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15 Settembre, 2002
Vi spiego perché Sarkozy non è liberale (di Bertrand Delanoe)
Articolo del sindaco di Parigi, in corsa con Ségolène Royal per la guida del PS. - da www.repubblica.it

Non sono social-liberale: non aderisco a ciò che rappresenta quella corrente di pensiero. Ma ve lo dico apertamente: non rifiuto automaticamente il termine "liberale". E quando si applica a una dottrina politica, in senso globale, credo addirittura che un militante socialista dovrebbe rivendicarlo. In compenso, quello che per un progressista è inaccettabile, è che il "liberalismo" venga elevato al rango di fondamento economico e perfino sociale, coni suoi corollari: disinteresse dello Stato ed eccessivo permissivismo economico-commerciale.

E' ora che la smettiamo di accanirci su una parola e che chiudiamo questa triste epoca della nostra storia collettiva, che ha visto gran parte della sinistra francese rifiutare una costituzione europea con il pretesto che sarebbe stata una costituzione "liberale". Atteggiamento tanto più assurdo - e vi prego di credere che non sono ispirato dal gusto del paradosso ma da quello della verità - in quanto la sinistra che difendo è di spirito liberale.

Il sarkozysmo, questo bonapartismo temperato dalla disinvoltura - ma su questo punto torneremo dopo - è invece profondamente antiliberale. Voglio dimostrare quanto affermo. Che cos'è il liberalismo? È una dottrina di affrancamento dell'uomo nata nell'Europa illuminista. E, come dice ilsuo nome, un'ideologia della libertà che ha permesso il raggiungimento di grandi conquiste politiche e sociali. Il principio è semplice: non esiste un'oppressione giusta, non ci sono catene che non debbano essere spezzate, non c'è legittimità, né quindi fatalità, nell'asservimento. E il liberalismo è nel contempo l'idea che la libertà sia una responsabilità e che essere liberi non significhi fare quel che si vuole, bensì volere quel che si fa. E sulla falsariga di questo retaggio intellettuale, quello di Montesquieu, di John Locke, di quelli che hanno saputo ergersi contro la mortale comodità dell'abitudine per dire di no, che io sono liberale.

Sono liberale perché amo la libertà. Per me stesso-ho sempre voluto essere un uomo libero da ogni asservimento e da ogni dominazione - e per gli altri: mi piacciono i popoli liberi che sfidano il rigore della storia, mi piace che, collettivamente, si esprima il desiderio di avanzare con fierezza sul cammino che ci si è sovranamente tracciati. E quanto dico dei popoli vale anche per le persone. Ogni individuo ha diritto alla felicità e ha diritto di cercarla con i mezzi che ritiene opportuni. Con un unico limite: quello dell'articolo 4 della Dichiarazione dei diritti umani, che definisce la mia idea di liberalismo: a[...] l'esercizio dei diritti naturali di ogni essere umano non ha limiti se non quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di quegli stessi diritti». Il liberalismo è prima di tutto una filosofia politica, e a questa io aderisco. Sono i conservatori che l'hanno deviato al servizio di un'ideologia del lassismo economico e della perpetuazione delle rendite e dei privilegi di cui già beneficiano. Nel nome di un principio di libertà, il loro scopo è in realtà quello dell'immobilismo che preserva i loro vantaggi e riproduce sempre le stesse diseguaglianze. E una soperchieria allo stesso tempo intellettuale e ideologica alla quale la sinistra non deve e non dovrà più adattarsi. tomi ritengo, pertanto, liberale. E socialista.

Sarkozy ostacola invece le libertà individuali e ignora le libertà collettive. Che cos'è l'emendamento sui test del Dna se non una restrizione imposta alla più elementare delle libertà, vale a dire la libertà di esistere indipendentemente da come si è nati e di non essere definiti dal proprio codice genetico? Che cos'è questa pratica politica fatta di arroganza e di egotismo? Sarkozy vuole essere un sovrano onnipotente: il liberalismo è precisamente il contrario. Il liberalismo è la tolleranza di fronte ai percorsi individuali, una certa forma di benevola indifferenza della collettività davanti alla singolarità delle scelte di ciascuno, la messa in pratica della più bella delle virtù: la moderazione nell'esercizio di un potere, qualunque esso sia.

