Etica, mercato e disuguaglianza
Nel “villaggio globale” e nei contesti localidi Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto(Università di Chieti – 10 Novembre 2006)
Il bel libro di Tommaso Padoa-Schioppa, Europa, una pazienza attiva. Malinconia e
riscatto del Vecchio Continente (Rizzoli, Milano 2006), mi offre lo spunto
per organizzare le mie riflessioni su etica,
mercato e disuguaglianza intorno a tre termini
chiavi: malinconia, pazienza attiva e riscatto.
1. Malinconia è la condizione prodotta nelle singole coscienze,
come nell’insieme di intere culture, dallo
scarto fra l’esperienza e l’attesa. Lì dove
l’eccedenza di ciò che si spera rispetto
a ciò che si ha o si presume di dover avere
supera la soglia della sostenibilità, si
fa strada l’esperienza dello scacco. Dallo
scacco nasce la malinconia, una condizione
dello spirito cui ha dedicato riflessioni
mirabili Søren Kierkegaard, il pensatore
cristiano che sotto molti aspetti si è posto
come la coscienza critica della modernità
sazia e sicura di sé. È soprattutto nel “Ciclo
estetico” delle sue opere che Kierkegaard
parla della malinconia, e lo fa in modo speciale
in riferimento alla figura del poeta, l’“amante
infelice di Dio” (cf. Diario, a cura di C. Fabro, III, 1083). Il poeta è tale in quanto vive
della tensione irrisolta fra l'ultimo, a
cui ambisce, e il penultimo, da cui è sempre
afferrato. L'estetica dell'infelicità, l'amare
il proprio dolore, è così la condizione in
cui si produce la poesia, ma è anche l’esperienza
feconda di una malinconia che - proprio sotto
lo stimolo della sofferenza che l’accompagna
- spinge verso un superamento decisivo. A
partire proprio da Kierkegaard, dedica alla
malinconia riflessioni di grande profondità
e bellezza Romano Guardini, il pensatore
italo-tedesco che è stato fra le più lucide
intelligenze critiche del cosiddetto “secolo
breve”: in lui la malinconia non è vista
solo come uno stigma dello spirito, ma più
in generale come un carattere epocale. Nella
piccola opera Ritratto della malinconia (Morcelliana, Brescia 19934) Guardini riesce a farne un esame, che è
il riflesso fedele della coscienza europea
nel profilarsi tragico dei totalitarismi
e dell’inaudita violenza da essi prodotta
(l’originale tedesco Vom Sinn der Schwermut fu scritto nel 1928, mentre maturava la
grande crisi dell’anima tedesca, che sarebbe
sfociata nella barbarie nazista). La tesi
di fondo con cui si apre il testo di Guardini
dà ragione della lettura epocale della malinconia,
che Padoa-Schioppa fa sua nel libro sull’Europa:
“Troppo dolorosa è la malinconia e troppo
a fondo spinge le sue radici nel nostro essere
di uomini, perché la si debba abbandonare
nelle mani degli psichiatri” (13). Le ragioni
della malinconia non sono solo psicologiche
o contingenti: essa pesca nel profondo dei
cuori in quanto inesorabilmente segnati dalle
tragedie del tempo, strutturalmente feriti
dalla crisi della storia. Guardini era stato
profeta di ciò che proprio con la dittatura
nazionalsocialista sarebbe divenuto realtà:
“Qui sta soprattutto l’enigma della malinconia:
in una rivolta della vita contro se stessa;
nel fatto che gli impulsi all’autoconservazione,
alla stima e all’affermazione di noi stessi
possono essere contrastati in maniera così
singolare dall’impulso all’autodistruzione,
da giungere solo all’indebolimento e allo
sradicamento totali” (47). La malinconia
rende vulnerabili singoli e popoli interi,
perché insinua la disistima di sé, la mancanza
di confidenza nelle proprie forze e possibilità,
su cui ha facile presa la legge del più forte:
“Chi ha vissuto l’esperienza della prima
guerra mondiale - scriverà Guardini nelle
lezioni del secondo dopoguerra - ricorda
il senso di smarrimento che nacque quando
la volontà di promuovere la cultura e la
civiltà, che si era convinti potesse tutto
ordinare e collegare, si dimostrò impotente
... Alla guerra è seguita un’epoca piena
di promesse, nonostante tutta l’angustia,
quella degli anni 1919-1933. Ma poi ad essi
fecero seguito dodici anni d’illegalità e
di violenza, fondati su un’ideologia allucinante
e retti da uomini eticamente abietti e spiritualmente
malati. Quello che accadde non è ancora riconosciuto
in modo giusto. Un aspetto fu comunque evidente:
che la scienza non è, come l’illuminismo,
l’idealismo, il positivismo avevano ritenuto,
colei che succede alla fede, e che non è
in condizione di governare il corso della
vita umana” (Etica. Lezioni all’Università di Monaco 1950-1962, Morcelliana, Brescia 2001, 99s). La crisi
- e Guardini ne era ben consapevole - non
era solo propria della cultura tedesca, attraversava
anzi l’intera cultura europea, anche se aveva
trovato nel “caso tedesco” la sua “punta
di iceberg”: “Un’azione violenta, senza uguali
nella storia europea, ha sottomesso l’uomo
tedesco alla propria volontà - ma ciò non
sarebbe stato possibile, se egli non fosse
stato condiscendente nei suoi confronti.
