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 Lettere a Welfare

15 Settembre, 2002
Dibattito nei DS: due lettere ed un'intervista
Mussi a D'Alema, D'Alema a Mussi, Bassolino a tutti

Lettera aperta a Massimo D'Alema
di Fabio Mussi del 12 gennaio 2003

Caro Massimo, leggo su un quotidiano il resoconto di una tua conversazione con un giornalista, dopo l’assemblea di Firenze con Cofferati.
Non trovo giudizi sereni, né meditati. Sento il bisogno di affidare all’Unità questa lettera aperta.
Tu dici: «C’è bisogno di un federatore, non di un Gengis Khan...». Altri hanno contemporaneamente parlato di Mao e di Pol Pot. Vedo che si sprecano le metafore orientali, per Cofferati.
Tu dici: «I veri perdenti stavano in prima fila proprio al Palasport: sono i Folena e i Mussi, candidato a Milano, che hanno perso le elezioni mentre io facevo una durissima campagna elettorale e vincevo a Gallipoli».
Vedi, se volessi restare sul livello, potrei replicarti che a Milano e in Lombardia le elezioni sono andate parecchio meglio che in Puglia, dove tu hai abdicato al dovere di rappresentare i Ds nel proporzionale. Oppure che non eravamo né io né Folena nel ticket di testa della coalizione. O portarti i dati sulla esposizione televisiva e mediatica dei nostri maggiori esponenti.Oppure anche ricordarti che, quando uno durante una legislatura è stato segretario e presidente del maggior partito, Presidente della Bicamerale, Presidente del Consiglio, dev’essere il primo che si assume le responsabilità, e non le scarica su altri.
Ma così non si va da nessuna parte. La verità è che abbiamo perso tutti. E che a quelle elezioni politiche così importanti siamo arrivati con una crisi dell’Ulivo e della sinistra. E nostra, dei Ds e del suo gruppo dirigente: con il segretario Veltroni candidato sindaco di Roma (per Roma, va detto, è stato un guadagno secco) e tu a fare il solitario a Gallipoli.
Siamo stati noi per primi che abbiamo mandato il messaggio: la partita è persa, si salvi chi può. E sarebbe poco male, in fondo - in democrazia si vince, si perde -, se dall’altra parte non ci fosse stata questa destra e Silvio Berlusconi. Un’umiliazione per noi, un danno grave per il Paese.
Così è arrivato il 13 Maggio 2001. Ti ricordi Dante? «Quando si parte il gioco de la zara/colui che perde si riman dolente/ripetendo le volte, e tristo impara».Quando si è chiuso il gioco elettorale, quando i dadi si sono fermati, io (e altri) siamo restati dolenti, a «ripetere le volte», le gettate, per capire che cosa fosse successo. Prima di tutto contando. Abbiamo contato i voti.
Alla sinistra, dai Ds a Rifondazione, ne mancavano più di due milioni. Molti finiti nell'astensione: quanta gente avevamo deluso! E tuttavia Ulivo, Italia dei valori e Rifondazione insieme ne avevano più che a sufficienza per vincere. Ma eravamo divisi, e avevamo rovinosamente perso.
Tu, caro Massimo, hai subito cercato i colpevoli. E sei restato poco a contare. Hai perciò immaginato, come causa, un «deficit di riformismo». Non è mai stato chiaro che cosa volesse dire. Forse che avremmo dovuto osare di più in materia di «welfare» e di mercato del lavoro, estendendo privatizzazioni e flessibilità. Io (e altri) abbiamo rivolto il pensiero in un’altra direzione.
