15 Settembre, 2002
Leonida Bissolati, biografia
Cremona, 20 febbraio 1857 – Roma, 6 marzo 1920
Leonida Bissolati
Biografia
Leonida Bissolati (Cremona, 20 febbraio 1857
– Roma, 6 marzo 1920), fu uno dei più importanti esponenti del
movimento socialista italiano a cavallo tra
il XIX e il XX secolo. Figlio naturale sino
a 18 anni (con il nome di Leonida Bergamaschi)
e poi figlio adottivo di Stefano Bissolati
(nato nel 1823 a Rivarolo Fuori oggi Rivarolo
Mantovano (MN)) che si fece prete in giovane
età rinunciando alla veste talare a 37 anni
e successivamente direttore della biblioteca
comunale di Cremona.
Si laureò in legge a 20 anni a Bologna, aderì
ai movimenti socialisti e fu consigliere
comunale a Cremona inizialmente nelle file
dei radicali per poi avvicinarsi al movimento
socialista. Fu eletto per 18 anni, a partire
dal 1880 con incarichi all'assessorato all'istruzione.
Nella sua città natale esercitò la professione
di avvocato pubblicando numerosi articoli
su riviste e quotidiani.
Tra il 1889 e il 1895 organizzò le agitazioni
contadine e le lotte sociali per una migliore
condizione di vita nelle campagne. Nel 1889
fondò «L'eco del popolo», che successivamente
divenne l'organo locale del Partito Socialista
Italiano e pubblicò una parziale traduzine
del Manifesto di Marx e Engels. Nel 1896
divenne direttore de "L'Avanti!",
organo ufficiale del Partito Socialista Italiano,
lo lascia nel 1903 per poi riprenderlo tra
il 1908 e il 1910.
Nel 1897 fu eletto al parlamento italiano
come deputato nel collegio di Cremona. La
sua mancata opposizione alla Guerra di Libia
provocò le sue dimissioni da parlamentare
socialista nel febbraio del 1912 e cinque
mesi più tardi fu espulso dal Partito Socialista
Italiano. Bissolati non rinunciò tuttavia
all'attività politica, concorrendo alla fondazione
del Partito Socialista Riformista Italiano
e diventando ministro nel 1916. Alla fine
della grande guerra, avallò la delimitazione
delle frontiere, in accordo coi principi
della Società delle Nazioni ma i contrasti
che ne derivarono lo spinsero a ritirarsi
dalla scena politica alla fine del 1918.
Sposò Ginevra Caggi, morta di tisi nel 1894.
Morì a Roma nel 1920 per un'infezione post
operatoria.
fonte: wikipedia
-------------------------------------
Dicono di lui
--------------------------------------------------------------
Articolo per la pagina culturale de “L’Avanti”
Di Leonida Bissolati, antico direttore di
questo giornale, anche gli avversari, non
possono che parlarne bene dal punto di vista
della onestà intellettuale e della generosità
nell’impegno politico. Negli ultimi anni
della sua vita ebbe ad affrontare la drammatica
esperienza della Prima Guerra Mondiale:...(continua)
Bissolati era piuttosto neutralista perché
non credeva nelle virtù palingenetiche della
guerra come facevano gli interventisti rivoluzionari
(Mussolini, Marinetti, Corridoni ecc.) né
pensava che la Dalmazia dovesse essere annessa
all’Italia come ritenevano gli irredentisti
più radicali (i repubblicani, i nazionalisti
ecc.).
Tra i suoi fans social-democratici a Cremona,
sua città d’origine, aveva un giovane ferroviere
di origine abruzzese assai dinamico ed energico
che diventò in quei giorni con la lettura
del “Popolo d’Italia” un’ardente interventista:
si trattava di Roberto Farinacci.
Allo scoppio della guerra Bissolati partì
volontario perché non si credesse che il
suo neutralismo gli impedisse di compiere
il suo dovere di patriota, fu sergente nel
IV alpini e meritò due medaglie d’argento.
