15 Settembre, 2002
Breve biografia di San Omobono ( ric. n. 58)
Omobono, santo, il diarista Gigli ricorda alla data 17 novembre 1613 la processione della Compagnia dei Sartori che portarono la reliquia
13 novembre Festa del Patrono di Cremona.
SAN OMOBONO confessore
Omobono, santo, il diarista Gigli ricorda
alla data 17 novembre 1613 la processione
della Compagnia dei Sartori che portarono
la reliquia di un suo braccio alla chiesa
a lui intitolata. Il resto, traslato in Roma,
venne solennemente portato da S. Giovanni
Battista dei Fiorentini a S. Omobono. La
reliquia, oggi non più posseduta, si esponeva
all’altare del santo nel giorno della sua
festa. Posta in una preziosa teca di cristallo
era formata da un osso lungo circa trenta
centimetri e due dita della mano stringevano,
forse in ricordo delle elemosine da lui operate,
tre monete d’argento. Canonizzato nel 1199,
il corpo del santo, si venera nella cripta
della cattedrale di Cremona.
13 novembre - A Cremona, in Lombardia, sant’Omobono
Confessore, il quale, illustre per miracoli,
dal Papa Innocenzo terzo fu ascritto nel
numero dei santi.
[ Tratto dall'opera «Reliquie Insigni e "Corpi
Santi" a Roma» di Giovanni Sicari ]
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Cremona, prima metà secolo XII - 13 novembre
1197
Oltre a essere patrono di Cremona, Omobono
Tucenghi è protettore di mercanti, lavoratori
tessili e sarti. Egli stesso, infatti, fu
commerciante di stoffe stimatissimo in città.
Era abile negli affari e ricco. Oltretutto
viveva solo con la moglie, senza figli. Ma
il denaro - nella sua concezione della ricchezza,
vista non fine a se stessa - era per i poveri.
La sua azione lo portò ad essere un testimone
autorevole in tempi di conflitto tra Comuni
e Impero (Cremona era con l'imperatore).
Quando morì d'improvviso, il 13 novembre
del 1197, durante la Messa, subito si diffuse
la fama di santità. Innocenzo III lo elevò
agli altari già due anni dopo. Riposa nel
duomo di Cremona. (Avvenire)
Patronato:Cremona, Mercanti, Lavoratori tessili,
Sarti
All’alba di un giorno d’autunno, in una chiesa
cremonese accade un fatto impressionante.
Un cittadino molto popolare e amato, Omobono
Tucenghi, è come sempre al suo posto per
partecipare alla Messa. Ma a un tratto lo
si vede impallidire, afflosciarsi, e chi
per primo cerca di soccorrerlo s’accorge
che è già morto. D’improvviso, senza un lamento,
senza soffrire. La morte serena che ognuno
si augura. "E che mastro Omobono si
meritava", devono aver aggiunto molti
intorno a lui, nella chiesa intitolata a
sant’Egidio (qui sotto, la scena rappresentata
in un Codice). Omobono Tucenghi, infatti,
è un uomo che, senza privilegi di nascita
o prestigio di funzioni, ha saputo diventare
nella sua città una “forza” solo per le doti
personali e l’esempio della sua vita. E’
un mercante di panni e negli affari è abilissimo.
Ormai lo circonda un rispetto universale,
anche con qualche cenno di compatimento:
lui e sua moglie, infatti, non hanno avuto
figli. Sono soli. Con tutti quei soldi che
il commercio ha portato loro, in quest’epoca
di vitalità straordinaria e turbolenta in
tante città italiane ormai passate all’autogoverno.
Ma nel pensiero di questi coniugi, e soprattutto
nel loro comportamento, c’è come un profumo
di Chiesa primitiva: possiamo dire che anch’essi
continuamente "depongono ai piedi degli
apostoli" denaro guadagnato col commercio,
come avveniva nella piccola comunità di Gerusalemme.
Non negli scritti e nemmeno in discorsi che
nessuno ci ha tramandato, ma con questi gesti
precisi e continui Omobono rivela la sua
chiara concezione circa il denaro che guadagna:
su di esso hanno precisi diritti i poveri.
Le monete sono mezzi d’intervento per il
soccorso alla miseria.