Chi davvero può farlo, ha naturalmente il
diritto di affermare di fronte a sé e di
fronte agli altri di non aver avuto nulla
a che fare con questa storia di violenza.
Dovrà però provare a se stesso di essere
andato abbastanza a fondo nell’esame di sé.
Il punto decisivo di questo esame non sta
infatti nella domanda: ne sono stato espressamente
complice, oppure ho ricavato un utile dall’azione
di chi operava? - bensì: ho risposto al dovere
dell’esistenza personale, così come avrei
dovuto fare?” (841: “Habe ich äußerlich mitgetan, oder
vom Tun der Handelndem Nutzen gezogen? habe
ich so zur Pflicht personaler Existenz gestanden,
wie ich es hätte tun sollen?”). La domanda che nessun tedesco pareva volesse
porsi, è posta da Guardini senza mezze misure.
É questo anche l’esame di coscienza che Padoa-Schioppa
sembra chiedere oggi alla coscienza europea:
a oltre cinquant’anni dall’interrogativo
di Guardini non c’è forse da domandarsi se
la “malinconia” non abbia ancora una volta
tarpato le ali alla coscienza europea, impedendole
di andare oltre, dove la sua identità più
profonda la chiamava, e rendendola così succube
di logiche di piccolo cabotaggio, legate
a interessi di gruppo capaci di spegnere
lo slancio verso un più alto cammino, richiesto
a tutti, fecondo per tutti? Come sempre,
dove vince la malinconia lo sforzo creativo
dei grandi passi si esaurisce in manovre
di scarso respiro: “Ciò che in ogni sistema
nazionale è demandato a una legislazione
secondaria flessibile, facilmente emendabile,
o addirittura alla decisione discrezionale
di una amministrazione pubblica - osserva
Padoa-Schioppa, costruttore di istituzioni
comunitarie -, nel sistema europeo viene
scolpito nel marmo delle direttive comunitarie”
(80). Si arriva a vere e proprie amenità:
“C’è una direttiva che prescrive forma e
misura che devono avere certi ortaggi per
essere riconosciuti dalla politica agricola
comune; o un’altra che stabilisce le ore
in cui si può azionare il tagliaerba senza
disturbare i vicini” (78)! Sì: il Vecchio
Continente sembra a volte perdere i grandi
orizzonti e annegare nei frammenti del “particulare”,
succube della sua irrisolta malinconia. E
l’Italia – in questo malinconico autunno
– sembra concorrere con ogni sforzo alla
palma della maggiore mancanza di autostima,
e quindi della più profonda vulnerabilità.
2. Una pazienza attiva è il rimedio che il grande Economista oppone
alla vittoria della malinconia, non lontano,
anche in questo, da Romano Gardini, che alla
tensione malinconica opponeva la medicina
dell’etica e della fede. La malattia della
coscienza europea, come di quella nazionale
ancora più endemica e diffusa, non si cancella
con un colpo di spugna: occorre quella virtù
intermedia fra realismo e utopia, fra umiltà
e coraggio che si chiama “pazienza”. Senza
realismo, nessuna diagnosi potrà risultare
affidabile. Senza pensare in grande, nessuna
terapia conoscerà il necessario colpo d’ala
per funzionare. Senza umiltà, il rischio
di ricadute nelle presunzioni ideologiche
del recente passato non si potrà evitato.
