o elettromagnetiche. Danno
così vita a strutture mobili, in continuo
mutamento ma regolate da un programma rigoroso,
quasi scientifico per costruire un nuovo
linguaggio attraverso il quale l’opera prende
vita per indurre lo spettatore a diventare
quasi parte di essa.
Alla fine degli anni cinquanta, a Parigi,
un gruppo di artisti supportati dal giovane
critico Pierre Restany dà vita ad un nuovo
sodalizio. Il 27 ottobre 1960, nell’abitazione
di Yves Klein, Restany fonda ufficialmente
il Nouveau Réalisme rappresentato da Arman, Francis Dufréne,
Raymond Hains, Yves Klein, Martial Raisse,
Daniel Spoerri, Jan Tinguely e Jaques Mahé
de la Villeglé. Si aggiungono più tardi Nike de Saint-Phalle,
Christo e Mimmo Rotella, unico italiano del
gruppo. In quel giorno fu firmato un manifesto
su carta monocroma blu o rosa oppure oro
con la scritta: “Il giovedì 27 ottobre 1060
i nuovi realisti hanno preso coscienza della
loro singolarità collettiva. Nouveau Réalisme
= Nuovi approcci percettivi al reale”. Yves
Klein, nato a Nizza nel 1928 da una famiglia
di artisti, è sicuramente la personalità
di maggiore spicco in questo gruppo dove
ormai la ricerca creativa è al centro del
percorso, anticipando Pop Art ed aspetti
concettuali. Fin dall’inizio il lavoro di
Klein è caratterizzato da una sorta di spiritualità
e misticismo. Con lo scultore Arman ed il
poeta Claude Pascal si incontra clandestinamente
in una stanza dipinta di blu dove insieme
meditano, leggono pagine di letteratura esoterica,
suonano pezzi jazz, ballano, fan pratica
di judo e sognano di partire per il Giappone
in un viaggio a cavallo. Salgono talvolta
sui tetti per spartirsi il mondo: ad Arman
la terra e le cose materiali, a Claude le
parole, ad Yves il cielo. Klein comincia
così a trasportare le sue idee di rapporto
tra arte e spiritualità sulla tela. Realizza
quadri monocromi blu, rosa o oro. Più tardi
brevetta un certo tono di blu con la siglia
ikb (International Klein Blu). In una mostra
alla Galleria Apollinaire di Milano vengono
esposti undici quadri monocromi, perfettamente
uguali ma diversi solo nel prezzo perché,
a detta dell’artista, ognuno di loro contiene
una diversa dose di “sensibilità d’artista”.
Questa mostra offre spunti di ricerca per
diversi artisti italiani. Giulio Carlo Argan
in L’arte moderna 1770-1970 scrive: “Quando Klein campisce la superficie
della tela con un solo colore, senza la minima
variazione, si propone certamente di modificare
il rapporto fra il fruitore e l’ambiente:
ma non lo fa agendo sull’ambiente (‘intonandolo’
ad un dato colore, come Rothko e, in certo
senso, Fontana) bensì sul fruitore, disponendolo
a ‘sentire’ l’ambiente secondo un dato colore,
cioè a ‘vivere’ in blu o in rosa o in oro.
Perciò sottolinea l’aspetto spettacolare
e rituale del proprio gesto autoritario:
ricorrendo per esempio a pennelli viventi cioè a modelli nudi e intrisi di colore
che stampano la loro impronta sul muro. È
chiaro che non è più un gioco, una tecnica
né, a rigore, uno ‘stile’, l’operazione consiste
in atti di scelta, i cui motivi riguardano
soltanto l’artista, ma i cui effetti agiscono
sulla società intera”.
César inventa le Compressioni, carrozzerie di automobili ridotte a grandi
cubi di metallo variopinto; Arman le Accumulazioni, oggetti di varia natura recuperati chissà
dove e chiusi in contenitori trasparenti.
Arman è attratto anche dal disfacimento dell’oggetto,
in particolare usa strumenti musicali che
vengono così tagliati e sezionati in vari
modi.
Raymond Hains e Mimmo Rotella, con lo strappo
dei manifesti pubblicitari, effettuano un
decollage in contrapposizione ai collage del periodo cubista.
In Italia, già dal 1958 l’Informale aveva
lasciato posto a nuovi stimoli per fare arte.
La svolta degli anni sessanta è segnata a
Milano dal lavoro della Galleria Hazimuth
e dall’omonima rivista pubblicata in soli
due numeri e fondata da Piero Manzoni ed
Enrico Castellani. La prima esposizione in
Italia organizzata da Pierre Restany con
gli artiti del Nouveau Réalisme si tiene
alla Galleria Apollinaire di Milano nel 1960.