Si noti che aveva già 57 anni perché era
nato nel 1857. Entrò poi a far parte del
ministero di unità nazionale Boselli quindi,
dopo Caporetto, fece parte del ministero
Orlando da cui si dimise al principio del
’19, proprio perché non era d’accordo sulle
rivendicazioni italiane in Dalmazia. Roberto
Farinacci invece rimase a Cremona perché
dipendente militarizzato delle ferrovie.
Nella primavera del ’19 si tentò di organizzare
intorno a Bissolati un movimento di combattenti
e reduci democratici posizionato sul centro-sinistra
e che potesse dare appoggio e copertura reducistico-patriottica
ad un eventuale governo Giolitti. A questo
proposito fu organizzato un grande comizio
di Bissolati alla Scala di Milano ma Mussolini
e Marinetti, gelosi della personalità bissolatiana,
disturbarono personalmente la manifestazione
e gli arditi saltando da un palco all’altro
provocarono risse e pugilati al punto che
Bissolati non potè finire il suo comizio.
Ciò non impedì che per iniziativa dell’ancora
entusiasta Farinacci Bissolati venisse candidato
a Cremona nel “Blocco delle forze patriottiche”
dove fu eletto anche con l’aiuto delle squadre
d’azione di Farinacci. Il deputato riformista
era però molto imbarazzato dalla invadenza
del suo giovane fan che non mancava occasione
di metterglisi a fianco rivestito nelle pittoresche
divise del primo fascismo. Il futuro ras
di Cremona continuò fastidiosamente a visitare
anche a Roma il povero Bissolati che nel
frattempo si era ammalato e che doveva di
lì a poco nel 1920 morire.
Farinacci rimase ammiratore di Bissolati
anche dopo l’affermazione del partito fascista
al punto che portò Mussolini ad inaugurare
il 29 ottobre del 1924 una lapide in onore
del deputato riformista a Pescarolo. La moglie
di Bissolati non partecipò alla cerimonia
e cercò in tutti i modi di protestare.
Bibl.: R. Farinacci “Storia della rivoluzione
fascista” 1937; U. Alfassio Grimaldi e G.
Bozzetti “Farinacci il più fascista” 1971;
G. Cremonesi “Voci e moniti della vecchia
Italia” 1946.
Giacomo Properzj
fonte: www_nuvolarossa.org
-----------------------------------------------------------------
LA POLITICA ESTERA DI BISSOLATI
La preoccupazione centrale di tutti gli scritti
e discorsi di Leonida Bissolati su La politica
estera dell'Italia dal 1897 al 1920, è quella
dei rapporti italo-austriaci di fronte al
problema balcanico.
Fino dalle prime manifestazioni del 1897,
in occasione della rivolta di Creta e della
guerra greco-turca, Bissolati afferma che
l'Italia "ha tutto da guadagnare, nulla
da perdere, nello sviluppo delle nazionalità
balcaniche e nello smembramento dell'Impero
ottomano"; che l'Italia deve aspirare
in Oriente non alla "occupazione di
qualche lembo di territorio", ma al
"ripristino della sua potenza commerciale
sopra le rive dell'Asia Minore, della penisola
balcanica, del Mar Nero"; che per realizzare
questa politica, deve sciogliersi arditamente
dai nodi della Triplice Alleanza.
Questo iniziale nucleo di idee, ereditato
dalla tradizione democratica, si chiarisce
durante il decennio successivo; si arricchisce
di nuovi elementi più concreti; appare definitivamente
elaborato nel gennaio del 1906, in occasione
della vertenza franco-germanica per il Marocco.
Sembrava imminente una guerra generale. Da
un lato, la Francia, l'Inghilterra, la Russia;
dall'altro, la Germania e l'Austria-Ungheria.
La diplomazia italiana, impegnata dalle intese
conchiuse nel 1902 con la Francia e con l'Inghilterra,
rifiutava di lasciarsi trascinare dagli alleati
in una guerra, in cui si sarebbe trovata
contro non solo la Francia, ma anche l'Inghilterra,
per affari estranei al trattato della Triplice.