La crisi del liberismo economico, la produzione di un mondo retto dal principio di disuguaglianza e dalla logica di guerra, ci spinge a riconsiderare molte delle nostra idee, e a rimettere al centro il lavoro, i diritti, la pace, la democrazia partecipata.
Così come l’inaridimento della vita dei partiti, compreso il nostro, ci spinge, come Anteo che perdeva forza sollevando i piedi da terra, a ritrovare energia nel contatto con la società.Quando abbiamo tenuto il Congresso di Pesaro (con nel cuore la fresca angoscia per il dramma delle Towers), l’opposizione parlamentare era con le ruote sgonfie e la società ferma. Intorno a noi, il deserto.
Anzi, c’era stata Genova: la destra aveva dato la prima prova di che pasta è fatta, quando governa, e noi avevamo già compiuto il primo errore grave. Guarda che cosa è successo poi! L’opposizione ha ritrovato anima, e c’è stato un buon risultato alle amministrative ultime.
Ma soprattutto, c’è stato uno straordinario risveglio dei cittadini. Movimenti che hanno coinvolto milioni di persone, non gruppetti e minoranze estremistiche. Con la Cgil, che ha ridato un fondamento alle idee, né massimaliste né conservatrici, del valore sociale del lavoro e dei diritti universalistici; con il Social Forum, che nelle notevolissime giornate di Firenze ha mostrato forse di non avere tutte le giuste risposte, ma - il giudizio, acuto, è di Adriano Sofri - «l’agenda giusta»; con i «girotondi», che hanno restituito voce ad un civismo repubblicano orientato alla democrazia e alla libertà.«Non bastano», hai ripetuto più volte.
D’accordo. Troppi «monaci neri», che inveiscono impotenti contro il nemico? No, qui non siamo più d’accordo. Politica che reclama politica, piuttosto. Energia buona. Che può far girare il motore del centrosinistra, dell’Ulivo e della sinistra, compresa la nostra. Che i partiti nascano e si rinnovino dai movimenti, lo sanno gli storici, e non dovremmo dimenticarlo noi. Che molte di quelle persone si sentano rappresentate, oggi, da Sergio Cofferati, è un fatto.
Non trovo intelligentissimo che si sventolino regolamenti gridando «vade retro».Non c’è nessuna regola aurea violata. C’è, in corso, un processo importante nel quale stare con animo lieve e sguardo lungimirante, con la fiducia nella possibilità di un autentico rinnovamento politico. E quell’uomo è importante.
Mi pare che l’obiettivo sia quello di far crescere un processo unitario largo per preparare, in Italia, un'alternativa vera, non di esercitarci nell’interminabile calcolo combinatorio sulle leadership. Per questo ero a Firenze, «in prima fila», come mi rimproveri, e anche sul palco a parlare.
Bisogna rimetterci in discussione. Tutti, Anche tu. Mi piacerebbe vederti ritrovare serenità e semplicità, doti che sarebbero preziose associate alle qualità politiche che tutti ti riconoscono. Ci sono carrette da tirare, come tu dici, e strada da fare.

