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15 Settembre, 2002
Eppur bisogna andar. Testimoni della Resistenza
Il libro di Piera Egidi Bouchard, Claudiana ed.

Piera Egidi Bouchard (giornalista)
Eppur bisogna andar. Testimoni della Resistenza

Libertà e giustizia, Claudiana
pp. 249 più 8 di illustrazioni f.t., Euro 13.50, 2005
Prefazione di Nicola Tranfaglia.
Con uno scritto di Giorgio Vaccarino

 

Una ventina di ritratti - tra storia orale, giornalismo e letteratura - di grandi protagonisti della lotta di liberazione. Percorsi di vita a partire dalle contraddizioni, le difficoltà e le ragioni delle scelte di uomini e donne che, formati sotto il regime totalitario fascista, presero coscienza della necessità della Libertà.

Bianca Guidetti Serra, Giorgina Arian Levi, Cesare Alvazzi, Marisa Diena, Giulietto Giordano, Giuliana Segre, Giorgio Girardet...
Evangelici, cattolici, ebrei e laici nelle Valli valdesi, in Liguria, a Torino, Ivrea, Firenze, Roma...

Estratto

PREFAZIONE

NON PORTAVA IL CAPPOTTO
di MARIO MIEGGE

 

In una mattina invernale molto limpida (come talora accade persino nella pianura padana) camminavo con Ferdinando Visco Gilardi nella periferia di Cinisello Balsamo, poco trafficata nelle ore in cui tutti sono al lavoro. Nando era uscito di casa senza giaccone o cappotto e gli chiesi se non avesse freddo. Sorrise e disse che, nei mesi della reclusione nel lager di Bolzano (dal dicembre 1944 al 30 aprile 1945), era diventato del tutto insensibile alle variazioni di temperatura. Aggiunse che quel mutamento fisico e mentale aveva avuto inizio al momento della tortura. Nel corso di un interrogatorio spietato, condotto per mezzo di elettrodi, la soglia estrema del dolore si era improvvisamente ribaltata nella percezione tranquilla di un centro luminoso, che non si spegneva 1. Tornato vivo nella sua cella, l’illuminato non aveva più patito né caldo né freddo: «e così è stato fino a ora».

Era la prima volta che incontravo Visco Gilardi e mi duole di non aver avuto in seguito altre lunghe conversazioni con lui, come quella mattina. Non ricordo con precisione l’anno e la data (1968 o 1969). Erano comunque i primi tempi della «Comune» di Cinisello 2 , di cui ero ospite, affascinato dalla novità, intensità e ricchezza di un esperimento di vita associata e di lavoro collegiale, solidamente «puritano» nell’impianto e nella gestione quotidiana. La biografia qui tracciata da Giorgio Bouchard mette in evidenza 3 il ruolo che Nando Visco Gilardi ebbe nell’iniziativa e nella vicenda della Comune. Era un ruolo in larga misura «paterno»: non soltanto nell’intreccio delle relazioni e degli affetti personali ma altrettanto nella condivisione e discussione delle scelte, sul piano della «fede» come su quello della «politica».

Quel giorno a Cinisello ho appreso la sua storia personale e ho anche capito che essa si saldava pienamente con le nostre, senza alcuno iato tra le generazioni.

Come si spiega? Sicuramente in base al fatto che Visco Gilardi era nello stesso tempo un «fedele» evangelico e un «militante» di lunga esperienza nei raggruppamenti della sinistra italiana, ai quali un certo numero di noi aveva aderito, più tardi e per diverse vie. Quella compresenza di convinzioni religiose e di impegno politico appariva a molti (nei due versanti, abitualmente opposti, della tradizione cristiana da una parte e dell’ideologia ufficiale storico-materialista dall’altra) ambigua e insostenibile. Il racconto di Nando, la sua coscienza di sé, la sua lucidità riguardo all’epoca in cui stavamo vivendo e ai compiti che essa imponeva, tutto ciò dimostrava invece che quella doppia appartenenza non era soltanto possibile e legittima ma poteva anche essere feconda.