In tempi di rissa continua nelle città e
fra le città (Cremona, nel conflitto tra
Comuni e Impero, è schierata dalla parte
imperiale) si ricorre alla sua autorità per
arginare la violenza. E Omobono è pronto al servizio fraterno anche così:
con la parola contribuisce a rendere più
vivibile la città, con la parola inerme ma
autorevole, perché è lo specchio di una vita
grande.
Ecco perché la sua morte, avvenuta nel momento
in cui dall’altare s’intonava il Gloria,
ha scosso tutta la città. Non solo. Si sparge una voce insistente: mastro
Omobono fa miracoli! Cominciano i pellegrinaggi
alla sua tomba, il vescovo Sicardo e una
rappresentanza cittadina si rivolgono a papa
Innocenzo III. E questi canonizza Omobono
già il 13 gennaio 1199, a meno di due anni dalla morte. Un santo laico,
un santo imprenditore, un commerciante del
ramo tessile posto sugli altari già ottocento
anni fa. Proclamato patrono cittadino dal
Consiglio generale di Cremona nel 1643, sant’Omobono
è venerato anche come protettore dei mercanti
e dei sarti. Il suo corpo si conserva in
una cripta della cattedrale di Cremona.
Autore: Domenico Agasso
Fonte: famiglia cristiana
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MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II
A S.E. MONS. GIULIO NICOLINI, VESCOVO DI
CREMONA
NELL'VIII CENTENARIO DELLA MORTE DI SANT'OMOBONO
Al Venerato Fratello
GIULIO NICOLINI
Vescovo di Cremona
1. Il 13 novembre 1197 Omobono Tucenghi,
commerciante di stoffe in Cremona, chiudeva
la sua esistenza terrena contemplando il
Crocifisso, mentre partecipava, come era
solito fare
ogni giorno, alla Santa Messa nella chiesa
della sua parrocchia cittadina di sant'Egidio.
Poco più di un anno dopo, il 12 gennaio 1199,
il mio Predecessore Innocenzo III lo iscriveva
nel catalogo dei Santi, aderendo alla petizione
che il Vescovo Sicardo gli aveva rivolto,
recandosi pellegrino a Roma con il parroco
Osberto e un gruppo di cittadini, dopo aver
valutato le numerose testimonianze anche
scritte dei prodigi attribuiti all'intercessione
di Omobono.
Ad otto secoli di distanza, la figura di
sant'Omobono continua ad essere costantemente
viva nella memoria e nel cuore della Chiesa
e della città di Cremona, che lo venerano
quale loro Patrono. Egli è il primo ed unico
fedele laico, non appartenente alla nobiltà
o a famiglie reali o principesche, canonizzato
nel Medioevo (cfr A. Vauchez, I laici nel
Medioevo, Milano 1989, p. 84; La santità
nel Medioevo, Bologna 1989, p.340). "Padre
dei poveri", "consolatore degli
afflitti", "assiduo nelle continue
preghiere", "uomo di pace e pacificatore",
"uomo buono di nome e di fatto",
questo Santo, secondo l'espressione usata
dal Papa Innocenzo III nella bolla di canonizzazione
Quia pietas, è tuttora albero piantato lungo
corsi d'acqua che dà frutto nel nostro tempo.
2. Perciò ho appreso con vivo compiacimento
che Ella, venerato Fratello, ha stabilito
di dedicare alla sua memoria il percorso
di tempo che va dal 13 novembre 1997 al 12
gennaio 1999, denominandolo «Anno di sant'Omobono»,
da celebrarsi con peculiari iniziative spirituali,
pastorali e culturali, articolate nel cammino
di preparazione al Grande Giubileo dell'Anno
Duemila e nello spirito di comunione creato
dal Sinodo che la Diocesi ha recentemente
celebrato.
Pur così lontano nel tempo, Omobono ci appare,
infatti, un Santo per la Chiesa e la società
del nostro tempo. Non soltanto perché la
santità è una sola, ma per le caratteristiche
della vita e delle opere con cui questo fedele
laico ha vissuto la perfezione evangelica.
Esse trovano singolari riscontri con le esigenze
del presente, e conferiscono alla ricorrenza
giubilare un senso profondo di "contemporaneità".
3. Unanimi le testimonianze dell'epoca definiscono
Omobono "pater pauperum", padre
dei poveri. E' la definizione che, rimasta
nella storia di Cremona, riassume in un certo
modo le dimensioni dell'alta spiritualità
e della straordinaria avventura del mercante.