Fabio Mussi

**********

‘Fassino faccia un passo avanti, ora c'è bisogno di una gestione unitaria’
Intervista ad Antonio Bassolino del 13 gennaio 2003

«È vero, siamo a un passaggio delicato. Ma non dobbiamo fare punto e a capo. Il problema è la prospettiva. Allora, è di un salto in avanti che abbiamo bisogno. Anzi, di un doppio salto, sia nel rapporto aperto con i movimenti sia nella gestione unitaria del partito. È complesso, niente affatto semplice, ma abbiamo la possibilità e la forza per compierlo».
Sarà che deve quotidianamente conciliare la sua formazione politica di sinistra con la responsabilità al governo della Regione Campania, fatto è che Antonio Bassolino fonda il suo ottimismo su quanto è cambiato e su quel che ancora destinato a cambiare: «È il momento di mettere in campo una grande sfida al centrodestra, sulle questioni sociali e politiche di un paese moderno. Certo, anche istituzionali».
Bassolino, è ottimismo della volontà o della ragione? Dove vede tutte queste potenzialità tra le tante polemiche, se non vere e proprie lacerazioni, che stanno tormentando il centrosinistra?
«Non ignoro le difficoltà, non rimuovo i problemi. Ma li metto in relazione alle tante cose che sono cambiate. Un anno fa il centrosinistra era ancora tramortito da una sconfitta elettorale molto pesante. Ma, a partire dalla grande battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, si è rimesso in movimento un impegno collettivo vitale per la sinistra...».
Non crede che proprio di lì sia partito quello che in tanti temono diventi un processo divaricante?
«Al contrario. Non era una battaglia a difesa di un residuo del passato, ma per diritti concepiti come sostanza di una vera modernità. Tanto è vero che non vi ha partecipato solo il mondo del lavoro dipendente, ma anche tante parte di quelli che Paul Ginsborg chiama ceti riflessivi. Insieme, c’è stata una maturazione di quel movimento chiamato no global che sta venendo caratterizzandosi sempre più come new global. E sono cambiate tante cose anche in Parlamento, con una opposizione di centrosinistra che ha saputo rialzare la testa, condurre battaglie, collegarsi con il paese. A sua volta, l’opposizione politicamente più forte ha sollecitato lo sviluppo delle azioni sociali. C’è stato, insomma, tutto un intreccio tra battaglie sociali, civili e politiche, e l’una spinta ha aiutato l’altra. Tant’è vero che un anno fa si discuteva assurdamente su quanti decenni sarebbe durato il governo di centrodestra. E ora stiamo a misurare le difficoltà del centrodestra, e le aree di tensione e di delusione di diversi ambienti sociali che pure erano stati fondamentali per il successo del centrodestra».
Come spiega, allora, questo continuo rincorrersi tra partiti e movimenti, anziché valorizzare una convergenza così significativa?
«Proprio perché la situazione si è riaperta. Il che significa cominciare a giocare la vera partita politica e sociale, dall’esito niente affatto scontato».
E sia. Da cosa, o da chi ripartire: dalla leadership che Nanni Moretti ha consegnato a Sergio Cofferati?
«A Cofferati va riconosciuto di essersi affermato sul campo come personalità politica in sintonia con tanta parte dei movimenti sociali. Questo è quel che conta. Noi abbiamo bisogno di tutte le energie migliori: di Cofferati, come di Piero Fassino, Giuliano Amato, di Massimo D’Alema, di Francesco Rutelli, per non parlare di altre che oggi sono impegnate in responsabilità al di sopra dei confini nazionali. Abbiamo bisogno vitale di tutte queste personalità. Si vedrà poi, qual è la leadership meglio capace di portare a sintesi questo patrimonio di risorse, disponibilità e intelligenze. Non è per domattina: una cosa alla volta. Quel che occorre oggi è un deciso passo in avanti. E, come tanti hanno riconosciuto, a cominciare da Piero Fassino, quel che Cofferati ha detto a Firenze consente di compierlo».