Per quanto concerne la generazione dei «figli», va detto che le scelte non erano strettamente individuali ma costituivano una avventura comune. Giorgio Bouchard era, nello stesso tempo, pastore della Comune di Cinisello e direttore di «Gioventù evangelica», la rivista che dava voce alle posizioni e alle riflessioni critiche di un gruppo fraterno, che da molti veniva considerato (a ragione o a torto) una «setta».

Per molti di noi la fraternitas si era formata nel cantiere e poi nei campi di studio di Agàpe, negli anni Cinquanta. Eravamo dunque «figli» principalmente di Tullio Vinay. La nostra formazione politica, alquanto più lenta, fu sollecitata in particolare da Sandro Sarti (partigiano in Val Chisone a 17 anni, poi militante nonviolento e membro del gruppo residente di Agàpe) e da nuovi incontri, avvenuti sovente in quella stessa sede montana.

Il campo invernale che si svolse ad Agàpe all’inizio dell’anno elettorale 1958 ebbe come tema per l’appunto «Il paese di fronte alle elezioni». Vi parteciparono tra gli altri, quali rappresentanti della sinistra italiana, Tristano Codignola e Lelio Basso. La figura del primo corrispondeva perfettamente all’orientamento politico di molti valdesi (più anziani o più giovani) che, a partire dagli anni della Resistenza, avevano seguito Giustizia e Libertà e poi le derivazioni del Partito d’Azione (in particolare nella «Unità Popolare» di Parri e Codignola, poi confluita nel PSI) e avevano invece non

poche riserve nei confronti del compatto e scarsamente liberale PCI (al quale, per parte sua,Visco Gilardi era stato iscritto fino agli eventi di Ungheria nel 1956).

Fu però altrettanto significativa la partecipazione dell’altro esponente del PSI. Lelio Basso aveva una diversa storia politica e intellettuale, nutrita dal marxismo non conformista di Rosa Luxemburg.

Leggendo le testimonianze raccolte in questo volume ho appreso che per l’appunto gli scritti della Luxemburg occupano, per frequenza, il secondo posto nell’antologia personale progettata da Visco Gilardi 4. Ma ho anche scoperto la presenza personale di Lelio Basso nell’iniziativa resistenziale di Nando, nel 1944. Né quel fatto né la venuta di Basso ad Agàpe erano casuali o estemporanei. In gioventù, infatti, Lelio Basso aveva collaborato alla rivista “Conscientia”, diretta dal filosofo calvinista e battista Giuseppe Gangale, e alle attività della ACDG milanese, di cui Visco Gilardi era promotore.

Basso era anche amico dei giovani valdesi (in particolare dei fratelli Guido e Mario Alberto Rollier) che negli anni ’30 e ’40 collaborarono all’impresa di «Gioventù cristiana». Soppressa dal regime nel 1940, la rivista della nuova teologia protestante fu prontamente rimpiazzata dal semiclandestino “L’Appello”, a cui Basso diede la sua collaborazione5. Ad Agàpe Lelio Basso ritornò tre anni dopo, all’inizio del 1961, in un campo invernale altrettanto intenso, dedicato al confronto tra cristianesimo e marxismo. Tra i relatori vi erano anche il comunista Isacco Nahoum, che era stato commissario politico delle Brigate Garibaldi, e Raniero Panzieri. Dirigente di primo rango del PSI in Sicilia all’inizio degli anni ’50, Panzieri fu condirettore della rivista ufficiale del partito, “Mondo operaio”, negli anni cruciali che seguirono il XX Congresso del PCUS. Vi pubblicò nel 1958 (in collaborazione con Lucio Libertini) le Sette tesi sulla questione del controllo operaio, uno dei testi più importanti della sinistra italiana nel secondo dopoguerra. Lasciati gli incarichi romani per divergenze politiche, Panzieri si trasferì a Torino e prese la guida di un gruppo di giovani (in maggioranza socialisti) che avevano iniziato un lavoro di inchiesta nelle fabbriche, in collaborazione con i sindacati

