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15 Settembre, 2002
Gli anni sessanta dall’oggetto all’Arte Povera
Mostra organizzata dalla Fondazione Città di Cremona. Inaugurazione e conferenza d’apertura:15 maggio 2008, ore 17

Fondazione Città di Cremona Mostra e conferenza gli anni sessanta dall’oggetto all’Arte Povera
Relatrice: elena pontiggia
Inaugurazione e conferenza d’apertura:
15 maggio 2008, ore 17
Fondazione Città di Cremona, piazza Giovanni XXIII , 1

Apertura:
16 maggio – 20 giugno 2008

Orari:

dal lunedì al venerdì: 15 – 19

sabato e festivi: 17 – 19

visite guidate per gruppi su prenotazione anche il mattino

chiusura 1 e 2 giugno

 

 

Il quarto appuntamento del progetto “L’Arte in Italia dal 1945”, curato da Mariarosa Ferrari Romanini e ospitato nello storico palazzo della Fondazione Città di Cremona, si aprirà il 15 maggio p.v. alle ore 17 con la conferenza di Elena Pontiggia.

 

Elena Pontiggia è titolare della cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Brera a Milano. Si occupa in particolare dell’arte italiana e internazionale fra le due guerre (Sironi, Arturo Martini, Carrà, Novecento Italiano, Picasso, Hopper, Nuova Oggettività tedesca) e del rapporto fra modernità e classicità. Collabora regolarmente a quotidiani e riviste. I suoi ultimi volumi pubblicati sono Edward Hopper (Milano, Rizzoli, 2004); 1935. La grande Quadriennale (Milano, Electa, 2006, con C.F. Carli);  Modernità e classicità  (Milano, Bruno Mondadori, uscita 2008). Ha curato numerose mostre. Tra le ultime: Arturo Martini (Milano e Roma, 2006-2007); Sironi. Gli anni 40 e 50 (Milano, 2008).

 

La relazione di Elena Pontiggia apre anche la mostra, nella quale sono esposte opere degli artisti italiani più rappresentativi delle varie esperienze che si sono diramate negli anni sessanta nei gruppi Azimuth, Arte Cinetica, Gruppo Uno, nella Scuola di Piazza del Popolo e nella Pop Art, nell’Arte Povera e nei Concettuali.

Gli artisti presenti in mostra sono: Valerio Adami, Vincenzo Agnetti, Franco Angeli, Gastone Biggi, Alighiero Boetti, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Alik Cavaliere, Mario Ceroli, Gianni Colombo, Dadamaino, Lucio Del Pezzo, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Piero Gilardi, Piero Manzoni, Mario Merz, Aldo Mondino, Michelangelo Pistoletto, Concetto Pozzati, Mario Schifano, Emilio Tadini, Giuseppe Uncini, Grazia Varisco, Gilberto Zorio.

 

Nel periodo di apertura della mostra sono previsti tre incontri culturali, illustrati in allegato.

 

Si riporta di seguito l’introduzione al catalogo di Mariarosa Ferrari Romanini.

 

 

Gli anni sessanta

 

Mariarosa Ferrari Romanini

 

Sul finire degli anni cinquanta, il linguaggio artistico viene fortemente influenzato dai mass media ed in particolare dalle immagini rimandate dalla televisione, dal cinema, dai rotocalchi, ed importante è anche il rifiuto, da parte degli artisti, per i materiali e l’uso di questi in modo tradizionale: la pittura a olio per i quadri, il bronzo ed il marmo per le sculture che vengono così sostituiti da oggetti e materiali di uso comune reperiti dal quotidiano.

La Popular Art (arte popolare), termine coniato dal critico inglese Lawrence Alloway ed abbreviato poi in Pop Art, coinvolge diversi gruppi di artisti che lavorano in America ed in Europa.

La Pop Art è un movimento che nasce già nel 1952-53 in Inghilterra con il lavoro di Eduardo Paolozzi e di Richard Hamilton i quali attraverso incontri proposti dall’Indipendent Group (circolo legato ad un gruppo di intellettuali) danno vita a un dibattito internazionale su società e cultura riportato alla tecnologia e alla comunicazione di massa. Emblematica è l’opera di Richard Hamilton esposta alla Whitechapel Gallery di Londra nel 1956; un collage di ritagli di giornali con immagini di manifesti pubblicitari, cibi in scatola, elettrodomestici, mobili e suppellettili, dove un culturista ed una pin-up prendono parte a questo improbabile ambiente domestico. In questa opera di piccole dimensioni è rappresentata tutta la simbologia della Pop Art. Questo movimento continua in Inghilterra negli anni successivi con il lavoro e la ricerca di alcuni artisti fra i quali: Peter Blake, David Hockney, Allen Jones e Joe Tilson.

