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15 Settembre, 2002
VENDERE LA GUERRA di Sheldon e Rampton John Stauber
Una lettura essenziale per coloro che vogliono essere artefici del proprio futuro e non soggetti passivi della manipolazione e del controllo" - Noam Chomsky. Il primo libro che rivela tutti i retroscena dell'aggressiva campagna di pubbliche relazioni e d

VENDERE LA GUERRA
Sheldon Rampton John Stauber
NUOVI MONDI MEDIA

"Una lettura essenziale per coloro che vogliono essere artefici del proprio futuro e non soggetti passivi della manipolazione e del controllo" - Noam Chomsky. Il primo libro che rivela tutti i retroscena dell'aggressiva campagna di pubbliche relazioni e disinformazione promossa dall'Amministrazione Bush per vendere al mondo la guerra all'Iraq e al terrorismo internazionale.

Con ricerche meticolose e documentate, gli esperti di media Sheldon Rampton e John Stauber analizzano le notizie, le conferenze stampa e i titoli di giornale attraverso cui il conflitto iracheno è stato pianificato con le stesse modalità di lancio di un prodotto sul mercato.

Il Pentagono ha infatti assoldato le migliori agenzie pubblicitarie e i colossi mediatici per ottenere il consenso dell'opinione pubblica, sfruttando la paura per criminalizzare il dissenso e limitare i diritti civili. Un piano di comunicazione basato su una sistematica mistificazione dei fatti, magistralmente decostruita dagli autori in questo brillante e affascinante saggio, bestseller negli Stati Uniti.

Un indispensabile manuale di difesa contro ogni tipo di propaganda.

John Stauber è il fondatore e il direttore del "Center for Media & Democracy", un istituto che analizza la propaganda condotta dalle multinazionali e dai governi. Lui e Sheldon Rampton pubblicano su "PR Watch", l'osservatorio Usa sull'industria delle pubbliche relazioni.

Postfazione a "Vendere la guerra"
Semio-guerre. La narrazione come forma attuale della guerra di Federico Montanari

La realtà, l’essenza della guerra, mai come oggi - dopo la presa di Baghdad, dopo l’11 settembre, dopo il Kosovo, i conflitti della ex-Jugoslavia e la guerra del Golfo - si nasconde dietro un apparente paradosso: essa è vera e non è vera, ci sono i morti e non ci sono, o non sono quelli che vediamo e che ci vengono raccontati; e le vittime sono reali (quando non vengono derubricate, come ai tempi delle guerre umanitarie, nei termini di danni collaterali) ma sono sempre altrove e in numero diverso da quello annunciato. Ma non basta. Non è più sufficiente dire che la guerra è manipolazione e propaganda. Non si tratta più di questo: una trasformazione si è prodotta e il libro di Sheldon Rampton e John Stauber sembra attestarlo lucidamente, con documentati riferimenti. Ma vediamo quali sono i tratti di questa strana neoguerra.

Innanzitutto, la battaglia. Le battaglie, oggi, è vero, ricominciano, di nuovo, a esserci mostrate; con tutti i caratteri, con tutti i crismi che sono loro propri sin dalla concezione leonardesca: nebbia (tempeste di sabbia), mischie se non di uomini di materie, fumo, incendi. Ma sono tanto “low-fi”, nelle riprese delle mini videocamere dei giornalisti embedded o degli stessi soldati – ogni reparto sembra che possa contare oramai sul supporto di una videocamera per ogni quattro armi da fuoco. E queste immagini di battaglie sono tanto sature nei colori e nella percezione, tanto mosse e sfocate da farci sorgere un sospetto.

Non si tratta più dell’iperreale, del più vero del vero; non più del realismo del “far-sembrar-vero”, ma del suo contrario: le battaglie non sono più vere, sono allestite e sono teatralizzate. Sono narrative.
E il fumo, lo sfocato, la nebbia, il caos sono “effetti”: effetto-notte, effetto-nebbia. Tutto è divenuto procedura efficace, buona per la costruzione scenica, filmica, drammaticamente telegenica; e dunque narrativa. é in questo senso che va interpretata anche la stessa forma discorsiva che secondo gli autori di questo libro è tipica della nuova guerra: il Double-speak e il bi-pensiero (concetti coniati a partire da Orwell in “1984” e ripresi in maniera molto interessante da Rampton e Stauber) che trovano il loro più ampio dispiegamento e impiego. Dire che qualcosa “è” equivale ad attestarne una verosimiglianza non una veridicità: meglio, si tratta sempre di vere falsità, false verità e mezze bugie.