operai della CGIL. Alcuni di questi torinesi (in particolare Giovanni Mottura e Vittorio Rieser) si impegnarono stabilmente nelle attività di Agàpe. L’esperienza dei “Quaderni rossi”, fondati e diretti da Panzieri fino alla sua morte precoce (1964), ha avuto notevole influenza sulla suddetta «setta» protestante, che ebbe più tardi la fortuna di incontrare sulla propria via il «padre» Visco Gilardi: per pochi anni, purtroppo, poiché egli se ne andò nella primavera

del 1970.

Per una coincidenza fortuita ma (dal mio punto di vista) utile e stimolante, questo libro viene pubblicato a pochi mesi di distanza dalla raccolta di testimonianze su Panzieri6. La solidarietà tra «padri» e «figli» è favorita non soltanto dalle affinità e da comuni impegni ma anche dal riconoscimento delle differenze, grazie alle quali ognuno è se stesso e non è identico agli altri.

Ferdinando Visco Gilardi era un poco più giovane di Giovanni Miegge e un poco più anziano di mia madre. I percorsi e gli atteggiamenti intellettuali di quella generazione differivano notevolmente dai nostri (mi riferisco a coloro che sono usciti dall’adolescenza dopo la Seconda guerra mondiale).

L’intelligenza di Visco Gilardi si traduceva in una professionalità ad ampio raggio: imprenditore librario, organizzatore culturale, dirigente industriale. Ma egli aveva anche una solida competenza riguardo allo scenario filosofico contemporaneo, a tal punto da ottenere la fiducia di alcuni dei suoi più eminenti attori italiani. Benedetto Croce e Giuseppe Rensi accettarono di collaborare all’impresa editoriale della «Gilardi e Noto»7. Questi brevi ed eleganti

libri (che ho avuto in dono molti anni dopo la pubblicazione) sono oggi altrettanto preziosi quanto le opere, pressoché coeve, della Doxa di Giuseppe Gangale.

Nella formazione di Visco Gilardi hanno avuto peso il soggiorno di studi in Germania e le lezioni di Rudolf Steiner. Qui si manifesta maggiormente la distanza culturale tra le generazioni. Ma va anche detto che gli scritti di Visco Gilardi non danno spazio agli elementi esoterici (e più contestabili) della costruzione steineriana8.

La riflessione personale di Visco Gilardi corrisponde al quadro filosofico di un idealismo non «assoluto», aperto al confronto con le «fedi» e la loro elaborazione teologica. Il nome che mi viene in mente è quello di Piero Martinetti, le cui opere sono presenti pressoché per intero nella biblioteca di Visco Gilardi. A differenza della maggioranza dei filosofi del Novecento, Martinetti era ben informato riguardo allo sviluppo delle scienze bibliche, principalmente

nelle scuole liberal-protestanti e, inoltre, nutriva interesse non soltanto per la tradizione cristiana ma anche per le filosofie dell’India e dell’estremo oriente. Egli pubblicò Gesù Cristo e il cristianesimo (1934) proprio negli anni in cui fiorivano a Milano le iniziative delle ACDG e si concludeva l’esperienza di Doxa. La repressione suscitata da quel libro e il coraggio solitario del filosofo, che non si piegò, fanno parte della stessa storia di resistenza in cui si svolse

l’azione tenace di Ferdinando Visco Gilardi.

Il documento più importante di questa raccolta è il testamento spirituale che Nando scrisse nel carcere di Bolzano9. Del suo contenuto si parla con ampiezza e pertinenza nel profilo biografico e nell’introduzione ai testi. Mi limiterò dunque a un paio di annotazioni.

Quelle pagine devono essere lette senz’altro come una «confessione di fede», scritta nell’imminenza di una probabile esecuzione. Ma si tratta comunque di una fides quaerens intellectum, iscritta in un quadro più largo, di visione del mondo e di convinzioni morali, delineato con rigorosa chiarezza di concetti e parole.

