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15 Settembre, 2002
I bambini della cascina
Massimo Negri sul libro di Mario Lodi. «…Custodire la memoria di un mondo che non c'è più e che nessuno più conosce»

Mario Lodi, I bambini della cascina (Ed. Marsilio)

"Bepi ... quant zugà ... quant zugà!" (quanto giocare!) trova la forza di dire Natale, sofferente nel suo letto d'ospedale all' amico di una vita. Le sue ultime parole, poi il mesto rito del funerale durante il quale matura in Bepi, il protagonista, la consapevolezza di essere rimasto lui solo a custodire la memoria di un mondo che non c' è più e che nessuno più conosce.

Il pensiero corre nitido alla Santa Lucia di tanti anni fa in cui "io gli diedi le noccioline e lui mi diede due fichi secchi". Il Novembre addietro, mese di nebbie e di traslochi, Bepi, lasciato il cascinale dove era nato cinque anni prima, arriva coi suoi genitori nella grande cascina del Lazzaretto. Conosce subito il pari età figlio del padrone. Da quel momento Bepi e Natalino saranno "i piccoli della cascina" e staranno sempre insieme come due fratelli.

Il loro primo appuntamento è nella stalla delle giovenche dove si tiene il teatro dei burattini.

Quella sera a vedere lo spettacolo c' erano tutte le quindici famiglie della cascina, più di cento persone. Fra esse, naturalmente, molti ragazzi e bambini. Sono loro a occupare il proscenio in una ideale rappresentazione scenica di questo quaderno di ricordi dell' illustre maestro e scrittore di Piadena. Sono i loro giochi gli eventi riempitivi di quei giorni. Quelli invernali, a pallate di neve o a scivolare sul ghiaccio nelle cave o sugli argini, usando magari come slitta l' asse da bucato: "sembrava di volare".

O quelli delle stagioni più calde, speciali "fuori pasto": raccogliere e poi cuocere i baccelli o le piccole zucche lasciate sul terreno dai grandi; preparare di nascosto il pop corn con le pannocchie non ancora mature o recuperare i dolci grappolini d' uva rimasti sulla vite dopo la vendemmia.

La cultura del risparmio e del "non sprecare niente" era dunque assimilata dai giovani a partire dai loro passatempi così come la partecipazione alle attività maggiori era una fonte continua di apprendimento. Ad esempio, correre a prendere la legna e portarla nella "bugadera" quando si faceva il bucato grande di primavera, oppure fare baccano picchiando coi bastoni su dei barattoli come fossero tamburi quando si trattava di catturare uno sciame d' api nell' arnia.

O ancora, a scuole finite, portare da bere nei campi ai contadini, scacciare i tafani dai cavalli che trainavano la mietitrice e prendere lo spago per legare i covoni o preparare il filo per legare le balle di paglia a trebbiatura in corso. Mentre aiutavano si divertivano pure in ragione dei premi previsti quali uova (bianche o colorate), focacce cotte nella cenere del braciere o un sorso di vino.

Più comuni erano i giochi dei fine settimana, a tombola o a carte, vicino ai buoi coricati sulla paglia intanto che le madri filavano e i padri andavano in paese a bere qualche bicchiere e a giocare alla morra.

E come dimenticare le storie raccontate, sempre nella stalla, alla sera dal vecchio Biget?

Vere o non vere, quelle storie narrate con uso sapiente della voce e delle pause, trasportavano l' immaginazione dei bambini in luoghi lontani e misteriosi mentre poteva capitare che Biget, chinato il capo, si addormentasse sul vecchio libro che teneva in mano.

Una specie di gioco poteva ritenersi, infine, la gara a voler imparare - per non essere da meno degli adulti - i nomi dei numerosi animali che erano una componente fondamentale di quella comunità. Riconoscerli uno a uno era una forma pratica per chiamarli e comandarli ma, insieme, un segno di affetto e di rispetto. L' esercizio richiedeva la sua dose d' impegno se si pensa che solo le cavalle erano una ventina: Norma, Aida, Penelope, Irma ... L' unico maschio, Lampo, era davvero fortunato ... pure per le sue missioni esterne a "tirare il calesse quando si andava a prendere il medico, o a portare le donne alla messa in città, o al mercato".

