15 Settembre, 2002
Un banco di prova per l'intransigenza cinese
Eva Pföstl da www.affarinternazionali.it del 20 marzo 2008
Di fronte al coro di proteste internazionali per la repressione in
Tibet, il governo centrale di Pechino risponde che "La Repubblica
popolare difenderà risolutamente la sua sovranità nazionale e la sua
integrità territoriale", confermando che la sovranità rimane
componente essenziale del nazionalismo cinese. Questa trova le sue
basi intellettuali nel pensiero di Liang Qichao, le cui concezioni
dello Stato, del sistema mondiale e della collocazione della Cina in
quest'ultimo sono ancora presenti nell'immaginario nazionale cinese.
È vero che queste formulazioni originarie sono state riviste in
virtù dell'introduzione del marxismo-leninismo e
dell'interpretazione di Marx fornita da Mao, così come
dal «socialismo con caratteristiche cinesi» di Deng Xiaoping e,
infine, dal contributo ideologico di Jiang Zemin al pensiero
dei «tre rappresentanti». Tuttavia, la sovranità
nell'interpretazione datane dai primi nazionalisti è rimasta il
nucleo della politica cinese e Pechino continua a definire il Tibet
una questione relativa alla sovranità cinese. E, che si accetti o
meno la base normativa su cui tale tesi poggia, essa pone dei
vincoli molto chiari al novero di possibili soluzioni al conflitto
sino-tibetano.
Le minoranze etniche in Cina
La Repubblica Popolare Cinese è un paese multi-etnico; la sua
popolazione ammonta a circa 1,3 miliardi di persone, di cui circa il
91,96% appartiene al gruppo cinese Han, mentre l'8,04% appartiene a
57 gruppi etnici diversi. Dall'avvento al potere del comunismo nel
1949, il governo cinese ha varato una serie di provvedimenti in
materia di autonomia, comprendenti in particolare il Programma
comune della Conferenza politica consultiva del popolo cinese del
1949 (con le successive modifiche approvate tra il 1954 ed il 1978)
e il Programma generale per l'attuazione dell'autonomia regionale
delle nazionalità del 1952. Tali leggi sono state poi superate dalla
Costituzione della Repubblica Popolare Cinese del 1982 e dalla legge
del 1984 sull'Autonomia regionale delle nazionalità, ovvero la
principale legge sull'attuazione delle disposizioni costituzionali
in materia di autonomia (con le successive modifiche del 2001). Le
norme sull'autonomia vigenti in Cina, si applicano alle cinque zone
ad autonomia etnica - Inner Mongolia (creata nel 1947), Xinjiang
(1955) Guangxi (creata nel 1958), Ningxia (1958) Tibet (1965) - così
come a 30 prefetture autonome e 124 distretti autonomi, sul cui
territorio risiedono nazionalità di minore consistenza.
Si tratta di forme di autonomia piuttosto di facciata, perché sia la
costituzione, sia la legge del 1984, anche nella sua versione
rivista, insistono in maniera esplicita sull'unità della Cina e sul
fatto che le aree etniche costituiscono tutte parte integrali del
territorio cinese.. Il nucleo persistente della politica cinese
sulle minoranze è la promozione e il mantenimento dell'unità
nazionale e della stabilità politica. Questa politica viene condotta
in primo luogo in maniera persuasiva, tramite la concessione di
autonomia regionale e governo autonomo alle regioni di minoranza,
fornendole di trattamenti favorevoli e preferenziali; in secondo
luogo, essa viene attuata in maniera coercitiva, quando lo si
ritiene necessario, con misure molto severe nei confronti delle
rivendicazioni separatiste..
È per questo che negli ultimi 50 anni, in parallelo con politiche di
ricompensa per le minoranze, si è continuato a sopprimere le
espressioni di dissenso. Il risultato di questo è che la diversa
situazione delle minoranze etniche della Cina è ormai divenuta
evidente. Molte di esse, specialmente quelle che risiedono nelle
regioni centrali e sud-orientali, hanno mostrato uno stabile
atteggiamento di coesistenza pacifica con gli Han, e fra di loro. Ma
a differenza delle minoranze del sud-est, lo Xinjiang e il Tibet
sono due regioni dove il senso d'indipendenza è stato
tradizionalmente forte.