Fassino, che già aveva denunciato apertamente rischi di delegittimazione, ha detto che occorre passare dalle parole ai fatti. Giusto?
«Mi sembra che Cofferati se ne sia fatto carico, che abbia dimostrato di aver inteso. Il problema è di come tradurre tutto questo in un impegno, oltre che in un rapporto nuovo, ricco di reciproco riconoscimento e rispetto, tra le forze politiche e i movimenti. Perché non ce la faremmo solo con i partiti senza una società in movimento, come non ce la faremo solo con i movimenti e senza i partiti che ne interpretino le aspirazioni».
Appunto, come farcela?
«Sarebbe molto utile e importante impegnare Sergio Cofferati nello sforzo di elaborazione programmatica dell’Ulivo. Nel modo giusto, con intelligenza, e cioè individuando le forme che consentano di coinvolgere i movimenti che erano a Firenze, altre forze ancora che a Firenze non erano. Se gli chiedessimo di distaccarsi dal suo rapporto con i movimenti, Cofferati stesso non ci starebbe, e forse non interesserebbe più nessuno. Come va coinvolta un’altra personalità essenziale che già aveva posto la questione del programma: Giuliano Amato, Perché dobbiamo anche poter parlare a forze di altri settori della società italiana, soprattutto quelle deluse dal centrodestra che sono anch’esse essenziali per battere il centrodestra, vincere e tornare a governare come bisogna avere sempre in testa di fare».
Cosa deve essere: un programma di lotta e di governo?
«Battuta per battuta: deve essere una vera novità rispetto al 1996...».
Non si dovrebbe tornare allo spirito dell’Ulivo?
«Nessuno come me è sensibile a questo tema. Ma so anche che sono cambiate tante cose: i partiti hanno ripreso, nel bene e nel male, un ruolo; e nella società si è sviluppata una realtà molto più articolata e complessa. Riprendere lo spirito nel ’96 deve significare essere capaci di elaborare le ragioni di una sconfitta, come allora fu fatto rispetto al ’94, con un’operazione innovativa che guardi al 2003, il 2004, il 2005, all’Italia di oggi, per tanti aspetti diversa da quella del ’96, e a quella di domani, in continua trasformazione».
Parliamo allora del ruolo dei Ds nell’alleanza. E dei difficili rapporti interni con il correntone, di cui anche lei fa parte, che sembrano mettere addirittura in discussione l’unità invocata dalla base del partito. Come scongiurare il pericolo?
«Francamente, penso che un altro necessario passo in avanti sia andare a una gestione unitaria del partito. E ritengo che debba essere il segretario del partito, che sta facendo bene, a dover assumere una iniziativa in tal senso. Sarebbe giusta e meritoria».
E le differenze congressuali? Non si era detto che il passo in avanti era di discutere democraticamente su diverse opzioni politiche e assumere, conseguentemente, la responsabilità della gestione della linea vincente?
«Vedo anche nella situazione attuale un residuo della storia da cui veniamo. Parliamoci chiaro: dove sta scritto che bisogna essere uniti sempre per avere una gestione unitaria e si debba rimanere distinti nella gestione se si discute e ci si divide politicamente?».
Non è che, in quel passato, si doveva essere unitari per compensare le differenze che non si potevano dichiarare?
«È, appunto, il riflesso di cui credo dobbiamo liberarci. Ci sono forze che al congresso di Pesaro hanno assunto posizioni diverse da Fassino che possono essere impegnate nella gestione del partito. Pur partendo da posizioni diverse su diverse questioni, una comunanza quotidiana sarebbe un bene per tutti, mentre con un congresso che continua, si resta come separati in casa. Lo dico con convinzione e con disinteresse...».
Già, si è parlato di lei come pontiere e forse qualcosa di più...