Senza coraggio, nessun cambiamento profondo
potrà essere iniziato. Perciò la pazienza
dovrà essere “attiva”: quello che pare un
ossimoro, una combinazione si qualità apparentemente
opposte, è invece la sola via d’uscita possibile.
Pazienza attiva significa aprire gli occhi
di fronte alla verità, senza chiudersi nell’asfissiante
ipertrofia della soggettività, nel gioco
rassicurante della menzogna, nella promessa
consolatoria a buon mercato. Bisogna uscire
dall’io, guardare coraggiosamente fuori di
sé alla realtà delle cose, misurarsi con
l’altro: occorre abbandonare quell’enfasi
dell’io ripiegato su di sé, a causa della
quale - come osserva ancora Guardini - “l’uomo
non capisce più per quale ragione dovrebbe
rinunciare, per amore del bene, a cose che
gli sembrano utili o farne altre che esigono
sacrificio”, e “la motivazione etica vera
e propria, cioè quella della suprema altezza
di senso del bene, svanisce e viene sostituita
dalla motivazione legata all’incremento della
vita, all’utilità e infine al godimento”
(467). La svolta è di ordine morale e spirituale:
occorre avere il coraggio dell’obbedienza
alla verità, l’attiva pazienza di chi intende
servire fino in fondo il vero: “L’uomo non
sussiste in se stesso, da se stesso, per
se stesso, ma ‘in direzione di’, nell’arrischiarsi
verso l’altro da sé… L’uomo diventa se stesso
nella misura in cui abbandona se stesso,
non però nella forma della leggerezza, del
vuoto d’esistenza, ma in direzione di qualcosa
che giustifica il rischio di sacrificare
se stessi” (256). Questo qualcosa per cui
vale la pena sacrificarsi è l’equità, il
rispetto di ciascuno, la giustizia per tutti:
dove la malinconia isolava la coscienza nella
sua isola infelice, la passione per l’equità
spinge a perdere la propria vita per ritrovarla
nell’altro, a considerare l’altro non più
come concorrente o avversario, ma come promessa
e dono, e a vedere nel bisogno dell’altro,
specialmente del più debole e sprovveduto,
il suo diritto verso di te. L’attiva pazienza
è la virtù necessaria a chi sceglie di impegnarsi
per la giustizia, a chi considera l’uguaglianza
fondamentale delle possibilità la condizione
indispensabile di un’umanità vera, libera
e felice. Ma chi sarà pronto a questo sacrificio
di sé? E come potremo essere sicuri che dietro
la bandiera dell’equità non si nascondano
i giochi dell’interesse egoistico, che ne
fanno la semplice maschera del nulla, lo
strumento per perpetuare malinconicamente
il declino, nell’ebbrezza degli appetiti
singoli e di gruppo? Occorre un orizzonte
alto cui guardare: “Darsi un punto di riferimento
significa assumere quale guida qualcosa che,
pur connesso al breve tempo e al piccolo
luogo in cui siamo, sia più alto e più lontano,
e perciò dia senso, orientamento al nostro
incedere. Non una previsione o una scommessa,
ma un obiettivo e un proposito. Significa
alzare lo sguardo oltre il proprio momento.
Dalla malinconia si esce guardando in alto
dentro se stessi” (T. Padoa-Schioppa, Europa…, o.c., 32).
3. È qui che si affaccia la terza parola
della diagnosi e della terapia: il riscatto. Essa può avere un senso umano, tutto umano,
indicando lo sforzo per proporsi una meta
alta per il bene personale e di tutti, e
l’impegno a conseguirla nonostante la misura
del prezzo da pagare: è il senso con cui
usa prevalentemente il termine Padoa-Schioppa,
parlando del riscatto del Vecchio Continente,
e dell’Italia in esso. Ma accanto a questo,
e per nulla escludendolo, c’è un altro senso
che mi sembra necessario richiamare: il riscatto
non è solo emancipazione, prodotto delle
nostre forze, è anche e molto più tensione
etico-spirituale, che supera anche le nostre
forze, e come tale è sfida da accogliere,
dono a cui aprirsi, solidarietà con gli altri
e invocazione umile al Totalmente Altro,
di cui tutti abbiamo nostalgia e bisogno.