Tuttavia è importante trattare della questione in modo da non cadere nell’ovvio: non si tratta di dire che la guerra nasconde la verità, che in guerra da sempre la verità viene manipolata e la propaganda è la principale arma. Grazie, lo sapevamo già! E gli argomenti banali sono forse i peggiori nemici dei pacifisti e di chi crede veramente in una Lotta per la pace.
Si tratta di attestare, mai come oggi, lo statuto costruttivo di tali “verità” di guerra, cioè il loro montaggio a tavolino (spesso, come sottolineano gli autori, all’interno di campagne di gestione della comunicazione e dell’informazione di lunga durata, e progettate da agenzie internazionali di relazioni pubbliche, al servizio delle diverse amministrazioni e governi, come del resto era già, a quanto pare, avvenuto per le guerre balcaniche). Non verità, ma catene di discorsi verosimili costruiti ad hoc, adeguati per certi “frames”, certi contesti informativi, per certi scenari e certe finestre temporali di eventi possibili, per certi attori e non per altri. Per quella tv e per quei giornalisti, per quel pubblico e non per quell’altro magari più informato e più critico.

Ecco lo statuto attuale dell’informazione in tempo di guerra, tanto simile alla stessa attuale pratica bellica: informazione preventiva e a “geometria variabile” (da gestire secondo le diverse situazioni e usi), ma anche alla attuale politica. Informazione preventiva buona per predisporre pubblici a storie e a fasi della guerra, a momenti topici e a finali drammatizzanti ed euforizzanti. L’hanno capito bene i manifestanti che hanno sfilato a Londra contro la “enduring war”, che continua in Iraq: ripetendo umoristicamente il gesto dell’abbattimento di una statua di cartapesta, speculare al finto abbattimento scenografico della statua di Saddam.

Tuttavia è vero, si potrebbe replicare, che sin dalla Prima Guerra Mondiale (con il regista Griffith mobilitato per realizzare film “sulle trincee”, con scenari e assalti in parte ricostruiti nella nascente Hollywood), si aprì il campo della propaganda e della disinformazione di guerra; ed è vero che da allora gli uffici di comunicazione e propaganda, poi di “Special operation services” o i servizi dei “Signal corps”, sino alle Psy-Ops, stanno al centro della pianificazione bellica.

Ma il salto - e, lo ripetiamo, sta in questo l’originalità e il cuore del problema esposto nel presente libro - viene compiuto nel momento in cui tutti i diversi strumenti, le diverse leve del marketing di guerra, vengono orchestrati, messi in forma, pianificati in una logistica strategica della comunicazione: pianificandone spazi e scenari di attuazione, tempi e attori. Ecco dunque i tre parametri semiotico-discorsivi su cui si muove la condotta delle guerre attuali. Ed ecco l’apparente paradosso.

Non più la guerra che viene comunicata, propagandata, di cui ci si convince della giustezza e opportunità: la comunicazione in tempo di guerra. Ma la guerra nel tempo della comunicazione: la guerra che si trasforma per assumere le forme testuali della comunicazione, ma all’interno delle sue stesse pratiche concrete (che non a caso, a partire dagli anni ’90 e dalla dottrina USA dell’RMA, della “Revolution in Military Affairs, si fa “soft” e “light” sullo stile dell’allora nascente new economy: leggera, mobile, tecnologicamente avanzata, tutta basata su tecnologie della comunicazione e della captazione di informazioni).

La guerra, nel suo senso più profondo, si fa soap-opera e soprattutto (lo sottolineano gli autori in un capitolo del libro) “sequel”, saga da industria dell’intrattenimento. Come Il signore degli anelli, o Star Wars, appunto. Ma in che modo le azioni si adeguano alle comunicazioni? Questo sembra avvenire al di là della preponderanza dei mezzi dal lato “info” e da quello logistico-organizzativo-tecnologico della macchina bellica.

La guerra (lo attestano esperti strategico-militari di valore internazionale come Alain Joxe o Emmanuel Todd) diviene gesticolazione militarista e retorica dei “colpi” a effetto: dei momenti e delle attese (sempre in tv davanti al teleschermo, naturalmente). In questo la guerra del Kosovo è stato prototipo. Come sottolineava l’inviato Rai Ennio Remondino a Belgrado, il missile arriva perché sia visto in televisione; le armi sono segni di distruzione (oltre che produrre distruzione concreta). Una sorta di minaccia e di dissuasione in tempo reale. Armi di inganno di massa, certo, ma, ci permettiamo di aggiungere, anche armi-segno di narrazione di massa.