Se scoppiava la guerra, la Triplice cadeva
nel nulla e la Germania non aveva più motivo
di frenare l'Austria in eventuali tentativi
contro gli Stati balcanici e contro l'Italia.
Come premunirsi contro siffatta minaccia.
Stringersi risolutamente alla Francia e all'Inghilterra
- risponde Bissolati. Ma non abbandonarsi
alla cieca: "l'amicizia coll'Inghilterra
e la Francia sta bene; ma badiamo di non
scuoscuotere d'una soggezione per cominciarne
un'altra". E delinea il programma di
un accordo fra l'Italia e gli Stati Balcanici,
non solamente per resistere alle ambizioni
austro-germaniche, ma anche per agire di
fronte alla Duplice franco-russa come sistema
autonomo, da pari a pari, non come vassalli
impotenti ed importuni, paralizzati dalle
reciproche diffidenze, imploranti protezione
gli uni contro gli altri e tutti contro il
nemico comune. "Quest'invito ad una
stretta colleganza del nostro mese con gli
Stati balcanici, erompente dalla situazione
più ancora che dal proposito degli uomini,
deve essere accolto dall'Italia, se essa
vuole posare il piè fermo sul terreno, dove
irresistibilmente è attirata dalla sua nuova
politica estera".
La guerra per questa volta fu evitata. E
nella soddisfazione generale per lo scampato
pericolo, anche la politica dei buoni rapporti
italo-austriaci sembrò trionfare. Bissolati
salutò con gioia le nuove speranze di pace.
Ogni giorno, che la pace conquistava sulla
guerra, dava tempo al movimento delle nazionalità
slave per rafforzarsi nell'interno dell'Impero
austriaco, limitandovi il predominio degli
elementi tedesco-magiari; dava tempo agli
Stati balcanici, sul confine meridionale
dell'Impero, per consolidarsi; rendeva più
pericoloso e temerario lo scatto aggressivo
dell'Austria verso la penisola balcanica.
"Gli Stati balcanici - dice Bissolati
alla Camera nel dicembre del 1906 - hanno
assunto una forza ed una autonomia, per cui
le velleità espansionistiche austriache trovano
in essi un'opposizione immediata; sono tramontati
ormai i tempi, in cui l'Austria aveva in
e Milano il suo servitore nella Serbia. Oggi
la potenza degli Stati balcanici è tale che
diplomaticamente, economicamente e militarmente,
non è affatto una quantità trascurabile:
il che io credo debba essere ricordato sempre
dai diplomatici, che reggono le sorti del
Ministero degli Esteri italiano".
Quest'idea diventa sempre più netta, in tutte
le vicissitudini della politica internazionale
fra il 1906 ed il 1914. È oramai la direttiva
costante della politica bissolatiana. E quando
nell'estate del 1914 scoppia la guerra, Bissolati
non deve fare nessun sforzo per adattare
il proprio pensiero alla nuova realtà.
Sente subito che la guerra fra il blocco
austro-germanico e la Triplice Intesa è anche
guerra fra l'Austria, che intende sottoporre
al proprio controllo la penisola balcanica,
e l'Italia che deve difendere la propria
indipendenza dal pericolo di essere schiacciata
verso Oriente da un vicino così formidabilmente
rafforzato. Sente che la guerra, tenacemente
deprecata per tanti anni è divenuta inevitabile
per iniziativa altrui, sarà guerra di vita
o di morte per l'Italia e per l'Austria:
o si sfascia l'Austria, o si dissolve l'Italia.