I percorsi del cavallo mi portano ad aprire una breve parentesi. La cascina era in buona misura autosufficiente e nondimeno viveva di scambi con il mondo circostante in un equilibrio sociale ed economico consolidato che ha segnato vari decenni in questo lembo di pianura padana. Chiudo la parentesi evocando tre figure che - da fuori - venivano in cascina.

C' era l' uomo del pane che arrivava con la bigoncia, la gràmola e il lievito che unito all' acqua, al sale e alla farina messa dai contadini serviva alla preparazione di grossi pani. Questi venivano cotti nel forno sotto il portico e poi conservati dentro la cassapanca dove duravano mesi. Seguiva l' uomo delle pere cotte che giungeva in bicicletta, col suo profilo lungo e nero e con un sacco per la raccolta di "vecchi stracci, corna, oggetti rotti di rame, pelli di coniglio". Cedeva in cambio pere cotte ben disposte a piramide sul portapacchi. Natalino ne era ghiotto. Comparivano, infine, i venditori di maialini che venivano dal reggiano con un carro carico di cestoni in ognuno dei quali stavano, appunto, i maialini.

All' acquisto era rispettata la regola del patto colonico secondo la quale ogni contadino poteva tenere un solo maiale e non più di quindici galline. Il porcile era sotto, sul piano in terra battuta del portico. Sopra il porcile c' era il pollaio e il posto per la legna.

Quello era tutto il patrimonio della famiglia contadina.

Un' altra figura di spicco, questa volta interna alla cascina, era Bàroli, il fabbro-falegname-meccanico. Aveva fatto la prima guerra mondiale, era buono, saggio e sapeva fare di tutto, anche le fionde con le quali i ragazzi-monelli colpivano i colombi, i passeri e i merli.

Un giorno due militi gli perquisirono l' officina e la casa accusandolo di aver aiutato un giovane del paese a nascondere dei volantini contro il Duce nella canna della bicicletta.

Quel giovane fu arrestato al confine con la Francia e poi fu condannato a dieci anni di galera. Bàroli fu invece assolto per insufficienza di prove. Il Signor Calisto, una sera, riuniti tutti i capifamiglia e ribadita la stima nei loro confronti, avvisò che c' erano nuove leggi da rispettare e ammonì: "nella mia cascina si lavora, non si fa politica".

Rientrati tutti senza parlare nelle case, il padre di Bepi disse soltanto: "Non c' è più libertà, ragazzo mio".

Pure il vento di guerra iniziò presto a soffiare quando il grande campo coltivato a mais fu trasformato in campo di aviazione e a scuola gli scolari fecero le prove col moschetto.

"La guerra che il maestro Bianchi voleva farci amare per la grandezza dell' Italia aveva distrutto le nostre vite". Decimata la popolazione per gli effetti del conflitto bellico e sostituito con le macchine il lavoro dei cento contadini, il cuore della grande cascina del Lazzaretto non batte più.

Il finale del testo è triste e riflette l' angoscia di Mario Lodi per la scomparsa della civiltà contadina. Poiché pero, come spero di aver dimostrato, le pagine del libro comunicano memorie e valori, voglio riandare, in conclusione, a un' attività del tempo di pace: l' allevamento dei bachi da seta. A Primavera, per nascere dalle uova depositate dalle farfalle, i bachi avevano bisogno del caldo tiepido e continuo dei focolari, cui attendevano le donne, e di molte foglie che i bambini si premunivano di staccare dai gelsi con rifornimenti plurigiornalieri.

Ma i bachi mangiavano, crescevano e chiedevano spazio.

Nei quaranta giorni che durava il loro sviluppo, poco alla volta, essi occupavano tutta la casa obbligando le famiglie a trasferirsi sotto il portico e/o sopra il fienile.

Se alla fine le cose andranno bene, confidò un giorno la mamma a Bepi, "con i soldi dei bozzoli compreremo un lettino nuovo per te e una giacca per il papà".

"E per te niente?" il figlio le chiese.

"A me basta quel che ho" rispose lei tranquilla.

Massimo Negri - Casalmaggiore (CR)

 


       



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