Perché una guerra, oggi, la vince chi - come sostenevano gli inventori dei concetti di “cyberwar” e di “infowar”, Ronsfeld e Arquilla - la sa raccontare bene.
E i morti? E le case distrutte? E i villaggi incendiati? Le imboscate? E i corpi fatti a pezzi? E la famosa “realtà”? La realtà è sempre una testimonianza: nostra se siamo sul posto, più spesso di altri. La Testimonianza è fatta di sequenze di fatti raccontati, messi in narrazione. Volenti o nolenti, da che mondo è mondo, il narrare è la messa in forma della realtà.

Oggi - e forse non solo oggi, come giustamente sottolineano Rampton e Stauber, ricordando il famoso stratagemma di Alessandro, consistente nel disseminare il terreno di gigantesche corazze per far credere che a combattere fossero dei giganti - i militari se ne sono accorti. La novità forse, ai nostri giorni, sta nella permanenza di questa guerra; nel suo statuto autoreferenziale e autoproduttivo: nella guerra che alimenta sempre altra guerra. Si tratta sempre di un episodio che, presentato, ancora una volta, come “la guerra che mette fine a tutte le guerre”, autoalimenta altre narrazioni belliche. Un altro racconto di guerra… continua…

Recensione

Perché la propaganda di Bush sulla guerra e' stata una vittoria della manipolazione
di Roberto J. Gonzales, San Francisco Chronicle, 27/07/03

Nei mesi scorsi, gli spettatori televisivi americani hanno assistito a una serie di immagini impressionanti che mostravano l'assoluta supremazia militare degli Stati Uniti. Tra queste, la distruzione della statua di Saddam Hussein in piazza al-Firdos, l'emozionante "salvataggio" di Jessica Lynch, le riprese panoramiche dei bombardamenti su Baghdad e l'atterraggio di George W. Bush su una portaerei.

Se queste immagini sono state piu' insistenti e convincenti rispetto a quelle delle passate guerre c'e' una ragione: viviamo in una cultura della manipolazione. Secondo Sheldon Rampton e John Stauber, autori di "Vendere la guerra" ("Weapons of Mass Deception"), l'Amministrazione Bush si e' impegnata in un'operazione straordinariamente aggressiva per creare il consenso pubblico alla guerra in Iraq, usando propaganda, disinformazione, distorsione delle notizie e vere e proprie bugie.

Gli autori illustrano brillantemente la rete di interconnessioni tra alcune delle maggiori agenzie di pubbliche relazioni nazionali, il Pentagono, il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca. Rampton e Stauber sono ben qualificati per analizzare le campagne diffuse dall'Amministrazione Bush: sono esponenti del Center for Media and Democracy, un'organizzazione di monitoraggio del settore delle relazioni pubbliche.

Gli oppositori dell'Amministrazione Bush hanno spesso criticato l'uso della propaganda di guerra ma questo e' il primo libro che documenta un'ampia casistica sull'argomento. e' scorrevole, appassionante e completo di una meticolosa documentazione, che suscitera' certamente l'indignazione di molti lettori.

Il libro illustra gli obiettivi del Progetto per il Nuovo Secolo Americano (fondato nel 1997 da William Kristol, Paul Wolfowitz, Dick Cheney e altri sostenitori della nuova Guerra del Golfo), dell'Ufficio per la Comunicazione Globale della Casa Bianca (istituito dopo l'11 settembre 2001, per creare un consenso internazionale verso il rovesciamento di Hussein), del Comitato per la Liberazione dell'Iraq (creato nel 2002 per guadagnare il consenso pubblico alla guerra) e di gruppi di studiosi neoconservatori sostenitori dell'invasione dell'Iraq (l'American Enterprise Institute, il Center for Strategic and International Studies e il Middle East Forum).