E predica l'alleanza fra l'Italia e gli Slavi
dell'Austria e l'accordo diretto fra l'Italia
e la Serbia per un compromesso su le terre
miste dell'Adriatico. Questa politica accelererà
lo sfacelo interno della Monarchia austriaca
e faciliterà la vittoria. Inoltre prepara
all'Italia una magnifica posizione di sicurezza
e di larghissime possibilità di espansione
economica nel dopoguerra. L'Italia non deve,
per discutibili ragioni strategiche, incatenarsi
a nuove non necessarie querele. Non deve
distrarsi, per miraggio d'occupazioni territoriali
nella penisola balcanica, da quello che è
il suo problema vitale nel periodo storico
presente: garantire libero lavoro ai suoi
emigranti e libera circolazione alle sue
merci in tutto il bacino del Mediterraneo.
Queste idee non hanno avuto fortuna. Lo stesso
trattato di Rapallo, in cui esse si sono
realizzate, e più tardi gli accordi di Roma
sono venuti dopo che si erano perduti sei
anni in lotte avvelenatrici degli animi;
sono stati accettati dai più, in Italia e
in Jugoslavia, come un armistizio malaugurato
in un'ora di sconfitta e di stanchezza, non
nello spirito, con cui Bissolati lo aveva
proposto: cioè come primo passo e condizione
necessaria ad un'intima collaborazione generale.
Leonida Bissolati era troppo fuori delle
realtà per i nostri politici "realisti".
Essi sí che hanno sempre visto chiaro! Prima
della guerra dimostravano come quattro e
quattro fanno otto, che ad una guerra fra
Germania ed Inghilterra non si poteva"seriamente"
pensare. Di intese con gli Stati balcanici
non si dettero mai cura; ci aveva pensato
ai suoi tempi Cavour, quando gli Stati balcanici
erano assai più deboli; poi la tradizione
si era perduta. Per l'ora della crisi, i
nostri realisti aspettavano dal Governo austriaco
un'amichevole "rettifica di frontiere",
dopo la quale l'Italia avrebbe marciato a
fianco degli Imperi centrali contro la Duplice
franco-russa, rimanendo l'Inghilterra neutrale.
Quando la guerra scoppiò, e l'Austria, di
rettificar sul serio le frontiere non volle
sentir parlare, e l'Inghilterra entrò in
campo, allora i nostri realisti si volsero
contro l'Austria. Ma con quel profondo senso
delle realtà, di cui erano così orgogliosi
e che li rendeva così pieni di commiserazione
per le illusioni di Bissolati, si immaginarono
di poter finire la guerra in pochi mesi,
con un solo miliardo di lire preso a prestito
in Inghilterra. E continuarono a sperare
che la Casa d'Austria avrebbe ceduto per
forza più di quanto non aveva voluto concedere
per amore, dopo di che le nemiche di un giorno
sarebbero ritornate le amiche di sempre.
Niente, dunque, compromesso italo-slavo,
ma compromesso italo-austriaco. Niente "politica
delle nazionalità", ma lotta a coltello
contro la unificazione diretta, preponendovi
un Provveditore e un collegio arbitrale.
Essa era un trait - d'union tra il sud-oriente
ed il nord-occidente, slava.
Così i nostri realisti erano portati ad urtarsi
contro la politica della Francia e dell'Inghilterra,
via via che l'andamento diplomatico e militare
della guerra conduceva gli alleati verso
il programma dello smembramento dell'Austria
e quello dell'unificazione jugoslava. Entrando
in guerra, avevano condannato a morte l'Austria;
ma facendo la guerra agli slavi anzi che
all'Austria, offrivano all'Austria il terreno
per mobilitare contro l'Italia gli slavi
e prolungare la guerra molto al di là del...
miliardo. Finalmente l'intervento dell'America
dette il tratto alla bilancia. E si arrivò
al Congresso della pace. Nel quale la lotta
diplomatica, rimasta latente durante la guerra,
diventò aperta ad un tratto: Francia, Inghilterra,
Stati Uniti, a favore degli slavi; e l'Italia,
barricata nell'"Hotel Edouard VII",
isolata dal mondo, a dir di no, mentre tutto
il mondo diceva di si.