«Io sono presidente di una Regione, ed è un impegno che pesa quotidianamente. Dico questo perché è quello che penso. Per il resto, ci sono tante facce nuove...».
Nel resto, però, non ci sono anche vecchie e nuove differenze?
«E chi lo nega? Ma perché dobbiamo stare in questa situazione assurda, per cui ci sono differenze politiche e dunque non c’è gestione unitaria o se c’è gestione unitaria scompaiono le differenze politiche: perché? Abbiamo fatto un congresso in cui ci si è divisi democraticamente. L’essenza di una gestione unitaria è che anche le differenze politiche emerse in un congresso possono evolvere, cambiare, diventare altre, anziché essere cristallizzate dal fatto che ci si vede e ci sente ogni tanto, senza il reciproco sforzo di fare ogni giorno i conti nella direzione politica, di farsi carico ognuno e tutti insieme dei problemi che ogni giorno vanno affrontati».
Scelte non facili. Quali priorità?
«Sociali, anzitutto, ed è una strada aperta dalla battaglia sull’articolo 18. E politiche, tenendo conto che per vincere noi dobbiamo andare ad alleanze ben più larghe di quelle delle ultime elezioni politiche, e quindi a un confronto con Rifondazione e altre forze ancora a sinistra, ma anche tra quelle che il plebiscitarismo prevalente nel centrodestra lascia allo sbaraglio».
A proposito di plebiscitarismo: e le riforme istituzionali? Va lasciato campo libero alla destra?
«Non dimentico, me lo ricorda la mia esperienza di governo della Regione, che abbiamo davanti a noi un cammino incompiuto. Penso che abbiamo perso una grande occasione, nella prima metà degli anni Novanta quando è esplosa la grande crisi di sistema, a non affrontare in modo unitario, in una logica - appunto -di sistema, il rinnovamento delle istituzioni della Repubblica con una assemblea costituente eletta con la partecipazione di parlamentari, presidenti di Regioni e Province, sindaci di grandi città, importanti competenze. Già con la Bicamerale si era in una situazione diversa, tant’è che il centrodestra non ha avuto remore a farla saltare...».
Figuriamoci dieci anni dopo...
«Oggi, purtroppo, non ci sono le condizioni per una sede unitaria. Assemblee costituenti e bicamerali sono del tutte irrealistiche Però rimane il problema di una logica unitaria di riforma delle istituzioni. Non è possibile concepirle né affrontarle a pezzi. Nei prossimi giorni comincerà al Senato, prima in commissione e poi in aula la discussione sulla forma di governo, mentre alla Camera approda, dopo che è stata approvata al Senato, la cosiddetta devolution che investe negativamente un nodo delicatissimo della forma di Stato. C’è bisogno di recuperare, da parte del centrosinistra, una capacità di sfida e di confronto con il centrodestra su temi che comunque sono lì, in Parlamento».
Facile a dirsi, difficile a farsi. Ha visto quali e quante polemiche ha suscitato il primo documento, necessariamente segnato dalla mediazione interna, dell’Ulivo?
«Sì, e ho apprezzato lo sforzo unitario. Personalmente penso che ci si possa spingere anche più in là del punto cui si è giunti in materia di rafforzamento dei poteri del premier. Ma, al tempo stesso, penso si debba porre al centrodestra il tema grandissimo dei poteri di garanzia nel sistema maggioritario, come con grande forza ha fatto nel messaggio di fine anno il presidente della Repubblica. Per stare e restare nel sistema maggioritario non si può prescindere dalle garanzie del maggioritario: i quorum del Parlamento, lo Statuto dell’opposizione. Non sono altra cosa. Così come non è altra cosa la questione della concentrazione dei mezzi finanziari e mediatici: attiene ai poteri democratici che negli anni tremila contano non meno, eufemisticamente, delle istituzioni democratiche e rappresentative».