Dal momento della sua conversione alla radicalità
del Vangelo, Omobono diventa artefice e apostolo
di carità. Trasforma la sua casa in casa
di accoglienza. Si dedica alla sepoltura
dei defunti abbandonati. Apre il cuore e
la borsa ad ogni categoria di bisognosi.
Si impegna fortemente nel dirimere controversie,
che nella città lacerano fazioni e famiglie.
Esercita a piene mani le opere di misericordia
spirituale e corporale e, nello stesso tempo,
protegge l'integrità della fede cattolica
in presenza di infiltrazioni eretiche, con
il medesimo fervore con cui partecipa quotidianamente
all'Eucaristia e si dedica alla preghiera.
Percorrendo la strada delle Beatitudini evangeliche,
nell'epoca comunale in cui denaro e mercato
tendono a costituire il centro della vita
cittadina, Omobono coniuga giustizia e carità
e fa dell'elemosina il segno di condivisione,
con la spontaneità con cui dalla assidua
contemplazione del Crocifisso impara a testimoniare
il valore della vita come dono.
4. Fedele a queste scelte evangeliche, egli
affronta e supera ostacoli che gli provengono
sia dall'ambiente familiare, poiché la moglie
non condivide le sue scelte, sia da quello
parrocchiale, che considera con un certo
sospetto la sua austerità, e dal settore
stesso del lavoro, per la concorrenza e la
mala fede di alcuni, che cercano di ingannare
l'onesto mercante.Emerge così l'immagine
di Omobono lavoratore, che vende e compra
stoffe e, mentre vive le dinamiche di un
mercato che prende la via di città italiane
e europee, conferisce dignità spirituale
al suo lavoro: quella spiritualità che è
l'impronta di tutta la sua operosità.
Nella sua esperienza non v'è soluzione di
continuità tra le varie dimensioni. In ognuna
egli trova il "luogo" in cui esplicare
la tensione alla santità: nel nucleo familiare,
come sposo e padre esemplare; nella comunità
parrocchiale, come fedele che vive la liturgia
ed è assiduo alla catechesi, profondamente
legato al ministero del sacerdote; nel contesto
della città, in cui effonde il fascino della
bontà e della pace.
5. Una vita tanto ricca di meriti non poteva
che lasciare un solco profondo nella memoria.
E', infatti, ammirevole la perseveranza d'affetto
e di culto che Cremona ha conservato nei
confronti di questo suo singolare esponente,
scaturito proprio dal ceto popolare.
E' significativo che, nel 1592, la chiesa Cattedrale sia stata dedicata a lui insieme a Santa
Maria Assunta. E non è meno significativo
che a sceglierlo patrono della città, nel
1643, siano stati i membri del Consiglio
della Città stessa, tra l'esultanza, "l'immensa
allegrezza", le "lagrime di devozione"
del popolo. Un Santo laico, eletto come patrono
dai laici stessi.
Né è motivo di meraviglia che il culto di
sant'Omobono si sia diffuso in molte diocesi
italiane ed oltre i confini nazionali. E'
Omobono un Santo che parla ai cuori. Ed è
bello constatare che i cuori ne sentono l'amabile
attrattiva. Lo dimostra l'incessante accorrere
alle sue spoglie mortali, soprattutto, ma
non solo, nel giorno della sua festa liturgica,
e l'intensa devozione che gli riserva la
popolazione, memore delle grazie ricevute
e fiduciosa nell'intercessione dell'amato
"trafficante celeste".
6. Nell'anno giubilare la sua voce, per taluni
aspetti essenziali, parla con gli accenti,
come osservavo all'inizio, della "contemporaneità".
I tempi non sono più quelli di ottocento
anni fa. Alla canonizzazione di Omobono,
maturata nel clima e nelle procedure medioevali,
non possiamo attribuire il carattere di una
"promozione del laicato", nel senso
che noi diamo oggi a questo concetto.
E' vero, tuttavia, che proprio in questa
luce leggiamo l'avventura spirituale che
ha solcato la secolare storia cremonese.
Ed in questa luce riscopriamo il messaggio,
tuttora originale, dell'insigne Patrono.
Egli è pur sempre il fedele laico che, da
laico, si è guadagnato il dono della santità.
La sua vicenda assume un valore esemplare
come chiamata alla conversione senza restrizioni
di alcun genere e, quindi, alla santificazione
non riservata ad alcuni, ma proposta a tutti
indistintamente.
