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 Storia Cremonese

15 Settembre, 2002
Un giorno a Pozzaglio di Giacomo Bazzani
Ricordo che era una domenica, 14 settembre 1997; faceva un freddo cane.

Un giorno a Pozzaglio
Scritto da Giacomo Bazzani • martedì 24 aprile 2007
Ricordo che era una domenica, 14 settembre 1997; faceva un freddo cane. Chi scrive era allora un assessorucolo di un paese alle porte di Cremona, Castelverde, ed era stato invitato alla commemorazione di un partigiano di Pozzaglio, Luigi Ruggeri detto “Carmen”.

Gente poca, età media dai cinquanta ai sessant’anni, e forse sarà stata la giornata climaticamente triste ma mi venne spontanea una domanda.
Perché una delle pagine più gloriose della nostra storia viene così clamorosamente dimenticata, ignorata, o alla meno peggio trattata con sufficienza, al di là delle commemorazioni ufficiali che ormai sanno di rito vecchio e stantio?

La risposta, oggi come allora, mi pare ovvia: uno dei malcostumi più diffusi degli italiani è quello di non avere “memoria storica”, di essere sempre pronti ad infiammarsi per qualcosa, salvo poi farci l’abitudine e non riconoscere più i motivi dell’iniziale esaltazione, di essere sempre o “troppo” o “troppo poco”.
Inoltre si manca completamente di quello che gli storiografi chiamano “senso della storia”, ovvero il giudizio obiettivo e distaccato che necessita non solo lo studio ma anche il semplice discorrere del passato e dei suoi avvenimenti. Provate a farci caso: quando si giudica un fatto storico lo si fa quasi sempre con la mentalità, il costume ed il “senso comune” del presente, prendendo in questo modo fischi per fiaschi.

Naturalmente questo succede anche per la Resistenza.

Un esempio per tutti: la storia, che ogni tanto rispunta, dei partigiani colpevoli “oggettivamente” della strage delle Fosse Ardeatine in quanto autori dell’attentato di via Rasella e responsabili quindi della reazione della Gestapo.
L’accusa, per chi conosce veramente l’evolversi dei fatti, è assolutamente inconsistente.
Innanzitutto perché non si dovrebbe mai dimenticare che allora c’era una cosuccia in giro che si chiamava “seconda guerra mondiale”, e giudicare un fatto che si inseriva nella diabolica spirale della guerra, per di più civile come la nostra, in modo così superficiale ci fa immediatamente pensare con scarso ottimismo ai neuroni di chi sostiene questa tesi.
Poi, per entrare nel merito, la reazione nazifascista all’attentato è stata immediata; la strage delle Fosse Ardeatine è avvenuta il giorno dopo solo perché anche per l’efficientissima Gestapo non doveva essere così semplice rastrellare ben 335 persone, e comunque nessuno aveva chiesto ai gappisti romani di presentarsi per evitarla.
Infine, anche se una simile richiesta fosse stata fatta, il dovere dei gappisti era di respingerla perché il movimento partigiano non avrebbe potuto accettare un simile ricatto a meno di rinunciare alla lotta.

Per rispondere alla domanda iniziale, credo proprio che la mancanza di questo “senso della storia” tipico del popolo italiano sia il motivo principale del disinteresse sulla Resistenza (ai quali seguono naturalmente tutti gli altri: non ultimo il colpevole limbo in cui è stata confinata da una classe dirigente logica conseguenza di quest’humus popolare).

Ma non c’è solo un disinteresse sul periodo storico della resistenza, c’è anche, ed è naturalmente più grave, su quello che ha rappresentato per il nostro paese e sui valori che ci ha tramandato, che sono molteplici ma che possono essere ricondotti a tre grandi categorie.

Un valore STORICO-MILITARE innanzitutto.
E’ del tutto evidente che la Resistenza armata non ha liberato, da sola, il territorio nazionale, e che senza l’intervento alleato sarebbe stata molto probabilmente inutile, considerata la disparità di forze in campo.
Però è stata una lunga battaglia di retrovia; con un duro e certosino compito di logoramento. Non solo perché nel periodo di massima espansione, nell’estate del ’44, le divisioni partigiane con i loro 70.000 e passa combattenti tengono impegnate 5 o 6 divisioni tedesche, ma soprattutto perché mettono in crisi la macchina militare della Wehrmacht, i suoi rifornimenti ed il suo morale.
Inoltre l’esercito partigiano non può essere considerato a se stante ma va inquadrato nella Resistenza europea. Paragonato agli altri, soprattutto jugoslavi, francesi e polacchi, rappresenta un grande e complesso apparato militare, il secondo in Europa.
Quello di gran lunga più forte è l’esercito partigiano jugoslavo; riesce a mettere in campo, favorito dalle particolari condizioni del terreno e dall’appoggio totale delle popolazioni contadine, qualcosa come 200.000 combattenti.
Ma dopo di loro ci siamo noi! L’esercito partigiano francese si limita per parecchio tempo ad attività meramente di sabotaggio ed evita accuratamente, a differenza di quello italiano, gli scontri armati.
Quello polacco è fortemente limitato nella sua azione dalla profonde divisioni tra il governo in esilio a Londra e quello che sta presso i sovietici. Gli altri sono numericamente di gran lunga inferiori.