Il quadro che proverò ora a delineare mi
sembra giustifichi questa più ampia interpretazione
del riscatto, che lo rapporta alle categorie
di speranza e di amore operoso e solidale,
così come sono presentate ad esempio dal
ConcilioVaticano II in un testo di grande
spessore e incisività per chi voglia raccogliere
la sfida che viene dal futuro: “Legittimamente
si può pensare che il futuro della umanità
sia riposto nelle mani di coloro che saranno
capaci di trasmettere alle generazioni di
domani ragioni di vita e di speranza” (Gaudium st Spes 31). Come trasmettere oggi queste ragioni
nel quadro del “villaggio globale” e della
situazione locale, in cui il riscatto va
situato e compreso?
Un primo contributo alla risposta mi sembra
sia la considerazione che non è più possibile
pensare oggi ad un riscatto che passi attraverso
una politica economica elaborata a livello
solo “nazionale”. Una tale politica non potrebbe
mai disporre degli strumenti necessari per
perseguire gli obiettivi di giustizia ed
equità sociale richiesti. Oggettivamente
è difficile per qualsiasi paese dell’Unione
Europea, per l’Italia perfino impossibile,
pensare di poter intervenire sui fondamentali
processi macroeconomici interni senza tener
conto del rispetto dei vincoli che ci si
è imposti entrando nell’area monetaria comune.
La politica monetaria è stata delegata alla
Banca Centrale Europea, che gestisce la moneta
unica: nel settore monetario, quindi, tutto
è deciso a livello sovranazionale europeo.
Riguardo alla politica fiscale ed alla eventualità
dell’utilizzo della leva del bilancio pubblico
come strumento di politica economica, il
discorso apparentemente sembra essere diverso,
ma il rispetto dei vincoli sul deficit di
bilancio (disavanzo tra le entrate e le spese
correnti del settore pubblico), che non può
superare il 3% del PIL (Prodotto Interno
Lordo), e sul debito pubblico (emesso per
finanziare il disavanzo primario) riducono
notevolmente gli ambiti di manovra, per il
nostro paese e non solo per esso. Sono di
questi giorni le aspre polemiche sulla finanziaria,
da tanti osteggiata, la cui elaborazione
è stata fortemente condizionata dalla necessità
di ricostruire l’avanzo primario (e cioè
il surplus del bilancio pubblico al netto
della spesa per interessi sul debito) e di
invertire la tendenza di crescita del debito
pubblico, condizioni fondamentali per non
incorrere nelle sanzioni comunitarie. D’altra
parte, il governo centrale deve tener conto
anche delle esigenze finanziarie degli Enti
Locali, dotati di autonomia amministrativa
sempre più ampia, ma con capacità fiscali
quasi nulle. I trasferimenti tra governo
centrale e governi locali sono ancora un
capitolo di spesa molto importante, fondamentale
per alcune aree del Paese (fra cui la nostra),
per l’attuazione delle politiche sociali
e di sviluppo di Regioni, Province e Comuni.
In una simile situazione, quali possono essere
le politiche utili a generare ricchezza e
a ridistribuirla in maniera equa in modo
tale che la società italiana non sia più
spaccata tra cittadini che vivono per il
superfluo e altri che incontrano difficoltà
a portare avanti una vita dignitosa? Essendo
le risorse economico-finanziare a disposizione
per tale scopo meno che scarse bisogna più che mai che la politica “voli
alto” e si inventi un nuovo patto sociale.
È necessario, in primo luogo, “rigenerare”
la vita pubblica italiana. In una situazione
molto delicata quale quella che stiamo vivendo,
non si può chiedere alla società civile,
stremata dal clima di odio e di sospetto
che pervade la politica italiana da una decina
d’anni, di trovare un terreno comune in cui
tutti possano e debbano fare la propria parte
per far ripartire il Paese. Un Paese diviso
non può accettare un cambio culturale che
impedisca all’intero sistema di implodere.