Molti esponenti dell'Amministrazione Bush hanno tenuto il piede in due staffe, barcamenandosi tra il Governo e il settore delle relazioni pubbliche. Ad esempio, Charlotte Beers, un'ex dirigente in due delle maggiori agenzie pubblicitarie del mondo, e' stata nominata sottosegretario di Stato per la diplomazia pubblica subito dopo la guerra in Afghanistan, per condurre una campagna televisiva volta a migliorare l'immagine dell'America agli occhi dei musulmani nel mondo, rivelatasi un fallimento. La portavoce del Pentagono, Victoria Clarke, aveva diretto la sede di Washington della principale agenzia di relazioni pubbliche del mondo, la Hill & Knowlton, che aveva realizzato la campagna pubblicitaria multimilionaria "Free Kuwait" nei preparativi per la prima Guerra del Golfo. Una schiera di consulenti di relazioni pubbliche stanno firmando contratti con il Pentagono e la CIA sulle questioni attorno all'Iraq, compreso John Rendon (direttore del Rendon Group), che si autodefinisce un "guerriero dell'informazione" e un "manager della percezione".

Infine, abbiamo il Capo di Gabinetto alla Casa Bianca, Andrew Card (ex vice presidente della General Motors), il quale ha spiegato lo scorso settembre al New York Times che le azioni militari contro l'Iraq sarebbero state rimandate di qualche mese perché "da un punto di vista commerciale, non si lancia un nuovo prodotto in agosto".

Il libro riserva molte sorprese anche a coloro che seguono il giornalismo investigativo. Ad esempio, il Congresso Nazionale Iracheno, un gruppo spesso presentato dai media come un'alleanza di dissidenti in esilio, e' in realta' una creazione del Rendon Group, che ha versato 12 milioni di dollari dell'operazione della CIA per finanziare l'organizzazione tra il 1992 e 1996.
Sorprendente anche il caso della Benador Associates, "una potente compagnia di comunicazione che ha agito da agente" per alcuni "esperti" sul Medio Oriente connessi ai gruppi neoconservatori. L'agenzia assicura ai clienti le interviste sui notiziari televisivi, pianifica le loro apparizioni ai talk show e pubblica i loro editoriali sui maggiori quotidiani. I clienti della Benador hanno ricevuto un'attenzione straordinaria nei mesi precedenti alla guerra. Rampton e Stauber osservano che si e' trattato di un'attenzione "schiacciante in confronto a quella rivolta dai media e dai politici ai 1.400 professori universitari specializzati in studi mediorientali nelle universita' americane".

Oltre a smontare le leggende sulla guerra, il libro indica come e perché cosi' tanti americani hanno creduto (e continuano a credere) nella propaganda dell'Amministrazione Bush. Le moderne armi di inganno di massa funzionano perché fanno affidamento su tecniche gia' sperimentate: la paura causata dal dopo 11 settembre, gli allarmi sul terrorismo e le deportazioni di massa; una coalizione di media che ripetono all'infinito le dichiarazioni ufficiali del Governo con scarsa analisi critica; l'uso di un linguaggio che nasconde o inverte i significati (ad esempio, "cambio di regime", "liberazione", "coalizione del Bene" e "asse del male"); e la sostituzione nella sfera pubblica degli intellettuali indipendenti con "esperti" autoproclamati provenienti da gruppi fastosamente finanziati.

Il libro si chiude con il capitolo "Visti dagli altri", in cui viene analizzato l'atterraggio "Top Gun" di Bush sulla portaerei Abraham Lincoln - uno spettacolo descritto dal critico televisivo del Washington Post come uno "show patriottico, con la nave e l'equipaggio come elementi scenografici essenziali". Si stima che l'esibizione sia costata ai contribuenti 1 milione di dollari. Gli autori ritengono che dovremmo tutti interessarci a questa propaganda, poiché, sebbene stia attualmente aumentando il sentimento patriottico negli Stati Uniti, gran parte del resto del mondo ne ha una visione differente. Visti da oltreoceano, simili spettacoli mostrano un impero belligerante che gonfia minacciosamente i muscoli. e' difficile pensare a un modo migliore per diffondere ansia e ostilita' all'estero.

Questo libro dovrebbe servire anche come strumento di dissuasione culturale e come guida per controbattere a coloro che hanno accettato le giustificazioni per la guerra incondizionatamente. Possiamo solo sperare che ne verra' presto realizzato un documentario televisivo o un lungometraggio. In questo momento - mentre 150.000 soldati americani stanno occupando un Iraq ancora insidioso, senza che alcuna arma di distruzione di massa sia stata scoperta e con l'impressione crescente che gli esponenti dell'Amministrazione Bush abbiano fabbricato le giustificazioni per vendere la guerra al pubblico americano - il messaggio di questo libro non arriva soltanto al momento opportuno ma e' anche, urgentemente, necessario.

 


       



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