***********

Lettera aperta a Fabio Mussi
di Massimo D'Alema

Caro Fabio,
non si dovrebbe mai affidare uno sfogo ad un giornalista, neppure - anzi, tanto più - se c'è un impegno di riservatezza. Dovrei saperlo io, più di altri. Ne faccio ammenda. E aggiungo che hai ragione a considerare alcune mie espressioni segno di scarsa serenità.
D'altro canto non è neanche facile rimanere sereni quando, come nel mio caso, si è sottoposti a una campagna di aggressione personale prolungata e velenosa. Un linciaggio che spesso travalica i confini della battaglia politica, per sconfinare nella denigrazione e nella calunnia. Com'è purtroppo costume di una sinistra dove chi non la pensa come te, deve per forza essere un traditore da colpire in primo luogo sotto il profilo della sua moralità.
Comunque, è giusto ciò che tu dici. Così non si va da nessuna parte. Anche se mi concederai, fosse solo per puntiglio, il diritto di difendermi dall'accusa (grave) d'aver scaricato in passato su altri responsabilità che erano anche mie.
Ho lasciato Palazzo Chigi dopo una sconfitta elettorale. Non ho chiesto io - come ti è noto - la presidenza del nostro partito. Quanto al dovere di rappresentare i Ds nel proporzionale della Puglia, lasciami credere che non di un'abdicazione si sia trattato quanto della testimonianza di un dissenso che mi ha portato a rischiare di persona.
Una sola cosa ti confesso. Ho sempre pensato che almeno chi aveva tutti gli elementi per giudicare i fatti coll'animo sgombro da pregiudizi, poteva distinguersi da quella campagna aggressiva; distinguere il dissenso politico dal rispetto delle persone e delle vicende umane. E lo potesse fare anche nel nome di una lunga militanza comune, di una storia condivisa.
Ma tant'è. Sono vicende del passato e in fondo ciascuno di noi ha qualcosa - qualche parola, qualche aggettivo fuori misura - da farsi perdonare. Col tempo e la buona volontà ci lasceremo anche questo alle spalle.
Parliamo invece di politica, come m'inviti a fare, e guardiamo al futuro. Nessuno di noi - vorrei chiarire questo punto una volta per tutte - ha paura dei movimenti e di quella spinta spontanea e generosa verso un impegno individuale che ha contrassegnato, arricchendola, l'azione dell'opposizione nell'ultimo anno.
Di più. Sono tra quanti riconosce a quelle esperienze il merito di aver rinvigorito una sinistra in debito d'ossigeno dopo la sconfitta elettorale e l'inevitabile contraccolpo. Bene ha fatto quindi Fassino a dimostrare apertura e coraggio. Non si è rinchiuso in casa propria, ma si è spinto sul nuovo terreno, ricercando dialogo e collaborazione. Con una disposizione d'animo - gliene va dato atto - a cogliere tutto il meglio di quella spinta originale. Nessuno ha frenato o condizionato Piero in questo sforzo di ricomposizione unitaria del partito e della coalizione.
E i risultati - positivi - si sono visti, a partire dal successo alle elezioni amministrative.
Oggi, però, abbiamo di fronte un problema diverso. Siamo alle prese, molto più di un anno fa, con il fallimento clamoroso del governo e con una crisi preoccupante del paese. E questo senza contare il rumore delle armi in sottofondo e le incertezze crescenti di un'opinione pubblica come smarrita di fronte a tanta confusione.
In una condizione del genere il problema che abbiamo davanti è abbastanza semplice; dobbiamo offrire un'alternativa credibile a questo quadro d'insieme. Vale a dire ricomporre una proposta di governo che sappia parlare al paese e che rifletta il pluralismo oggi presente nell'Ulivo e nella sinistra italiana.
Tutto qui, anche se naturalmente non è poco.
Ora, proprio la complessità dell'obiettivo mi convince che il problema non si risolve attraverso l'investitura plebiscitaria di qualche nuovo capo. In primo luogo perché la sinistra non è una terra di nessuno, un esercito in rotta in attesa di guida.
La storia della sinistra - per come sia tu che io la conosciamo - è stata molto spesso scontro di idee, propositi, strategie, ma sempre nella cornice di una dialettica regolata. Dove la leadership è figlia del consenso, ma anche frutto di un processo che ne registra e ratifica la natura e la quantità. Se poi una personalità - ed è questo il caso di Cofferati - leader lo è già, per ciò che è stato e per quanto ha fatto, allora egli ha il dovere di misurarsi con gli altri nelle sedi di elaborazione e decisione comune, altrimenti diventa molto più difficile per tutti sviluppare con efficacia una battaglia comune.
Capisci quanto me che non si tratta di un ultimatum, ma della condizione essenziale perché l'opposizione abbia un profilo credibile e non si faccia del male da sola.
Prendiamo ad esempio, ancora una volta, la polemica più recente sulle riforme istituzionali. Berlusconi, piaccia o meno, sull'argomento ha assunto un'iniziativa, parlando di dialogo con l'opposizione. Personalmente, considero quell'apertura del tutto strumentale, ma ciò non esclude - casomai rafforza - il bisogno di attrezzare una risposta efficace. E qui è legittimo pensarla in modo diverso. Si può concordare col gruppo dirigente dell'Ulivo che ha ritenuto - a mio avviso, giustamente - di dover sfidare la destra sui contenuti indicando una nostra idea di riforma, alternativa al presidenzialismo. Oppure dar ragione a Cofferati che ha detto semplicemente di "no" al dialogo. Ripeto, posizione rispettabile anch'essa, ma secondo me sbagliata.