Il Concilio Vaticano II fa della santità
un elemento costitutivo dell'appartenenza
alla Chiesa, quando afferma che "tutti
i fedeli di qualsiasi stato o grado sono
chiamati alla pienezza della vita cristiana
e alla perfezione della carità" (Lumen
gentium, 40); e rileva che "da questa
santità è promosso, anche nella società terrena,
un tenore di vita più umano" (ibid.).
Proprio di questo abbiamo bisogno nella situazione
di inarrestabile transizione che stiamo vivendo:
ne abbiamo bisogno per sviluppare le premesse
positive presenti e rispondere alle gravi
sfide derivanti dalla profonda crisi di civiltà
e di cultura, che investe l'ethos collettivo.
7. La chiamata alla santità comporta e valorizza
l'essere e l'operare del laicato, come pure
insegna il Concilio ed io stesso ho ribadito
nell'Esortazione Apostolica postsinodale
Christifideles Laici.
Sulla filigrana di quest'ultimo documento
vedo avvicinarsi a noi e, in particolare,
all'oggi della Chiesa e della società cremonese,
la vicenda esistenziale di sant'Omobono.
Per intraprendere una nuova evangelizzazione,
infatti, "urge dovunque rifare il tessuto
cristiano della società umana. Ma la condizione
è che si rifaccia il tessuto cristiano delle
stesse Comunità ecclesiali" (Christifideles
Laici, n. 34).
I fedeli laici devono sentirsi pienamente
coinvolti in questo compito, con i peculiari
carismi della "laicità". Le situazioni
nuove, sia ecclesiali che sociali, economiche,
politiche e culturali, reclamano con una
forza del tutto particolare la loro specifica
partecipazione (ibid, n. 3).
8. E' una felice coincidenza che la celebrazione
giubilare di questo "Santo della carità"
venga ad inserirsi nella conclusione dell'ultimo
decennio del nostro secolo, che la Comunità
ecclesiale in Italia ha consacrato al programma
"Evangelizzazione e testimonianza della
carità".
Come scrivevo ancora nella Christifideles
Laici, la carità nelle sue varie forme, dall'elemosina
alle opere di misericordia, "anima e
sostiene un'operosa solidarietà attenta alla
totalità dei bisogni dell'essere umano"
(n. 41). Essa è e sarà sempre necessaria,
da parte dei singoli e delle Comunità. E
"si fa più necessaria quanto più le
istituzioni, diventando complesse nell'organizzazione
e, pretendendo di gestire ogni spazio disponibile,
finiscono per essere rovinate dal funzionalismo
imperante, dall'esagerata burocrazia, dagli
ingiusti interessi privati, dal disimpegno
facile e generalizzato" (ibid.).
La sensibilità di Omobono stimola esemplarmente
ad aprirsi all'intero orizzonte della carità
nella varietà delle sue espressioni, oltre
quelle materiali: carità della cultura, carità
politica, carità sociale, in ordine al bene
comune. Un esempio tanto eloquente può efficacemente
contribuire a rasserenare l'attuale clima
politico e sociale, favorendo uno stile di
concordia, di reciproca fiducia, di impegno
partecipativo.
9. Sono particolarmente lieto che la celebrazione
dell'«Anno di sant'Omobono» si estenda a
tutto il 1998, secondo anno della fase preparatoria
al Grande Giubileo, dedicato specialmente
allo Spirito Santo.
La cara figura dell'antico mercante accompagni
dal cielo il provvidenziale evento. Invocato
con la profonda e tradizionale devozione
e con una fede sempre più consapevole, egli
ottenga a tutti i battezzati la fedeltà ai
doni dello Spirito, ricevuti soprattutto
nel sacramento della Confermazione. Ai fedeli
laici ottenga una più matura consapevolezza
che la loro partecipazione alla vita della
Chiesa "è talmente necessaria che senza
di essa lo stesso apostolato dei Pastori
non può per lo più raggiungere la sua piena
efficacia" (Apostolicam actuositatem,
10). A tutti i componenti della Chiesa cremonese
ottenga dal Signore l'ardore richiesto ai
nuovi evangelizzatori, chiamati nella stagione
post-sinodale ad essere veri testimoni di
fede, speranza e carità.
