Mario Lodi, I bambini della cascina (Ed. Marsilio)
"Bepi ... quant zugà ... quant zugà!" (quanto giocare!) trova la forza
di dire Natale, sofferente nel suo letto d'ospedale all' amico di una vita. Le
sue ultime parole, poi il mesto rito del funerale durante il quale matura in
Bepi, il protagonista, la consapevolezza di essere rimasto lui solo a
custodire la memoria di un mondo che non c' è più e che nessuno più conosce.
Il pensiero corre nitido alla Santa Lucia di tanti anni fa in cui "io gli
diedi le noccioline e lui mi diede due fichi secchi". Il Novembre addietro, mese
di nebbie e di traslochi, Bepi, lasciato il cascinale dove era nato
cinque anni prima, arriva coi suoi genitori nella grande cascina del
Lazzaretto. Conosce subito il pari età figlio del padrone. Da quel momento
Bepi e Natalino saranno "i piccoli della cascina" e staranno sempre
insieme come due fratelli.
Il loro primo appuntamento è nella stalla delle giovenche dove si tiene il
teatro dei burattini.
Quella sera a vedere lo spettacolo c' erano tutte le quindici famiglie della
cascina, più di cento persone. Fra esse, naturalmente, molti ragazzi e bambini.
Sono loro a occupare il proscenio in una ideale rappresentazione scenica di
questo quaderno di ricordi dell' illustre maestro e scrittore di Piadena. Sono i
loro giochi gli eventi riempitivi di quei giorni. Quelli invernali, a pallate di
neve o a scivolare sul ghiaccio nelle cave o sugli argini, usando magari come
slitta l' asse da bucato: "sembrava di volare".
O quelli delle stagioni più calde, speciali "fuori pasto": raccogliere e poi
cuocere i baccelli o le piccole zucche lasciate sul terreno dai grandi;
preparare di nascosto il pop corn con le pannocchie non ancora mature o
recuperare i dolci grappolini d' uva rimasti sulla vite dopo la vendemmia.
La cultura del risparmio e del "non sprecare niente" era dunque assimilata
dai giovani a partire dai loro passatempi così come la partecipazione alle
attività maggiori era una fonte continua di apprendimento. Ad esempio, correre a
prendere la legna e portarla nella "bugadera" quando si faceva il bucato grande
di primavera, oppure fare baccano picchiando coi bastoni su dei barattoli come
fossero tamburi quando si trattava di catturare uno sciame d' api nell' arnia.
O ancora, a scuole finite, portare da bere nei campi ai contadini, scacciare
i tafani dai cavalli che trainavano la mietitrice e prendere lo spago per legare
i covoni o preparare il filo per legare le balle di paglia a trebbiatura in
corso. Mentre aiutavano si divertivano pure in ragione dei premi previsti quali
uova (bianche o colorate), focacce cotte nella cenere del braciere o un sorso di
vino.
Più comuni erano i giochi dei fine settimana, a tombola o a carte, vicino ai
buoi coricati sulla paglia intanto che le madri filavano e i padri andavano in
paese a bere qualche bicchiere e a giocare alla morra.
E come dimenticare le storie raccontate, sempre nella stalla, alla sera dal
vecchio Biget?
Vere o non vere, quelle storie narrate con uso sapiente della voce e delle
pause, trasportavano l' immaginazione dei bambini in luoghi lontani e misteriosi
mentre poteva capitare che Biget, chinato il capo, si addormentasse sul
vecchio libro che teneva in mano.
Una specie di gioco poteva ritenersi, infine, la gara a voler imparare - per
non essere da meno degli adulti - i nomi dei numerosi animali che erano una
componente fondamentale di quella comunità. Riconoscerli uno a uno era una forma
pratica per chiamarli e comandarli ma, insieme, un segno di affetto e di
rispetto. L' esercizio richiedeva la sua dose d' impegno se si pensa che solo le
cavalle erano una ventina: Norma, Aida, Penelope, Irma ... L' unico
maschio, Lampo, era davvero fortunato ... pure per le sue missioni
esterne a "tirare il calesse quando si andava a prendere il medico, o a portare
le donne alla messa in città, o al mercato".