Dunque, si può fare una cosa o l'altra. Quel che non regge è la convivenza confusa di messaggi contraddittori dal momento che ciò produce solo confusione e finisce coll'avvantaggiare Berlusconi.
Non vorrei rimanessero equivoci tra noi. Non intendo tacitare nessuno, tanto meno un uomo con la storia e l'impronta di Sergio.
Dico un'altra cosa. Che non si può dirigere un partito o una coalizione se ogni tua decisione è esposta, in modo pressoché sistematico e da parte di forze che appartengono al tuo stesso campo, all'accusa d'essere non solo un errore, ma un pericoloso regalo al nemico, alimentando così il sospetto politico e persino morale.
Questo clima è terribilmente dannoso e crea confusione, che lo si voglia o meno. Perché delegittima, giorno dopo giorno, l'azione di un gruppo dirigente. E soprattutto perché consente a Berlusconi, ogni volta che gli serve, di nascondere le sue giravolte logiche dietro la presunta inaffidabilità dell'interlocutore ("io vorrei dialogare, ma da quella parte non è chiaro chi comanda e non trovo interlocutori affidabili").
La mia opinione è che in questo modo un governo in evidente difficoltà guadagna dei punti e rovescia su di noi dei problemi che sono innanzitutto suoi. Facciamo attenzione allora, perché neppure così si va da qualche parte. Ed è esattamente questa la ragione dell'allarme lanciato da Fassino nei giorni scorsi. Un segnale tutto teso a invocare, al pari di altri, "maggiore unità". Ma più unità nei fatti, non solo negli intenti.
Questo è il senso dei ripetuti appelli a Cofferati per un impegno - nelle forme che egli vorrà - a fianco di chi oggi dirige la coalizione e la sinistra. E' la sola via perché la sua credibilità e il prestigio acquisiti contribuiscano da subito a rendere più forte l'opposizione. Guardare a questa richiesta di coinvolgimento e di assunzione di responsabilità come al tentativo di "cooptarne" le mosse e la libertà d'azione è invece una reazione infantile.
Tanto più che nessuno vuole spegnere la voce di un leader "troppo" popolare. Ma all'opposto gli si chiede di unire le energie e di non considerarsi un corpo estraneo a quel faticoso lavoro di recupero dei consensi che dovrebbe accomunarci tutti. Per questo ho detto che c’è bisogno di un federatore non di un conquistatore.
L’espressione è forte? Volevo e vorrei dire che dovrebbe apparire chiaro a tutti che il pluralismo effettivo del gruppo dirigente dell'Ulivo e della sinistra rappresenta una ricchezza, non un impedimento. E la reductio ad unum della leadership mal si combina, nello specifico, con la ricchezza della nostra dialettica interna, e in generale con la necessità, in un sistema bipolare, di conquistare il consenso di un arco ampio di orientamenti e sensibilità diverse.
Abbiamo ciascuno bisogno degli altri, ecco la verità. E prima lo accettiamo, meglio sarà per il nostro partito e per l'avvenire del centrosinistra. Fassino, dunque, ha sollevato un delicato nodo politico. Non ha sventolato un regolamento. E non vorrei davvero che una questione tanto rilevante finisse coll'essere vissuta come l'atto burocratico di un vertice nervoso. Sarebbe una caricatura della discussione tra noi.
Detto ciò, come si fa a risolvere il problema? Non è facile. Anche perché non serve battere i pugni o ingrossare la voce. Forse - come ha suggerito ieri Bassolino - conviene muovere dalla realtà e da uno scenario che oggi è molto diverso da quello di Pesaro.
Personalmente, non ho ricette né mi permetto di consigliare soluzioni operative, ma vedo anch'io - a scapito di chi ci vorrebbe irrimediabilmente divisi - le condizioni per lavorare insieme. Nel senso di una comune assunzione di responsabilità nel partito e nell'Ulivo.
Senza inutili scorciatoie, ma con la coscienza di essere tutti imbarcati sulla stessa nave che si muove lungo una rotta tracciata. Quando ho parlato di "tirare insieme la carretta", a questo pensavo. A una volontà comune di non fare altri regali ai nostri avversari. Alla possibilità, se ne siamo capaci e il vento ci aiuta, d'accelerare l'andatura. Allo sforzo condiviso di rispettarci di più. Per quello che siamo e per la storia che ciascuno si porta appresso.
Certo, se invece qualcuno pensa - ma pensa davvero - che la rotta intrapresa da Pesaro in avanti è radicalmente sbagliata, è bene che lo dica. Ne discuteremo, come sempre abbiamo fatto, e quando sarà il momento, rispettando le regole democratiche di un organismo collettivo, verificheremo da che parte andare. Ma se non vogliamo condannarci alla paralisi, l'importante - prima, durante e dopo quel momento - sarebbe di muoversi tutti, proprio tutti, nella stessa direzione.

Massimo D’Alema

 


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