 

La Pop Art si sviluppa negli Stati Uniti ad opera di giovani artisti come Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Jim Dine, Claes Oldenburg, George Segal, James Rosenquist. La grande abbondanza di merci e la pressante presenza dei media agiscono nel comportamento e sulle scelte degli artisti. Il loro intento è di usare questi componenti per farne opere d’arte. Andy Warhol usa le foto pubblicitarie della Coca Cola, della zuppa Campbell’s e alla morte di Marilyn Monroe la sua immagine per una serie di opere alle quali cambia solamente il colore di fondo. Continuerà poi con le foto dei più importanti personaggi del panorama mondiale. Tutto ciò che fa parte del reale, e tutte le forme di comunicazione popolare sono di stimolo per gli artisti come i fumetti per Roy Lichtenstein, i supermercati dove una grande quantità di scatole di detersivo Brillo ispira un nuovo lavoro a Andy Warhol, l’arredo della casa che suggerisce a George Segal di ricostruire un ambiente e collocarci una figura di gesso bianca che sta tra il fantoccio e il fantasma, le strade con le loro scritte sui muri, i coloratissimi cartelli pubblicitari che rappresentano per James Rosenquist una sorta di panorama sociale.

 

Contemporaneamente alla Pop Art nasce negli Stati Uniti la Minimal Art, quasi a contrastare l’eccessiva ricchezza della struttura urbana, dei media e della pubblicità. La ricerca in questo campo si basa sul concetto della “riduzione” e “contenimento” dell’opera con l’utilizzo di elementi primari, di forme geometriche elementari e materiali naturali o industriali utilizzati per la loro struttura semplice. Così mentre la Pop Art è immagine e colore, la Minimal Art è riduzione di immagine e colore. Epigono della Mimimal Art, termine inventato dal critico Richard Wollheim nel 1965, è da considerarsi Frank Stella che con Donald Judd, Robert Morris, Carl Andre, Don Flavin e Sol LeWitt lavorano sulla superficie pittorica usando pochissimo colore, mentre i lavori tridimensionali concepiti con barre o trafilati metallici, tubi fluorescenti o feltri, formano costruzioni ideate con semplice ma rigoroso impianto geometrico, con equilibrio e ritmo regolare.

Il senso di questo lavoro è sintetizzato da Frank Stella in “Ciò che vedi è ciò che vedi”. Verso la seconda metà degli anni sessanta alcuni artisti americani ed inglesi lavorano intorno ad una ricerca riguardante la filosofia del linguaggio e della forma. Un modo di intendere l’operazione artistica come una pura produzione mentale. Sol LeWitt nel suo testo del 1967 scrive: “l’idea in se stessa, anche se non realizzata visualmente, è un’opera d’arte, tanto quanto un prodotto finito”. E nello stesso testo compare per la prima volta il termine Conceptual Art (Arte Concettuale). “L’idea diventa la macchina che fa arte” (Sol LeWitt ).

 

In Europa, a Zagabria, nel 1961 nasce il movimento “nuova tendenza” che riunisce gruppi di artisti che portano avanti ricerche indirizzate in particolare all’arte cinetica e programmata. L’arte cinetica, anticipata da esperienze artistiche delle avanguardie storiche ad opera di Duchamp, Tatlin e Man Ray, si afferma e si diffonde negli anni cinquanta con Victor Vasarely, Bruno Munari, Enzo Mari, Jesus Raphael, Soto e Jean Tinguely. Questi artisti sperimentano la possibilità di movimento nell’opera d’arte, da quella realizzata attraverso la disposizione di linee geometriche e rapporti cromatici a quella dove vengono impiegate superfici ondulate, da quelle luminose a quelle meccaniche o elettromagnetiche. Danno così vita a strutture mobili, in continuo mutamento ma regolate da un programma rigoroso, quasi scientifico per costruire un nuovo linguaggio attraverso il quale l’opera prende vita per indurre lo spettatore a diventare quasi parte di essa.