Con questi fervidi auspici, memore della
mia Visita pastorale a Cremona, nel giugno
1992, e del successivo incontro con quanti
sono venuti a Roma in pellegrinaggio, nel
novembre dell'anno scorso, a suggello del
Sinodo diocesano, imparto di cuore a Lei,
venerato Fratello, ai presbiteri, ai diaconi,
ai consacrati e alle consacrate, ai fedeli
laici, a ogni famiglia, a ogni parrocchia
e alla Città tutta un'affettuosa Benedizione
Apostolica.
Dal Vaticano, 24 Giugno 1997
IOANNES PAULUS II
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Sàan Mubòon pàader d'ì puarèt
di Agostino Melega
Per parlare di sant'Omobono, nel suo giorno
onomastico, ci avvarremo dei contributi di
due donne, Uliana Signorini Romanenghi e
Giovanna Gregori Maris, due scrittrici conosciute
e stimate dalla città, che hanno dedicato
negli ultimi anni pagine molto interessanti
alla figura del patrono di Cremona. Uliana
Signorini Romanenghi ha consegnato, infatti,
ai lettori amanti della cremonesità, quale
omaggio alla vicenda umana di Omobono Tucenghi,
un accattivante testo, intitolato: "San
Mubòon, el sàant de'l Turàs, mercàant e pàader
d'i puarèt" (Sant'Omobono, il santo
del Torrazzo, mercante e padre dei poveri).
Le pagine di questo scritto, stilato con
sensibilità ed amore, corrono nella cornice
linguistica di un moderno vernacolo urbano
che si alterna con l'invenzione linguistica
dell'ipotetico patois parlato da Omobono
Tucenghi fra le gente del suo tempo. L'abilità
della scrittrice ha portato al centro dell'attenzione
la specificità popolare di Omobono, di un
uomo semplice, di una sorta di inaspettato
"vicino della porta accanto finito sugli
altari". Di un laico divenuto santo
attraverso un modello di vita coerente, proposto
al lettore nel contesto del suo normale rapporto
di coppia, rapporto similare - con tutte
le varianti del caso - anche a tante coppie
del giorno d'oggi. Un uomo comunque santo
che, intinto e avvolto nella lingua locale,
ha saputo comunicare al mondo intero un modello
di comprensione dei "problemi dell'altro"
di spessore straordinario. Ha saputo parlare
in dialetto un linguaggio universale: anche
i santi, senza volerlo, sono Poeti. Un uomo
comune insomma che, giorno dopo giorno, in
punta di piedi, nel silenzio di minute azioni
concrete, è diventato un gigante nella storia
della carità. Ed è con l'orgoglio di sentire
il comune legame di cittadinanza, attraverso
il piacere di poter dire "è uno dei
nostri", che Sant'Omobono viene proposto
dalla maestra Uliana a guisa di naturale
simbolo della città; quale parametro di riferimento
del popolo fra le due sponde della Cremonella
del tempo che fu. Per confermarlo anche nel
tempo corrente come il referente massimo
d'identificazione comunitaria e quale testimone
perenne di un anelito di superiore saggezza:
l'anelito alla pace quale obiettivo ultimo
di qualsiasi dialettica politica e sociale.
"Se sa mìia quàan san Mubòon 'l è nasìit
- inizia così il testo dell'autrice - ma
se sa quàan l'è mòort: el 13 de nuèember
1197". Ancora bambino, impara a voler
bene al Signore, a riflettere sul Vangelo,
a pregare il Crocifisso e la santissima Vergine. "Sèemper de bòon cumàant cun i soo
de càaza, manimàan che'l crès el laurà cun
lùur in de la "mercatura" che l'éera
a chéi tèemp cunsideràat en mestéer de valùur".
Si pensa che cucissero gli abiti con le stoffe
che vendevano (fustagno) ed anche per questo
sant'Omobono sarà il santo dei sarti. "El
se fa 'n bèl e bòon giuinòt, de bùne manéere
cun toti e'l fa gràn carità a i pusèe puarèt.
In de ste butéega purò gh'è buzugn de gèent
fidàada e so pàader en dé 'l la ciàma".
Tornando al valore culturale dei segni di
un antico capodanno agrario, va ricordato
l'intreccio col ciclo calendariale della
vite. Il vino di san Martino "A san
Martéen l'ua la divèenta véen". A san
Martino si concludeva un processo formato
da una serie di atti quasi rituali, per non
dire sacrali, che avevano accompagnato la
vita della piantagione della vite e la vendemmia,
dove la tradizione di una millenaria fatica
portava a compimento annualmente il magico
dono del vino, segno da sempre dell'amicizia
fra gli uomini, e del legame fra gli uomini
e gli dei, così come dei cristiani con Dio.