E quando le difficoltà sfondavano gli occhi,
la responsabilità non si dava a chi aveva
condotto il paese in quel ginepraio, ma a
chi aveva visto in tempo il pericolo e aveva
inutilmente insistito perché fosse evitato.
G. SALVEMINI.
---------------------------------------
Guerra Italo-Turca
Il Primo Ministro Giovanni Giolitti, fautore
della politica coloniale italiana
Periodo: 1911 - 1912
Luogo: Libia, Mar Egeo
Esito: vittoria italiana; annessione della
Libia e del Dodecaneso
Schieramenti
Regno d'Italia Impero ottomano
Comandanti principali
Carlo Caneva Ismail Enver
Forze in campo
100.000 uomini 25.000 uomini
Perdite
6.000 tra morti e feriti 14.000 tra morti
e feriti
La Guerra Italo-Turca o Guerra di Libia,
si riferisce ai combattimenti tra le forze
del Regno d'Italia e dell'Impero ottomano
tra il 28 settembre 1911 e il 18 ottobre
1912, per la conquista della Tripolitania
e la Cirenaica.
Le ambizioni imperialiste dell'Italia spinsero
il Paese ad impadronirsi delle province ottomane
di Tripolitania e Cirenaica, oggigiorno con
il Fezz?n note con il nome di Libia, nonché
dell'isola di Rodi e dell'arcipelago del
Dodecanneso, di lingua greca, situato nei
pressi dell'Anatolia.
Nel corso di questa guerra, l'Impero ottomano
si trovò gravemente svantaggiato poiché,
nonostante possedesse una flotta moderna,
anche se non numerosa, il suo esercito e
la sua aviazione non possedevano ancora armamenti
moderni e Istanbul non fu pertanto in grado
di inviare rinforzi alle province d'oltremare
invase.
Sebbene di minore entità, la guerra costituì
un passo cruciale verso la Prima guerra mondiale,
poiché risvegliò un feroce nazionalismo negli
stati balcanici: vedendo la facilità con
cui gli Italiani avevano sconfitto i disorganizzati
Turchi ottomani, i membri della Lega balcanica
attaccarono l'Impero ottomano prima che la
guerra con l'Italia fosse finita.
Fra le azioni degne di nota avvenute nel
corso della guerra spicca il forzamento dello
stretto dei Dardanelli, avvenuto nella notte
fra il 18 e il 19 luglio 1912 da parte della
3° squadriglia torpediniere (Spica, Centauro,
Perseo, Astore, Climene) agli ordini del
Capitano di Vascello Enrico Millo, che si
spinsero fino agli sbarramenti di Istanbul
e rientrarono senza perdite sotto il fuoco
delle difese turche.
La guerra italo-turca fu teatro di numerosi
progressi tecnologici usati durante le operazioni
militari, in particolare l'aeroplano. Il
23 ottobre 1911, un pilota italiano (cap.
Carlo Maria Piazza) sorvolò le linee turche
in missione di ricognizione, e il 1 novembre
la prima bomba (grande come un'arancia) sganciata
dall'aria cadde sulle truppe turche in Libia.
La guerra terminò dopo la presa di Tripoli
da parte dell'esercito italiano, e il 18
ottobre 1912 fu firmato il Trattato di Ouchy
che cedeva all'Italia le province per il
cui controllo essa aveva dato inizio alla
guerra. Sebbene le perdite ottomane fossero
rilevanti, la Prima guerra balcanica che
venne subito dopo distrusse completamente
il potere dell'Impero ottomano in Europa,
assicurando l'indipendenza alle popolazioni
locali (alcune dopo quasi settecento anni),
anche se per le province arabe si avviò il
lungo e discutibile periodo dei Mandati affidati
alla puramente nominale responsabilità della
Società delle Nazioni ma, di fatto, spartite
fra Gran Bretagna e Francia.
----------------------------------------
* materiale organizzato da Gian Carlo Storti
il 25 febbraio 2006
 
|