 

Alla fine degli anni cinquanta, a Parigi, un gruppo di artisti supportati dal giovane critico Pierre Restany dà vita ad un nuovo sodalizio. Il 27 ottobre 1960, nell’abitazione di Yves Klein, Restany fonda ufficialmente il Nouveau Réalisme rappresentato da Arman, Francis Dufréne, Raymond Hains, Yves Klein, Martial Raisse, Daniel Spoerri, Jan Tinguely e Jaques Mahé de la Villeglé. Si aggiungono più tardi Nike de Saint-Phalle, Christo e Mimmo Rotella, unico italiano del gruppo. In quel giorno fu firmato un manifesto su carta monocroma blu o rosa oppure oro con la scritta: “Il giovedì 27 ottobre 1060 i nuovi realisti hanno preso coscienza della loro singolarità collettiva. Nouveau Réalisme = Nuovi approcci percettivi al reale”. Yves Klein, nato a Nizza nel 1928 da una famiglia di artisti, è sicuramente la personalità di maggiore spicco in questo gruppo dove ormai la ricerca creativa è al centro del percorso, anticipando Pop Art ed aspetti concettuali. Fin dall’inizio il lavoro di Klein è caratterizzato da una sorta di spiritualità e misticismo. Con lo scultore Arman ed il poeta Claude Pascal si incontra clandestinamente in una stanza dipinta di blu dove insieme meditano, leggono pagine di letteratura esoterica, suonano pezzi jazz, ballano, fan pratica di judo e sognano di partire per il Giappone in un viaggio a cavallo. Salgono talvolta sui tetti per spartirsi il mondo: ad Arman la terra e le cose materiali, a Claude le parole, ad Yves il cielo. Klein comincia così a trasportare le sue idee di rapporto tra arte e spiritualità sulla tela. Realizza quadri monocromi blu, rosa o oro. Più tardi brevetta un certo tono di blu con la siglia ikb (International Klein Blu). In una mostra alla Galleria Apollinaire di Milano vengono esposti undici quadri monocromi, perfettamente uguali ma diversi solo nel prezzo perché, a detta dell’artista, ognuno di loro contiene una diversa dose di “sensibilità d’artista”. Questa mostra offre spunti di ricerca per diversi artisti italiani. Giulio Carlo Argan in L’arte moderna 1770-1970 scrive: “Quando Klein campisce la superficie della tela con un solo colore, senza la minima variazione, si propone certamente di modificare il rapporto fra il fruitore e l’ambiente: ma non lo fa agendo sull’ambiente (‘intonandolo’ ad un dato colore, come Rothko e, in certo senso, Fontana) bensì sul fruitore, disponendolo a ‘sentire’ l’ambiente secondo un dato colore, cioè a ‘vivere’ in blu o in rosa o in oro. Perciò sottolinea l’aspetto spettacolare e rituale del proprio gesto autoritario: ricorrendo per esempio a pennelli viventi cioè a modelli nudi e intrisi di colore che stampano la loro impronta sul muro. È chiaro che non è più un gioco, una tecnica né, a rigore, uno ‘stile’, l’operazione consiste in atti di scelta, i cui motivi riguardano soltanto l’artista, ma i cui effetti agiscono sulla società intera”.

César inventa le Compressioni, carrozzerie di automobili ridotte a grandi cubi di metallo variopinto; Arman le Accumulazioni, oggetti di varia natura recuperati chissà dove e chiusi in contenitori trasparenti. Arman è attratto anche dal disfacimento dell’oggetto, in particolare usa strumenti musicali che vengono così tagliati e sezionati in vari modi.

Raymond Hains e Mimmo Rotella, con lo strappo dei manifesti pubblicitari, effettuano un decollage in contrapposizione ai collage del periodo cubista.