I percorsi del cavallo mi portano ad aprire una breve parentesi. La cascina
era in buona misura autosufficiente e nondimeno viveva di scambi con il mondo
circostante in un equilibrio sociale ed economico consolidato che ha segnato
vari decenni in questo lembo di pianura padana. Chiudo la parentesi evocando tre
figure che - da fuori - venivano in cascina.
C' era l' uomo del pane che arrivava con la bigoncia, la gràmola e il
lievito che unito all' acqua, al sale e alla farina messa dai contadini serviva
alla preparazione di grossi pani. Questi venivano cotti nel forno sotto il
portico e poi conservati dentro la cassapanca dove duravano mesi. Seguiva l'
uomo delle pere cotte che giungeva in bicicletta, col suo profilo lungo e
nero e con un sacco per la raccolta di "vecchi stracci, corna, oggetti rotti di
rame, pelli di coniglio". Cedeva in cambio pere cotte ben disposte a piramide
sul portapacchi. Natalino ne era ghiotto. Comparivano, infine, i
venditori di maialini che venivano dal reggiano con un carro carico di
cestoni in ognuno dei quali stavano, appunto, i maialini.
All' acquisto era rispettata la regola del patto colonico secondo la quale
ogni contadino poteva tenere un solo maiale e non più di quindici galline. Il
porcile era sotto, sul piano in terra battuta del portico. Sopra il porcile c'
era il pollaio e il posto per la legna.
Quello era tutto il patrimonio della famiglia contadina.
Un' altra figura di spicco, questa volta interna alla cascina, era Bàroli,
il fabbro-falegname-meccanico. Aveva fatto la prima guerra mondiale, era buono,
saggio e sapeva fare di tutto, anche le fionde con le quali i ragazzi-monelli
colpivano i colombi, i passeri e i merli.
Un giorno due militi gli perquisirono l' officina e la casa accusandolo di
aver aiutato un giovane del paese a nascondere dei volantini contro il Duce
nella canna della bicicletta.
Quel giovane fu arrestato al confine con la Francia e poi fu condannato a
dieci anni di galera. Bàroli fu invece assolto per insufficienza di
prove. Il Signor Calisto, una sera, riuniti tutti i capifamiglia e
ribadita la stima nei loro confronti, avvisò che c' erano nuove leggi da
rispettare e ammonì: "nella mia cascina si lavora, non si fa politica".
Rientrati tutti senza parlare nelle case, il padre di Bepi disse
soltanto: "Non c' è più libertà, ragazzo mio".
Pure il vento di guerra iniziò presto a soffiare quando il grande campo
coltivato a mais fu trasformato in campo di aviazione e a scuola gli scolari
fecero le prove col moschetto.
"La guerra che il maestro Bianchi voleva farci amare per la grandezza
dell' Italia aveva distrutto le nostre vite". Decimata la popolazione per gli
effetti del conflitto bellico e sostituito con le macchine il lavoro dei cento
contadini, il cuore della grande cascina del Lazzaretto non batte più.
Il finale del testo è triste e riflette l' angoscia di Mario Lodi per la
scomparsa della civiltà contadina. Poiché pero, come spero di aver dimostrato,
le pagine del libro comunicano memorie e valori, voglio riandare, in
conclusione, a un' attività del tempo di pace: l' allevamento dei bachi da seta.
A Primavera, per nascere dalle uova depositate dalle farfalle, i bachi avevano
bisogno del caldo tiepido e continuo dei focolari, cui attendevano le donne, e
di molte foglie che i bambini si premunivano di staccare dai gelsi con
rifornimenti plurigiornalieri.
Ma i bachi mangiavano, crescevano e chiedevano spazio.
Nei quaranta giorni che durava il loro sviluppo, poco alla volta, essi
occupavano tutta la casa obbligando le famiglie a trasferirsi sotto il portico
e/o sopra il fienile.
Se alla fine le cose andranno bene, confidò un giorno la mamma a Bepi,
"con i soldi dei bozzoli compreremo un lettino nuovo per te e una giacca per il
papà".
"E per te niente?" il figlio le chiese.
"A me basta quel che ho" rispose lei tranquilla.
Massimo Negri - Casalmaggiore (CR)