La questione tibetana Per quanto riguarda il Tibet, che de facto
storicamente è stato indipendente, la nascita della "questione
tibetana" risale all'esodo del Dalai Lama dal Tibet in India, dopo
la fallita ribellione all'autorità cinese a Lhasa nel 1959. In più
di due decenni di colloqui continui, Pechino e Dharamsala sono
rimasti in disaccordo su che cosa sia - o dovrebbe essere - in
discussione. La dirigenza tibetana in esilio ha sempre avanzato due
richieste essenziali: l'unificazione di tutte le aree abitate da
tibetani e una «reale autonomia». Da parte sua, Pechino è stata
chiarissima ed esplicita sul fatto che non c'è alcuna «questione
tibetana» da discutere. Piuttosto, da parte loro la disputa è stata
descritta esclusivamente come la questione relativa al ritorno
personale del Dalai Lama.
Sulla prima questione, a partire dall'inizio degli anni `50, i
tibetani hanno richiesto di unificare tutte le aree abitate da
tibetani in una unità singola dal punto di vista amministrativo e
politico: il Tibet comprenderebbe tutto l'altopiano, incluse le aree
tradizionalmente tibetane di U-Tsang, Kham e Amdo, un'area che
equivale ad un quarto del territorio della Repubblica popolare
cinese. Oltre alla Regione autonoma del Tibet, il «grande Tibet»
includerebbe la maggior parte della provincia di Qinghai e parti di
Gansu, Sichuan e Yunnan, aree dove il 53 per cento dei tibetani
della Repubblica popolare vivono in mezzo a cinesi han e altri
gruppi etnici.
Il governo della Repubblica ha detto con chiarezza che il «grande
Tibet» è un'entità astorica e irrealizzabile, anche a causa della
vastità del territorio in questione e dei differenti stadi socio-
economici delle varie aree tibetane. Sulla seconda questione, dal
1988 il Dalai Lama ha rinunciato all'indipendenza in cambio di
una "sostanziale autonomia" con un controllo politico effettivo sui
propri affari interni, specialmente in campo culturale, riservando
alla Repubblica popolare il controllo della difesa del Tibet e degli
affari esteri, preservando così la propria integrità territoriale.
Pechino e il governo tibetano in esilio
Senza dubbio, uno dei fattori chiave che hanno influenzato le
relazioni fra Pechino e il Dalai Lama sono state le pressioni
internazionali. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare
stando alla letteratura teorica sulla diffusione delle norme, come
anche tenendo conto delle intenzioni di chi preme sulla Cina per
mutare la politica cinese in Tibet (Ong, governi stranieri, il
governo tibetano in esilio), le pressioni esterne hanno avuto la
tendenza a prolungare l'intransigenza cinese a questo riguardo
(rendendo più profondi i timori relativi alla perdita della
sovranità cinese sul Tibet) e si può pensare che esse abbiano finito
per impedire l'attuazione di una politica più flessibile.
Data la sensibilità di Pechino all'influenza straniera nei propri
affari interni, per qualsiasi dirigente cinese sarebbe una mossa
pessima, dal punto di vista politico, aprire colloqui con il Dalai
Lama solo a causa della censura occidentale. Inoltre, la critica
internazionale della politica sul Tibet costituisce tutto sommato
solo un elemento di disturbo minimo nelle relazioni cinesi con i
governi stranieri. Al contrario, in quanto potenza in ascesa, la
Cina si è guadagnata il sostegno della comunità internazionale per
il mantenimento dei suoi confini territoriali riconosciuti.
Nondimeno, la critica proveniente dall'estero tocca un nervo
importante della dirigenza cinese. Così, perché il processo di
dialogo continui e progredisca, la pressione internazionale su
Pechino deve protrarsi.