Le opere di Yves Klein colpiscono particolarmente
gli artisti milanesi. Il lavoro di Piero
Manzoni ne viene fortemente influenzato e
dopo un periodo di ricerca legato al filone
dell’arte nucleare, le tele monocrome di
Klein lo spingono ad affrontare una esperienza
nuova. Nascono così i primi Achromés, tele coperte di gesso bianco, per arrivare
poi all’utilizzo di oggetti e materiali di
uso comune come batuffoli di cotone, carte
e cartoni di vario tipo, pacchi, panini,
ma tutti caratterizzati dallo stesso colore:
il bianco. Il lavoro di Manzoni prosegue
nella eliminazione di “ogni procedura tecnica
ed a porre l’arte come puro atto”. L’idea
ha così più valore dell’oggetto come i Corpi d’aria, il Fiato d’artista, il rotolo di carta su cui è tracciata una
linea, ed in fine la Merda d’artista, il tutto in scatole ermeticamente chiuse.
Diversa è la posizione di Enrico Castellani
che già negli anni ’57-58 mette in evidenza
l’esigenza di trovare un nuovo modo di intervenire
dentro al quadro, rifiutando il tradizionale
modo di dipingere.
Le sue tele imbottite, introflesse o estroflesse
risentono della forte ricerca dell’artista
per uscire definitivamente dalle pieghe dell’informale.
Il suo spazio è vario, giocato sul recupero
della prospettiva, dell’effetto ottico, dei
chiaroscuri e dell’incertezza visuale. Anche
per Agostino Bonalumi, Paolo Scheggi e Dadamaino,
le riflessioni sulla tela estroflessa o bucata,
con riferimenti a Fontana, insistono sul
concetto dell’assenza della figura, del senso
e del colore.
Intorno all’arte cinetica o programmata si costituiscono alcuni gruppi. Il Gruppo
T per gli “oggetti cinetici” si forma a Milano
nel 1959 con Giovanni Anceschi, Davide Boriani,
Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi e Grazia
Varisco. All’interno dell’arte e della comunicazione
visiva, il gruppo svolge indagini sulla variazione
e programmazione cinetica dell’immagine creando
oggetti, ambienti architettonici, films e
opere grafiche. Il Gruppo N, per le “visioni
dinamiche”, si forma a Padova nel 1958 ed
è composto da Alberto Biasi, Ennio Chiggio,
Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi,
i quali si qualificano “disegnatori sperimentali
che fruiscono di un metodo di indagine collettiva
e sommano esperienze pratiche e teoriche
diverse”. La finalità del gruppo è la realizzazione
collettiva e anonima delle proprie opere.
“Alla base del lavoro degli artisti cinetici
c’è soprattutto l’impegno ad analizzare scientificamente
tutti i fenomeni percettivi al fine di pervenire
ad un linguaggio artistico strettamente connesso
con quello scientifico, con le tecniche industriali
e le nuove tecnologie. Presupposto dell’opera
è il progetto, così come avviene nella produzione
industriale, e la sua capacità di inserirsi
nel contesto sociale per influenzarlo e modificarlo:
una posizione, dunque, di chiara derivazione
avanguardistica”(Loredana Parmesani). Il
Gruppo Uno nasce a Roma ed è attivo dal 1962
al 1967 ed in esso si riuniscono Gastone
Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille
Pace, Pasquale Santoro e Giuseppe Uncini.
Le ragioni di questo gruppo, del quale fanno
parte artisti le cui caratteristiche rimangono
ben distinte, sono enunciate dal gruppo stesso
nelle dichiarazioni di poetica stampate a
Roma alla fine del 1963. Dei sei artisti
si conoscono le matrici informali, ma allo
stesso tempo la nuova volontà di costruire
un’immagine fuori dal rapporto realtà-figuratività
(Nello Ponente), il desiderio di realtà e
pulizia (Eugenio Battisti), il fondamento
neocostruttivista (Sossi).
La capitale della Pop Art italiana è Roma.