Una simbologia ed un rimando che pagine memorabili
della cultura greca e del Vecchio e del Nuovo
Testamento ci attestano. A san Martino, insomma,
"se spinàava el vèen nof". Lo si
inaugurava, con amici e parenti, col rito
della "prìma tastàada". E non è
difficile immaginare che in quel momento
tutti concordassero col parere di Francois
Rabelais, vale a dire che il bere vino non
è ingurgitare un liquido per saziare semplicemente
la sete. "Il vino - diceva infatti il
grande scrittore francese - ha il potere
di riempire l'anima di ogni verità, di ogni
sapere, di tutta la filosofia". Non
a caso il vino eccellente viene definito
in cremonese "véen che foma l'ànima".
Così come viene definito una sorta d'ambrosia
il liquido che lega la vita dell'uomo in
tarda età strettamente alla vigna, come se
questa fosse una seconda madre dispensatrice
d'energia. Infatti il detto afferma categoricamente:
"el véen 'l è el tetéen d'i véc"
(il vino è il latte dei vecchi). L’estate
di san Martino Attorno all'undici di novembre,
sul piano meteorologico, è sempre previsto
una sorta di sospensione dell'andamento stagionale,
con l'autunno che pare fermarsi per ricordare
il tempo appena passato, come per dare più
valore agli atti degli uomini e delle donne
desiderosi di arrestare la luce che piano
piano si sta spegnendo nelle giornate sempre
più corte. Ecco allora un altro dono, consistente
nell'ultimo tepore dell'anno, con la previsione
marcata dal proverbio: "L'estàat de
san Martéen la duura trìi dé e 'n tucheléen".
Ed è pure evidente il senso del convincimento
del regalo della "piccola estate"
nel proverbio che ci assicura che "San
Martìin sèca toti i strasulìin", ricordatoci
dal critico Sergio Torresani in uno dei suoi
preziosi lavori nel vernacolo di Casalbuttano.
Le disdette nelle cascine Nemmeno va dimenticata
la traccia di un antico capodanno rurale,
spogliato però e denudato dei segni della
festa, che si può individuare nell'espressione
"fàa sanmartéen"; espressione caduta
e depositatasi nel comune significato che
indica oggi il trasloco da una casa all'altra,
senza più alcun riferimento però alla data
del calendario e della ricorrenza di san
Martino. "Fare san Martino" significa
semplicemente fare trasloco né più né meno.
Ma quando il modo di dire era strettamente
connesso alle "dizdéte de san Martéen",
ossia legato ai licenziamenti dei contadini
e dei salariati dell'agricoltura, allora
l'espressione era accompagnata dalla crudezza
di un quadro di lacerante squilibrio sociale
e da uno scenario che oggi potremmo avvicinare
a quello dei regni della povertà diffusi
al di là dell'Occidente. Le campagne della
Valpadana si popolavano in quel giorno, per
san Martino, alla conclusione del ciclo agrario
e alla scadenza dei contratti, di lunghe
teorie di carri pieni del silenzio della
gente della terra; di gente semplice e buona
che con le proprie scarse masserizie si portava
verso il sole di un nuovo lavoro, di un nuovo
incarico, di un nuovo ciclo annuale, con
la speranza di fermare prima o poi quella
vita itinerante, mai ferma, segmentata nei
rapporti, nei legami, negli affetti. Alla
fine degli anni Cinquanta, migliaia di famiglie
contadine cremonesi furono protagoniste di
un ultimo e risolutivo san Martino e fu la
stagione della lacerazione delle radici con
la cascina, nell'amaro miraggio che il sole
della speranza e della stabilità albergasse
nel mondo delle fabbriche a Milano, a Lecco,
a Varese, Torino. Ed oggi, da anziani, molti
di questi migranti ritornano nei paesi della
giovinezza, a pronunciare le ultime loro
parole nel dialetto dei ricordi più sentiti
e provati; ritornano a parlare nella lingua
dell'anima e del sangue e par che dicano,
con le parole del poeta Gino Olzi: "Tegnùmel
de càt el nòst' parlàa:/ l'è 'na ròba amò
che sèent de bòon;/ l'è cùme 'na surtìa de
àaqua ciàara".
** materiale raccolto ed organizzato da Gian
Carlo Storti, Cremona 25 novembre 2006
 
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