Fondamento primo di qualsiasi politica economica
efficace, che abbia effettivamente presa
sui cittadini in questo momento storico,
è che questa provenga da una classe dirigente
credibile che faccia comprendere ai destinatari
dei provvedimenti più “odiosi” ma necessari
(se non indispensabili) che quella intrapresa
è la migliore strada percorribile per il
bene della nazione. Classe politica dirigente
credibile è quella che, indipendentemente
dalla propria posizione di maggioranza o
opposizione, dialogando e senza mai ricorrere
all’uso del pregiudizio, dimostra di cercare
il bene comune più che quello della propria
parte ed assume decisioni le cui ricadute
(sacrifici e/o benefici) coinvolgano lo stesso
ceto politico. Spesso mi confronto con le
persone e colgo come l’ostacolo primo all’accettazione
di qualsiasi decisione presa a livello politico
in campo economico sia la mancanza di fiducia
verso i politici che nel corso degli anni
pare stia crescendo in modo esponenziale…
Il rispetto dei principi etici e morali in
ambito pubblico genererà frutti virtuosi
nella società civile, facendola deviare dal
sentiero egoistico di chiusura alle esigenze
del prossimo, che adesso si trova a percorrere.
Solo allora si potrà effettuare una seria
lotta all’evasione fiscale, principale strumento
per il risanamento finanziario e fonte di
risorse utili alla redistribuzione delle
risorse. Lottare l’evasione fiscale significa
anche porre una pietra tombale sui condoni
di qualunque tipo e, soprattutto, attivare
seri controlli da parte di chi vi è preposto.
In questo settore, anche la Chiesa, come guida morale dei credenti (maggioranza
in questo paese), deve far sentire più forte
la propria voce: non pagare le tasse è un
peccato grave, è rubare! Le risorse così
recuperate dovranno essere utilizzate per
serie politiche della famiglia, a sostegno
delle giovani coppie e dei lavoratori precari.
In quest’opera di moralizzazione e di eliminazione
delle inefficienze del sistema anche le imprese
dovranno essere spronate a comportamenti
virtuosi, attraverso incentivi finanziari
basati sugli standard etici della conduzione
aziendale. Più in generale, allontanandoci
dal “caso Italia”, affinché si possa parlare
in futuro di economia al servizio dell’uomo
è fondamentale che si cambino gli indicatori
internazionali di cosa sia la ricchezza o
il benessere di un Paese. Una nazione con
reddito pro capite elevatissimo ma che abbia
un ambiente devastato, elevatissimi squilibri
sociali, immoralità pubblica, insoddisfazione
diffusa nei vari strati della popolazione,
non è un Paese effettivamente ricco. Un’economia
che giudica la ricchezza solo in base alla
produzione ed al suo incremento, dimenticandosi
che l’uomo, prima di essere un produttore
di ricchezza ed un consumatore, è soprattutto
persona, e come tale un essere dalla dignità
irrinunciabile, è e sarà sempre più incapace
di “pensarsi” redistribuita tra una moltitudine,
piuttosto che concentrata tra pochi. Una
tale economia porterà ad una situazione economica,
in cui esclusivamente il mercato e le lobby
che lo reggono decideranno sugli squilibri
di ricchezza e sociali che, alla lunga, non
potranno essere compatibili con nessuno stato
di diritto.
Per fare il grande passo, è necessario allora
vincere la malinconia strutturale di cui
è pervaso il sistema Italia, nel più ampio
e non meno critico “sistema Europa”. È necessario
esercitarsi nella virtù difficile della pazienza
attiva. Ma ciò che soprattutto è indispensabile,
è ritrovare ragioni comuni di vita e di speranza,
che siano totalmente fedeli alla persona
umana, ma non meno fedeli al suo destino
eterno e alle esigenze etiche e spirituali
che esso comporta, e che motivino il grande
impegno del riscatto per tutti. Bisogna ricominciare
a pensare in grande e a farlo insieme. Bisogna
offrire a tutti, specialmente ai giovani,
ragioni vere di vita e di speranza. Dovremo
imparare a sognare uniti, pronto ciascuno
a pagare il proprio prezzo perché il sogno
diventi realtà. Non sarà questione di una
stagione, ma di un tempo non breve, in cui
mantenere alto lo sguardo e sostenersi reciprocamente
nella fatica. La Chiesa dovrà fare la sua parte di sentinella del
mattino, dell’orizzonte di speranza, cioè,
di cui tutti abbiamo bisogno e della testimonianza
di carità, che di questo orizzonte è la più
credibile anticipazione. Resta la domanda:
saremo pronti a pagare insieme questo prezzo
al futuro di tutti, per tutti? Saremo disposti
a vivere l’attiva pazienza che trasformi
la malinconia in riscatto? È tempo di domandarselo
e di rispondere insieme.