 

In Italia, già dal 1958 l’Informale aveva lasciato posto a nuovi stimoli per fare arte. La svolta degli anni sessanta è segnata a Milano dal lavoro della Galleria Hazimuth e dall’omonima rivista pubblicata in soli due numeri e fondata da Piero Manzoni ed Enrico Castellani. La prima esposizione in Italia organizzata da Pierre Restany con gli artiti del Nouveau Réalisme si tiene alla Galleria Apollinaire di Milano nel 1960. Le opere di Yves Klein colpiscono particolarmente gli artisti milanesi. Il lavoro di Piero Manzoni ne viene fortemente influenzato e dopo un periodo di ricerca legato al filone dell’arte nucleare, le tele monocrome di Klein lo spingono ad affrontare una esperienza nuova. Nascono così i primi Achromés, tele coperte di gesso bianco, per arrivare poi all’utilizzo di oggetti e materiali di uso comune come batuffoli di cotone, carte e cartoni di vario tipo, pacchi, panini, ma tutti caratterizzati dallo stesso colore: il bianco. Il lavoro di Manzoni prosegue nella eliminazione di “ogni procedura tecnica ed a porre l’arte come puro atto”. L’idea ha così più valore dell’oggetto come i Corpi d’aria, il Fiato d’artista, il rotolo di carta su cui è tracciata una linea, ed in fine la Merda d’artista, il tutto in scatole ermeticamente chiuse.

Diversa è la posizione di Enrico Castellani che già negli anni ’57-58 mette in evidenza l’esigenza di trovare un nuovo modo di intervenire dentro al quadro, rifiutando il tradizionale modo di dipingere.

Le sue tele imbottite, introflesse o estroflesse risentono della forte ricerca dell’artista per uscire definitivamente dalle pieghe dell’informale. Il suo spazio è vario, giocato sul recupero della prospettiva, dell’effetto ottico, dei chiaroscuri e dell’incertezza visuale. Anche per Agostino Bonalumi, Paolo Scheggi e Dadamaino, le riflessioni sulla tela estroflessa o bucata, con riferimenti a Fontana, insistono sul concetto dell’assenza della figura, del senso e del colore.

 

Intorno all’arte cinetica o programmata si costituiscono alcuni gruppi. Il Gruppo T per gli “oggetti cinetici” si forma a Milano nel 1959 con Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi e Grazia Varisco. All’interno dell’arte e della comunicazione visiva, il gruppo svolge indagini sulla variazione e programmazione cinetica dell’immagine creando oggetti, ambienti architettonici, films e opere grafiche. Il Gruppo N, per le “visioni dinamiche”, si forma a Padova nel 1958 ed è composto da Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi, i quali si qualificano “disegnatori sperimentali che fruiscono di un metodo di indagine collettiva e sommano esperienze pratiche e teoriche diverse”. La finalità del gruppo è la realizzazione collettiva e anonima delle proprie opere. “Alla base del lavoro degli artisti cinetici c’è soprattutto l’impegno ad analizzare scientificamente tutti i fenomeni percettivi al fine di pervenire ad un linguaggio artistico strettamente connesso con quello scientifico, con le tecniche industriali e le nuove tecnologie. Presupposto dell’opera è il progetto, così come avviene nella produzione industriale, e la sua capacità di inserirsi nel contesto sociale per influenzarlo e modificarlo: una posizione, dunque, di chiara derivazione avanguardistica”(Loredana Parmesani). Il Gruppo Uno nasce a Roma ed è attivo dal 1962 al 1967 ed in esso si riuniscono Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille Pace, Pasquale Santoro e Giuseppe Uncini. Le ragioni di questo gruppo, del quale fanno parte artisti le cui caratteristiche rimangono ben distinte, sono enunciate dal gruppo stesso nelle dichiarazioni di poetica stampate a Roma alla fine del 1963. Dei sei artisti si conoscono le matrici informali, ma allo stesso tempo la nuova volontà di costruire un’immagine fuori dal rapporto realtà-figuratività (Nello Ponente), il desiderio di realtà e pulizia (Eugenio Battisti), il fondamento neocostruttivista (Sossi).