A piazza del Popolo si riuniscono gli artisti
che operano in questa direzione. Il primo
che si interessa della tematica pop è Mario
Schifano. Già nei primi anni sessanta propone
i suoi segnali, opere che riportano sulla
tela indicazioni stradali, scritte pubblicitarie
e situazioni rubate alle comunicazioni di
massa. Oltre al supporto in tela, utilizza
poi carta da pacchi sulla quale stende coloratissimi
smalti, usati nelle industrie automobilistiche,
realizzando una serie di monocromi. Dopo
un viaggio a New York, nei suoi lavori compaiono
frammenti di paesaggio, simboli del consumismo
come le insegne Esso e Coca Cola, riproposte
di immagini televisive, rivisitazione del
Futurismo e situazioni politiche, ed ecco
Paesaggi anemici, Ossigeno ossigeno, Futurismo rivisitato, Compagni compagni e Televisori. Nella scuola di Piazza del Popolo lavorano
con Schifano Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta
Fioroni e Mario Ceroli. I lavori di Angeli
sono caratterizzati dal clima di un impegno
politico-sociale proprio di quegli anni:
falci e martelli, svastiche, lupe romane,
dollari. Festa, la cui ispirazione si lega
alle avanguardie americane, realizza opere
utilizzando oggetti come persiane, armadi,
obelischi, per passare poi alla tradizione
pittorica riportando sulla tela immagini
fotografiche e rielaborando così capolavori
tratti da Michelangelo a Ingres. Importanti
sono anche i suoi Cieli dipinti della seconda metà degli anni sassanta.
Giosetta Fioroni vede un mondo più decadente,
vede il ‘kitsch’ con occhi liberty, in modo
più malinconico e struggente. Il suo lavoro
è caratterizzato da segni calligrafici come
lettere dell’alfabeto, numeri, quadrati e
dall’uso dell’argento carbonizzato per rappresentare
soggetti che vanno da citazioni della pittura
rinascimentale alla rielaborazione fotografica.
Mario Ceroli gioca ad andare controcorrente
e sulla natura delle immagini del quotidiano.
Utilizza il legno, antico materiale nobile,
a dispetto della plastica, del vetro, del
neon e del plexiglas. Combatte l’artificiale
con il naturale. Le sue opere prendono forma
in un laboratorio dove la pialla, la sega
e il martello sono i mezzi per la realizzazione
delle sue ‘sculture’.
Gli artisti milanesi: Valerio Adami, Emilio
Tadini, Alik Cavaliere, Lucio del Pezzo,
e poi Titina Maselli e Pino Pascali a Roma
e Concetto Pozzati a Bologna sviluppano un
linguaggio che della Pop Art rivela valori
più umanistici e letterali. La personalità
degli artisti resta comunque molto distinta.
Adami svolge una pittura di racconto che
si rifà al fumetto, con figure accostate
ad oggetti, giocando con colori puri spesso
delineati da contorni neri. Tadini, pittore,
scrittore e critico d’arte, esordisce nel
1961 con una pittura caratterizzata da un
montaggio di immagini e parole riferiti alla
cultura letteraria d’avanguardia del Novecento.
Cavaliere, unico scultore del gruppo, modella
nei suoi lavori una sorta di paesaggio immaginario
con calchi di elementi vegetali e dove la
figura è chiamata a recitare la propria anonima
vicenda umana. Le opere di Lucio Del Pezzo
risentono della tradizione culturale e popolare
partenopea. Feticci, lumi, ex voto, cordicelle,
chiodi si riuniscono in un assemblaggio fra
il magico e il sacrale. I suoi lavori costituiscono
così quadri-sculture-oggetto dove le due
superfici della pittura acquistano rilievo
tridimensionale dientando mensola, scansia,
teca o ripiano, come in Collezioni del 1963. Concetto Pozzati in Schifanoia ortogonale del 1963 ricorre per la prima volta all’iconografia
pop con frecce e bersagli, per passare più
tardi ad una sorta di “trompe l’Sil” per
la riproduzione fedele di immagini pubblicitarie.
Il Movimento Arte Povera si forma a Torino
nella seconda metà degli anni sessanta e
riporta l’Italia al centro del dibattito
internazionale. Il critico Germano Celant
riunisce intorno a sé un gruppo di artisti
provenienti da tutta Italia e propone un
linguaggio in accordo con il clima del momento,
che rompe con la tradizione e compie una
totale apertura dell’opera ai più svariati
materiali. Si ricerca perciò un nuovo rapporto
son le cose ed in particolare con la natura.