Vedo qui una differenza rispetto agli atteggiamenti e alle forme di prestazione intellettuale della mia generazione. La differenza consiste nell’impegno fortemente personale di pensiero e di scrittura, che manifesta un’esigenza di responsabilità, certamente nei confronti degli altri (ai quali si scrive perché leggano e rammentino) ma anche, e in primo luogo, nei confronti di se stessi. Il fatto che il testo sia stato scritto in circostanze estreme non basta a spiegare tale carattere. Per scrivere a quel modo l’autore doveva già essere abituato alla concentrazione mentale e alla responsabilità intellettuale coram se ipsum. Quel «carattere» è personale o generazionale?

Sicuramente i due aspetti sono ben collegati, ma i tempi e la loro configurazione culturale hanno il proprio peso.

I «figli» che si erano formati nei cantieri fisici e mentali di Agàpe avevano un atteggiamento assai diverso. L’intensità e la permanenza delle relazioni di gruppo producevano diffidenza riguardo alle espressioni soggettive dello spirito. Il pensiero, sicuramente, non era assente, ma sorgeva nello scambio discorsivo e nelle pratiche di collegialità. Gli scritti, per lo più, erano firmati dai singoli ma facevano parte di progetti discussi e deliberati in comune.

Quella diffidenza è diventata ancor più cogente nella successiva leva del «Sessantotto». Negli anni che seguirono, il testo firmato da una sola persona era considerato, se non proprio un reato, per lo meno un indizio di deviazione dagli impegni collettivi del «lavoro politico» e della prassi sindacale, un cedimento all’egocentrismo accademico.

Le cose sono poi cambiate. Con notevole ritardo rispetto ai predecessori i singoli hanno ripreso a scrivere in prima persona. E ora, nella vecchiaia, si trovano ad affrontare le obbiezioni di una nuova generazione di militanti, inclini alla nonviolenza, preoccupati del destino della Terra e convinti che un altro mondo è ancora possibile.

Nel tardo autunno del 2001, nelle pause di una manifestazione pubblica contro la guerra, uno di quei giovani mi ha detto: «a differenza di voialtri, noi abbiamo una forte esigenza di spiritualità».

Quest’ultima parola non faceva parte del nostro vocabolario. Accade talvolta che i nipoti si sentano più vicini alle nonne e ai nonni che alle madri e ai padri. È un fatto normale. Ma anche molto rallegrante.

 

Note:

 

1 A questo proposito cfr. sotto, p. 41.

2 Il «Centro Culturale Jacopo Lombardini» porta il nome di un noto martire della Resistenza evangelica. È stato aperto a Cinisello Balsamo nell’autunno del 1968, da un gruppo di giovani evangelici di Milano. Consisteva in una «comune»

di una ventina di persone, una scuola serale gratuita per giovani immigrati e in una attività di dibattiti e di studi rivolta alla città. Il gruppo, largamente autofinanziato, ha potuto anche ospitare dei guerriglieri di Nelson Mandela e un gran numero di rifugiati cileni, usciti dalle carceri di Pinochet. Ha continuato la sua attività fino alla fine degli anni Novanta.

3 Vedi sotto, pp. 52-53.

4 Cfr. sotto, p. 95.

5 Vedi la commemorazione di Adriano Tilgher, a opera di Lelio Basso, in “L’Appello”, n. 11-12, nov.-dic. 1941.

6 AA.VV. (a cura di Paolo Ferrero), Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, Edizioni Punto Rosso, Roma, 2005.

7 Cfr. sotto, pp. 35-38 e 187-188.

8 A questo proposito si vedano le osservazioni di Giorgio Bouchard e AldoVisco Gilardi, pp. 95-97.

9 Cfr. sotto, Lettera dalla cella 28, pp. 103-119.

 


       CommentoFonte: Ecumenici



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