 

La capitale della Pop Art italiana è Roma. A piazza del Popolo si riuniscono gli artisti che operano in questa direzione. Il primo che si interessa della tematica pop è Mario Schifano. Già nei primi anni sessanta propone i suoi segnali, opere che riportano sulla tela indicazioni stradali, scritte pubblicitarie e situazioni rubate alle comunicazioni di massa. Oltre al supporto in tela, utilizza poi carta da pacchi sulla quale stende coloratissimi smalti, usati nelle industrie automobilistiche, realizzando una serie di monocromi. Dopo un viaggio a New York, nei suoi lavori compaiono frammenti di paesaggio, simboli del consumismo come le insegne Esso e Coca Cola, riproposte di immagini televisive, rivisitazione del Futurismo e situazioni politiche, ed ecco Paesaggi anemici, Ossigeno ossigeno, Futurismo rivisitato, Compagni compagni e Televisori. Nella scuola di Piazza del Popolo lavorano con Schifano Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni e Mario Ceroli. I lavori di Angeli sono caratterizzati dal clima di un impegno politico-sociale proprio di quegli anni: falci e martelli, svastiche, lupe romane, dollari. Festa, la cui ispirazione si lega alle avanguardie americane, realizza opere utilizzando oggetti come persiane, armadi, obelischi, per passare poi alla tradizione pittorica riportando sulla tela immagini fotografiche e rielaborando così capolavori tratti da Michelangelo a Ingres. Importanti sono anche i suoi Cieli dipinti della seconda metà degli anni sassanta. Giosetta Fioroni vede un mondo più decadente, vede il ‘kitsch’ con occhi liberty, in modo più malinconico e struggente. Il suo lavoro è caratterizzato da segni calligrafici come lettere dell’alfabeto, numeri, quadrati e dall’uso dell’argento carbonizzato per rappresentare soggetti che vanno da citazioni della pittura rinascimentale alla rielaborazione fotografica. Mario Ceroli gioca ad andare controcorrente e sulla natura delle immagini del quotidiano. Utilizza il legno, antico materiale nobile, a dispetto della plastica, del vetro, del neon e del plexiglas. Combatte l’artificiale con il naturale. Le sue opere prendono forma in un laboratorio dove la pialla, la sega e il martello sono i mezzi per la realizzazione delle sue ‘sculture’.

Gli artisti milanesi: Valerio Adami, Emilio Tadini, Alik Cavaliere, Lucio del Pezzo, e poi Titina Maselli e Pino Pascali a Roma e Concetto Pozzati a Bologna sviluppano un linguaggio che della Pop Art rivela valori più umanistici e letterali. La personalità degli artisti resta comunque molto distinta. Adami svolge una pittura di racconto che si rifà al fumetto, con figure accostate ad oggetti, giocando con colori puri spesso delineati da contorni neri. Tadini, pittore, scrittore e critico d’arte, esordisce nel 1961 con una pittura caratterizzata da un montaggio di immagini e parole riferiti alla cultura letteraria d’avanguardia del Novecento. Cavaliere, unico scultore del gruppo, modella nei suoi lavori una sorta di paesaggio immaginario con calchi di elementi vegetali e dove la figura è chiamata a recitare la propria anonima vicenda umana. Le opere di Lucio Del Pezzo risentono della tradizione culturale e popolare partenopea. Feticci, lumi, ex voto, cordicelle, chiodi si riuniscono in un assemblaggio fra il magico e il sacrale. I suoi lavori costituiscono così quadri-sculture-oggetto dove le due superfici della pittura acquistano rilievo tridimensionale dientando mensola, scansia, teca o ripiano, come in Collezioni del 1963. Concetto Pozzati in Schifanoia ortogonale del 1963 ricorre per la prima volta all’iconografia pop con frecce e bersagli, per passare più tardi ad una sorta di “trompe l’Sil” per la riproduzione fedele di immagini pubblicitarie.

 

Il Movimento Arte Povera si forma a Torino nella seconda metà degli anni sessanta e riporta l’Italia al centro del dibattito internazionale. Il critico Germano Celant riunisce intorno a sé un gruppo di artisti provenienti da tutta Italia e propone un linguaggio in accordo con il clima del momento, che rompe con la tradizione e compie una totale apertura dell’opera ai più svariati materiali. Si ricerca perciò un nuovo rapporto son le cose ed in particolare con la natura.