Come sarebbe a dire che non ci sono più utopie? Non è un'utopia fondare una società della conoscenza? Non è un'utopia controllare le conseguenze culturali delle nuove tecnologie? Non è un'utopia creare una società della giustizia nell'economia moderna? Non è un'utopia concepire la giustizia sociale nello sviluppo duraturo? Non è un'utopia inventare nuove forme di democrazia? Non è un'utopia far progredire la civiltà della libertà e fare della Francia e dell'Europa un modello di sviluppo umano per il mondo? Sono utopie realizzabili, ideali che possiamo raggiungere. Ecco la differenza con la vecchia sinistra: noi non ci accontentiamo di sognare e di accusare gli altri di tradimento, perché quello che fanno è imperfetto. E se ammettessimo che il coraggio, quello vero, quello che giustifica gli sforzi e ricompensa le vittorie, non consiste nell'esortare a una rivoluzione impossibile ma nel preparare la riforma possibile? Il coraggio è azione, non incantesimo. Noi agiamo perché un giorno i nostri sogni si realizzino. I più belli tra i sogni sono quelli che si realizzano, anche solo parzialmente.

La destra intelligente oggi è incarnata da Nicolas Sarkozy. E che cosa dice? Fa un discorso populista al limite della demagogia. Gli operai sono formidabili, i dipendenti statali sono formidabili, i lavoratori sono formidabili. Ma tutti gli sforzi finanziari dello Stato vanno ad altri, a quelli che non ne hanno bisogno. E stato così per le norme fiscali: le riduzioni d'imposte stabilite all'inizio del quinquennio hanno avvantaggiato essenzialmente le classi agiate e gli ereditieri relativamente facoltosi, senza nessun effetto sull'economia. Ma lo dico tranquillamente. La sinistra è sempre stata il partito dei dipendenti pubblici. Resta quella che è e non deve scusarsene: può opporsi con fierezza alla demagogia di un regime che vuole sempre meno impiegati statali ma sempre più agenti di polizia e sempre più infermieri. La Gran Bretagna di Tony Blair ha condotto una lotta alla disoccupazione della quale anche i più altezzosi dei nostri liberali acclamano l'efficacia, ma quella lotta è stata vinta creando un milione e mezzo di posti di lavoro nella funzione pubblica. La sinistra è sempre stata il partito delle tasse, vale a dire del reddito pubblico, e deve avere il coraggio di rimanerlo nel m omento in cui viene rimessa in discussione la giustificazione stessa del contributo collettivo alla ricchezza della nazione. Lo dice il sindaco di un comune dove in sette anni il prelievo fiscale non è stato mai aumentato: contestare il principio della fiscalità significa attentare all'equilibrio stesso del paese.

Noi siamo una sinistra di governo. Dobbiamo riflettere sul nostro modo di governare e pertanto sul modo in cui gestiamolo stato. E' una delle grandi sfide che la sinistra deve affrontare e forse la sfida principale. Per vincere bisogna essere credibili. Senza una gestione rigorosa ed energica non si può cambiare la società e realizzare le necessarie riforme sociali ed economiche. Dobbiamo essere dei manager. Manager del cambiamento, della riforma del dialogo sociale, manager della speranza. Ma sempre manager. Senza mezzi non si fa niente. E sotto Chirac e Sarkozy lo Stato si è indebitato considerevolmente.

Non possiamo aumentare le imposte indefinitamente, anche se ritengo necessario mantenere un alto livello di imposte, soprattutto per le classi più agiate. Quindi bisogna trovare nuove risorse. Queste risorse esistono e consistono soprattutto nell'ottimizzazione dell'efficienza nel funzionamento dello Stato e dei servizi pubblici. È quanto abbiamo fatto a Parigi. In sette anni non abbiamo mai aumentato le imposte. Abbiamo cercato nuovi margini riformando l'uso del denaro pubblico e razionalizzando la gestione della città. Siamo perfettamente in grado di farlo anche su scala nazionale, a condizione di essere dei manager. La sinistra deve farsi carico delle necessità di gestione. È la prima condizione per poter realizzare l'utopia! Sono due cose indissociabili.

traduzione di Elda Volterrani  


       CommentoFonte La Repubblica



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