Come scrive Celant: “L’arte povera non è
un operare illustrativo e teorico, non ha
come obbiettivo il processo di neorappresentazione
dell’idea, ma è indirizzata a rappresentare
il senso emergente ed il significato fattuale
dell’immagine, come azione cosciente, si
presenta lontana da qualsiasi apologia oggettuale
ed iconica, è un agire libero, quasi intuitivo,
che relega la mimesi a fatto funzionale e
secondario, i nuclei focali risultano l’idea
e la legge generale”. Il fare estetico in
Italia è riconosciuto internazionalmente
nell’Arte Povera attraverso le opere di Michelangelo
Pistoletto, Mario Merz, Pino Pascali, Emilio
Prini, Gilberto Zorio, Alighiero Boetti,
Luciano Fabro, Giulio Paolini, Giuseppe Penone,
Jannis Kounellis, Mario Merz, Pier Paolo
Calzolari e Giovanni Anselmo. I lavori di
questi artisti escono dagli spazi tradizionali,
museo o galleria, per cercare un rapporto
più vicino al vissuto. Lo spettatore deve
far parte dell’evento artistico e parteciparvi
attivamente. A Michelangelo Pistoletto si
deve una delle immagini più autentiche dell’iconografia
di “réportage”. Nelle sue superfici riflettenti
sembra cercare il senso dell’essere, le figure
incollate fanno parte del nostro mondo nel
momento in cui la nostra immagine è riflessa
accanto a loro. Un lavoro che si colloca
fra la rappresentazione e l’illusione. Anche
nella Venere degli stracci si coglie la contraddizione tra la bellezza
della Venere, figura classica in cemento
ricoperta di mica, e il mucchio di stracci
a cui è appoggiata. In contrapposizione all’oggetto
precostituito, Mario Merz avvia la ricerca
sugli Igloo, una serie di costruzioni realizzate con
intelaiatura in metallo e ricoperte di argilla,
tela cerata, ardesia, pezzi di vetro o rami,
spesso sormontate da scritte al neon. Contemporaneamente
continua la sua opera con installazioni utilizzando
bottiglie, bicchieri, cesti, ombrelli e una
serie di tele trafitte da tubi di luce al
neon. Importante è l’organizzazione degli
elementi utilizzati nelle sue istallazioni
sulla base della progressione locico-matematica
della serie di Fibonacci, secondo la quale
ogni numero è costituito dalla somma dei
due che lo precedono. In Pier Paolo Calzolari
il tema predominante è la luce. “La luce,
simbolo dell’impatto dell’arte, abbaglia
ed acceca, conduce fino alla pazzia. Da qui
il titolo dell’opera Impazza angelo artista”. Calzolari si distingue per la matrice
letteraria e poetica presente nei suoi lavori.
Caratteristica delle prime opere di Gilberto
Zorio è l’instabilità: colonne di eternit
appoggiate su camere d’aria, superfici di
gesso che cambiano colore in rapporto all’umidità
dell’atmosfera, tele sulle quali si deposita
il sale per effetto dell’evaporazione, colate
di cemento che si disgregano per il proprio
stesso peso. “L’intimo legame tra la natura
dei fenomeni dinamici e gli attributi immaginari,
si riconosce nelle ‘figure’ e nelle ‘tensioni’
di Gilberto Zorio. Scrivere ‘Odio’ a colpi
di ascia o incidere la stessa scritta a forza
di peso sulla pelle, come costruire una stella
sulla convivenza di cinque giavellotti, sembra
voler costituire un’osmosi tra termini separati,
quali la visione e il passaggio dell’energia”
(Germano Celant).
Sempre a Torino, diverso è l’approccio di
Piero Gilardi al mondo dell’arte del momento.
Sulla metà degli anni sessanta sperimenta
nuovi materiali e nuove tecniche. Il suo
spazio di ispirazione è la natura. Realizza
infatti ciò che egli chiama Tappeto natura, Orto, Sottobosco, Granoturco caduto, che realizza usando poliuretano espanso
sia per il supporto di fondo, che per “scolpire”
brani di natura. La frutta, la verdura, l’erba
e gli sterpi di un prato dai colori accesi
offrono un momento di riflessione fra il
reale e l’effimero, e un disagio che l’artista
chiama “magia”.
Anche Aldo Mondino realizza opere che lo
vedono impegnato a risolvere giochi infantili
dallo stato prenatale all’infanzia, opere
con scritte ironiche, con segnali stradali,
con giochi di parole che lo avvicinano pian
piano al clima poverista torinese sperimentando
varie tecniche e materiali, tra cui lo zucchero.
Negli ultimi anni sessanta si fa strada in
Italia l’Arte Concettuale. Vincenzo Agnetti,
milanese, è sicuramente uno degli artisti
più originali. Per le sue opere fa ricorso
a numeri, parole, diagrammi, audio e video-nastri.
La parola è la grande protagonista del suo
lavoro. Lui stesso scrive: “La parola quando
è sola rimane comunque il titolo di temi
diversi relativi ad associazioni soggettive”.
Nell’opera concettuale non esistono forme
né tecniche precise, quello che rimane dell’arte
è solo ciò che si vede ed i pensieri che
essa suscita.
 
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