Come scrive Celant: “L’arte povera non è un operare illustrativo e teorico, non ha come obbiettivo il processo di neorappresentazione dell’idea, ma è indirizzata a rappresentare il senso emergente ed il significato fattuale dell’immagine, come azione cosciente, si presenta lontana da qualsiasi apologia oggettuale ed iconica, è un agire libero, quasi intuitivo, che relega la mimesi a fatto funzionale e secondario, i nuclei focali risultano l’idea e la legge generale”. Il fare estetico in Italia è riconosciuto internazionalmente nell’Arte Povera attraverso le opere di Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Pino Pascali, Emilio Prini, Gilberto Zorio, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Jannis Kounellis, Mario Merz, Pier Paolo Calzolari e Giovanni Anselmo. I lavori di questi artisti escono dagli spazi tradizionali, museo o galleria, per cercare un rapporto più vicino al vissuto. Lo spettatore deve far parte dell’evento artistico e parteciparvi attivamente. A Michelangelo Pistoletto si deve una delle immagini più autentiche dell’iconografia di “réportage”. Nelle sue superfici riflettenti sembra cercare il senso dell’essere, le figure incollate fanno parte del nostro mondo nel momento in cui la nostra immagine è riflessa accanto a loro. Un lavoro che si colloca fra la rappresentazione e l’illusione. Anche nella Venere degli stracci si coglie la contraddizione tra la bellezza della Venere, figura classica in cemento ricoperta di mica, e il mucchio di stracci a cui è appoggiata. In contrapposizione all’oggetto precostituito, Mario Merz avvia la ricerca sugli Igloo, una serie di costruzioni realizzate con intelaiatura in metallo e ricoperte di argilla, tela cerata, ardesia, pezzi di vetro o rami, spesso sormontate da scritte al neon. Contemporaneamente continua la sua opera con installazioni utilizzando bottiglie, bicchieri, cesti, ombrelli e una serie di tele trafitte da tubi di luce al neon. Importante è l’organizzazione degli elementi utilizzati nelle sue istallazioni sulla base della progressione locico-matematica della serie di Fibonacci, secondo la quale ogni numero è costituito dalla somma dei due che lo precedono. In Pier Paolo Calzolari il tema predominante è la luce. “La luce, simbolo dell’impatto dell’arte, abbaglia ed acceca, conduce fino alla pazzia. Da qui il titolo dell’opera Impazza angelo artista”. Calzolari si distingue per la matrice letteraria e poetica presente nei suoi lavori. Caratteristica delle prime opere di Gilberto Zorio è l’instabilità: colonne di eternit appoggiate su camere d’aria, superfici di gesso che cambiano colore in rapporto all’umidità dell’atmosfera, tele sulle quali si deposita il sale per effetto dell’evaporazione, colate di cemento che si disgregano per il proprio stesso peso. “L’intimo legame tra la natura dei fenomeni dinamici e gli attributi immaginari, si riconosce nelle ‘figure’ e nelle ‘tensioni’ di Gilberto Zorio. Scrivere ‘Odio’ a colpi di ascia o incidere la stessa scritta a forza di peso sulla pelle, come costruire una stella sulla convivenza di cinque giavellotti, sembra voler costituire un’osmosi tra termini separati, quali la visione e il passaggio dell’energia” (Germano Celant).

Sempre a Torino, diverso è l’approccio di Piero Gilardi al mondo dell’arte del momento. Sulla metà degli anni sessanta sperimenta nuovi materiali e nuove tecniche. Il suo spazio di ispirazione è la natura. Realizza infatti ciò che egli chiama Tappeto natura, Orto, Sottobosco, Granoturco caduto, che realizza usando poliuretano espanso sia per il supporto di fondo, che per “scolpire” brani di natura. La frutta, la verdura, l’erba e gli sterpi di un prato dai colori accesi offrono un momento di riflessione fra il reale e l’effimero, e un disagio che l’artista chiama “magia”.

Anche Aldo Mondino realizza opere che lo vedono impegnato a risolvere giochi infantili dallo stato prenatale all’infanzia, opere con scritte ironiche, con segnali stradali, con giochi di parole che lo avvicinano pian piano al clima poverista torinese sperimentando varie tecniche e materiali, tra cui lo zucchero.

Negli ultimi anni sessanta si fa strada in Italia l’Arte Concettuale. Vincenzo Agnetti, milanese, è sicuramente uno degli artisti più originali. Per le sue opere fa ricorso a numeri, parole, diagrammi, audio e video-nastri. La parola è la grande protagonista del suo lavoro. Lui stesso scrive: “La parola quando è sola rimane comunque il titolo di temi diversi relativi ad associazioni soggettive”.

Nell’opera concettuale non esistono forme né tecniche precise, quello che rimane dell’arte è solo ciò che si vede ed i pensieri che essa suscita.

 


       



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