Un valore NAZIONALE.
La guerra partigiana non è una novità nella storia italiana; per esempio, ci sono state le resistenze armate nella Sabaudia invasa dai francesi; oppure le guerre di religione; alcuni storici sostengono che è stata guerra popolare anche quella del brigantaggio dei contadini meridionali contro l’unificazione “piemontese”.
Ma è dai tempi delle alleanze comunali contro il Barbarossa, oggi ignobilmente accaparrate come simbolo dai leghisti, che non si vede una mobilitazione così spontanea e massiccia di forze popolari, una guerra senza cartolina precetto, senza polizia e carabinieri, “l’unica guerra giusta” per dirla con Don Lorenzo Milani. Guerra popolare e guerra democratica.
Le società che nascono o che si rinnovano hanno bisogno di una legittimità, quelle che si impongono per regali altrui non sono destinate, la Storia lo dimostra, a grandi fortune.
La Resistenza rappresenta la legittimità della Repubblica Democratica, il prezzo del biglietto per il viaggio di sola andata verso la Democrazia.
Può anche essere, anzi è sicuramente vero, che la guerra in Italia, con o senza la Resistenza, avrebbe avuto lo stesso epilogo, ma, senza la Resistenza, sarebbe stata indubbiamente più lunga, con tutto quello che ciò avrebbe comportato in termini di sacrifici e tragedie umane, e soprattutto la Repubblica non sarebbe mai nata o sarebbe nata profondamente diversa.

Infine un valore POLITICO e SOCIALE.
E’ vero che fallisce, nonostante l’accesissimo dibattito politico di quegli anni (perché oltre a combattere si elaborava anche) l’ipotesi di una autonoma politica resistenziale basata sui CLN quali organi di governo democratico e riformatori di uno Stato corrotto e tradizionalista.
Fallisce per diversi motivi: per il “conservatorismo” dei comunisti prigionieri della politica staliniana di divisione del mondo in blocchi di influenza; per l’estremismo dei socialisti che vorrebbero tutto e subito con la conseguenza di non ottenere niente; per l’ambiguità dei democristiani, rivoluzionari a parole ma profondamente legati ad un conservatorismo di stampo populista; per la “disperata intransigenza” degli azionisti, intellettuali e professori fino al midollo ed incapaci di incanalare e imporre le nuove idealità rivoluzionarie di cui erano paladini.
Ma nonostante questo fallimento, si impone comunque una politica repubblicana e istituzionale che si concretizzerà nella Costituzione, forse troppo avanzata per i tempi, per alcuni aspetti anche utopica, ma utile a sostenere come uno scudo una democrazia che per forza di cose nasceva fragile.
E sempre sul terreno politico-sociale la resistenza aiuta la rinascita dei grandi partiti popolari della sinistra; è l’occasione sia per i comunisti che per i socialisti di riprendere i contatti con le masse contadine ed operaie e di formare quei quadri che, nel bene e nel male, reggeranno i due partiti nei duri anni della Guerra Fredda, creando intorno ad essi un cordone di solidarietà che consiglieranno alla Democrazia Cristiana, l’altro grande partito popolare, prudenza, e che costringeranno la destra, da sempre “eversiva” e con pruriti golpisti, ai margini della politica.
La Resistenza fallisce quindi come tentativo di creare uno Stato nuovo; in parte per il peso e la forza del vecchio Stato rimessosi o fatto rimettere in sella dopo la Liberazione, ed in parte per le sue deficienze culturali.

Ma come ha onestamente riconosciuto Pietro Secchia, vice segretario del PCI negli anni ’50 (ed i detrattori di Togliatti, tra cui chi scrive, vedono in questo la prova provata del “conservatorismo” della classe dirigente comunista), lo scopo principale della Resistenza non era quello di fare uno Stato nuovo, ma di fare uno Stato migliore.
E qualcosa di migliore in effetti è nato, ed è proprio questo il motivo per cui la Resistenza rappresenta un passaggio indimenticabile della storia italiana.

La guerra popolare in cui contadini, operai, studenti, impiegati, imprenditori, sacerdoti e atei combattevano fianco a fianco ha completamente demolito arcaiche divisioni sociali, ha aperto la strada ad una consapevolezza egualitaria, ha creato uno straordinario reticolo di interessi, amicizie, anche solo memorie comuni a persone di ogni estrazione.
Per qualche mese il “Vento del Nord” ha vinto i vecchi mostri italiani, il militarismo, il clericalismo, il servilismo, la rassegnazione fatalistica, e qualcosa è definitivamente cambiato nel costume nazionale, un certo tipo di italiano “suddito e non cittadino” è scomparso per sempre.

La Resistenza sta all’Italia come la Rivoluzione Francese sta alla Francia.
E come nella Francia repubblicana e napoleonica i rivoluzionari si cercavano, si riconoscevano e si aiutavano, così si può dire che i partigiani per alcuni decenni sono stati, nei partiti e nella società, il muro portante della Democrazia; la forza più viva e impegnata di rinnovamento.
Il loro inevitabile reducismo e retoricismo si è contenuto in limiti tutto sommato accettabili, la cultura storica prodotta è tra le più abbondanti e partecipate, e le pagine di storia nazionale altrettanto degne non sono poi così numerose.

E’ il momento del grido di battaglia che speriamo risuoni nelle coscienze di tutti i veri antifascisti.
“Possono dire e disdire, fare e disfare, rompere e corrompere, ma la parola d’ordine è sempre la stessa: ORA E SEMPRE RESISTENZA”

fonte: http://www.radicalsocialismo.it/

 


       



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