Un altro fattore da non sottovalutare è rappresentato
dall'incertezza sulla sostenibilità delle attuali condizioni in
Tibet. La stabilità della regione tibetana è stata assicurata a un
costo straordinariamente elevato, e Pechino sa che
quest'investimento indotto per ragioni politiche ha liberato un
insieme complesso di forze sociali ed economiche le cui
ripercussioni sono ancora sconosciute.
Fattori di complicazione sono anche i mutamenti in corso
nell'equilibrio strategico regionale. In particolare, la crescente
preminenza indiana nell'Asia meridionale probabilmente influenzerà
la strategia cinese in Tibet. Dopo l'istituzione del governo
tibetano in esilio in India, nel 1959, il significato del Tibet
nelle relazioni sino-indiane si è accresciuto drammaticamente,
producendo un conflitto di confine nel 1962. Per quanto l'India
abbia da molto tempo riconosciuto la sovranità cinese sul Tibet e
fornito ripetutamente assicurazioni formali che «nessuna attività
politica anti-cinese» sarà permessa in India, la presenza del
governo tibetano in esilio a Dharamsala fornisce all'India un certo
peso nelle sue relazioni con la Cina. Nel 2003, il governo indiano,
ha riconosciuto che la regione autonoma del Tibet è parte della
Cina. In cambio, la Cina ha riconosciuto il Sikkim come parte
dell'India.
Accanto a questo miglioramento delle relazioni sino-indiane, c'è
stato l'enorme accrescimento della posizione dell'India come potenza
regionale. La crescente statura dell'India ha portato a una
riconsiderazione della posizione strategica della Cina nell'Asia
meridionale. Nonostante la recente espansione dei legami
diplomatici, militari e commerciali fra India e Cina, queste due
nazioni sono sempre più in competizione per la preminenza politica,
economica e strategica nella regione. Che l'India si allei con gli
Usa «per la causa della democrazia» contro la Cina, o con la Cina in
una «alleanza geostrategica de facto per contenere l'Occidente», è
chiaro che il mutamento di relazioni fra i due competitori nella
regione avrà un ruolo centrale nel prossimo decennio. È probabile
che aumenti, dunque, anche per questo aspetto, la necessità per
Pechino di trovare una soluzione duratura alla questione del Tibet.
Quale futuro per il Tibet?
Se si guarda agli sviluppi recenti nel mondo, è evidente che lo
status quo non prevale sempre e che il cambiamento è possibile. Il
centro dell'ordine mondiale non sarà più lo Stato nazione con
finalità onnipervasive tipico del passato, ma piuttosto una
pluralità di livelli molteplici di governo, profondamente
interconnessi fra loro. In questa nuova prospettiva, la questione
tibetana potrebbe trovare anch'essa una soluzione positiva. Infatti,
il Tibet rappresenterebbe un banco di prova ideale per l'attuazione
di una "reale autonomia" all'interno della Repubblica popolare
cinese. In virtù del carattere distintivo conferitogli dalla sua
storia come Stato-civiltà separata, emersa parallelamente, ma
indipendentemente, rispetto al mondo culturale cinese, il Tibet è
un'entità sui generis all'interno della Cina moderna.
Se non si potrà sviluppare una misura di vera autonomia per il
Tibet, allora è difficile credere che un principio di governo locale
si possa significativamente istituire nel resto della Cina. Una
genuina autonomia, inoltre, porrebbe fine alle violazioni dei
diritti umani e delle libertà fondamentali dei tibetani.
Promuoverebbe anche la pace e la sicurezza internazionale, perché,
anche se la Repubblica controllerebbe ancora la difesa del Tibet,
una regione tibetana che si autogoverna fornirebbe una regione
economicamente e socialmente più stabile di quella esistente adesso,
in un punto di confine fra Cina, India e Pakistan. L'autonomia,
probabilmente, preverrebbe l'insorgenza di un movimento
secessionista più violento che invece potrebbe essere un esito
possibile se la Repubblica continuerà a frustrare ogni
autodeterminazione del popolo tibetano.
Eva Pföstl, Istituto di Studi Poltici S. Pio V
(epfoestl@libero.it).
 
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