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 Storia Cremonese

15 Settembre, 2002
Presentato il libro sul Palazzo Comunale di Cremona
Gian Carlo Corada, più professore che Sindaco, tiene una *lectio magistralis* in una Sala Quadri gremita di cremonesi attenti

Autorità, signore e signori,

buongiorno a tutti.

Mi é stato chiesto (ed ho volentieri accettato) di presentare questo libro illustrando il contesto storico entro cui si colloca la fondazione e la costruzione del nostro Palazzo.

Non é facile, per svariati motivi: la vastità del possibile argomentare e, al contrario, la relativa scarsità della documentazione fino a noi pervenuta da quel periodo.

***

Il Duecento, scrive Franco Cardini, "fu uno dei più grandi secoli della storia europea, fondamentale nella costruzione dell'identità del continente".

E' il secolo di Federico II, del confronto (dialogo e scontro) con il mondo arabo, del consolidarsi degli studi scientifici e filosofici, grazie soprattutto ai libri degli antichi sapienti greci ed a nuovi studi, che erano pervenuti nel secolo precedente e continuavano a pervenire dal mondo islamico.

La gente si muoveva più di quanto oggi comunemente immaginiamo. Nonostante pericoli e difficoltà d’ogni genere, pellegrini e mercanti percorrevano in lungo ed in largo le strade d’Europa, per recarsi a Roma e a Gerusalemme gli uni, per scambiare merci anche a grandi distanze gli altri. Missionari, diplomatici ed ancora mercanti (pensate a Marco Polo, certo il più famoso) si spingevano ovunque.

E' un secolo di grandi sconvolgimenti, in Italia e nel mondo.

Proprio nel 1206 Francesco d'Assisi rinuncia ai beni terreni e si dedica interamente a Dio. Ed ognuno sa cosa hanno rappresentato Francesco ed il francescanesimo per l'Italia e la cristianità.

Ma é anche l'anno in cui nasce l'Ordine dei domenicani e si prepara la feroce crociata contro gli albigesi, per reprimere l'eresia catara.

L'Europa é diversa da come ce l'immaginiamo quando pensiamo al Medioevo. La Prussia, ad esempio, é ancora pressoché interamente pagana, e proprio ai primi anni del '200 partono dalla Polonia i primi missionari evangelizzatori.

La Russia é un pulviscolo di Principati.

L'Impero di occidente instabile e dilaniato da conflitti interni.

L'Impero di Bisanzio, autocratico ed oppressivo, subisce, proprio all'inizio del '200, un trauma dalle gravi conseguenze.

Proprio due anni prima della fondazione del Palazzo comunale, nell'aprile 1204, i partecipanti alla Quarta Crociata, spinti da Venezia, avevano occupato e saccheggiato Costantinopoli, approfondendo il solco tra cristianità d'oriente e d'occidente e dando impulso ad uno straordinario commercio di reliquie e di oggetti preziosi in tutta Europa.

L'effimero Impero latino di Costantinopoli avrà vita travagliata e breve, ma contribuirà a far conoscere di più da noi l'arte e la cultura greca ed orientale.

Nell'estremo oriente intanto, in Mongolia, proprio nel 1206 Temüjin viene proclamato Khan ed assume il nome di Gengis Khan. Sotto la sua guida le tribù mongole si uniranno e fonderanno uno dei più grandi e fragili Imperi della storia, col quale cercherà, assai vanamente peraltro, di colloquiare l'Occidente per contenere la spinta araba e poi, soprattutto, turca.

Il Duecento é anche il grande secolo d'inizio della letteratura in lingua italiana, con le "laudi" (canti di carattere popolare, il cui 'corpus' dugentesco costituisce uno dei più antichi monumenti della letteratura e della musica in Italia), la poesia siciliana e toscana, i canti popolari e giullareschi.

E' il secolo in cui, nonostante la poesia cortese idealizzasse la figura femminile, la condizione reale delle donne non migliora molto rispetto ai secoli precedenti. Sempre sottomessa al marito-padrone, anche nelle classi elevate, dove pure le condizioni di vita e dignità per le donne erano migliori. E' stato calcolato che nei ceti medio-alti la coabitazione fosse impossibile da un terzo alla metà, in media, dell'intero periodo matrimoniale, a causa di lontananze del marito per guerre, missioni diplomatiche o affari. Nei ceti bassi il problema era semplicemente quello della sopravvivenza, della fatica, della sottomissione.

***

Per Cremona, il Duecento sarà soprattutto il secolo di Federico II, l'"onor di Svevia", "stupor mundi", il "sultano battezzato" secondo i nemici. Cremona fu a lui sempre "fidelissima"e l'Imperatore alla città molto legato, fors'anche perché, all'inizio della sua straordinaria avventura, nel viaggio che lo portò, a diciotto anni, da Roma in Germania per rivendicare la corona imperiale, furono proprio i Cremonesi a salvarlo dalle mani dei Milanesi che stavano per catturarlo. "Federico bagnò il fondo delle braghe nel fiume" scrisse con disprezzo un cronista di parte avversa. I Cremonesi, comunque, lo portarono in salvo al di là del Po, evitandogli forse la morte, certo la prigionia.

Con lui Cremona visse momenti di gloria, come quando, dopo la battaglia di Cortenuova (1237), il Carroccio dei Milanesi sconfitti venne fatto sfilare per la città, con i prigionieri incatenati al seguito, trainato da un elefante sormontato da una torre con le sfavillanti insegne imperiali.

Con Federico II, Cremona sarà ad un passo dal tornare ad essere quella che era stata col nonno, Federico I, dopo la distruzione di Milano (1162): la città più potente della Lombardia.

All'epoca della costruzione del Palazzo comunale, però, la distruzione di Milano é lontana e Federico II ha solo 12 anni!

Certo Cremona era, comunque, al momento della costruzione del Palazzo, città potente e ricca.

Il Po favoriva i commerci e Cremona, con la sua posizione strategica, ne godeva i frutti.

Anche la produzione era fiorente: a lungo Cremona mantenne un primato indiscusso nell'industria dei panni di fustagno e nella lavorazione del lino.

La potenza economica si traduce quasi sempre, nella storia, in potenza politica e militare.

L'alleanza con Federico Barbarossa e la distruzione di Crema e di Milano l'aveva portata ad essere la città più potente della Lombardia.

Ancora oggi gli storici si interrogano sul perché, nel giro di un trentennio, con la ricostruzione di Milano, abbia perso questo primato, rimanendo comunque, potremmo dire, una "media potenza" del tempo, in grado ancora di rivaleggiare con Milano per la supremazia in Lombardia e Nord Italia.

***

Il Palazzo comunale viene dunque edificato, si é praticamente sicuri, nel 1206.

Lo attesta chiaramente Alberto de Bezanis nella sua "Cronica", riferendo che in quell'anno "palatium comunis Cremonae fuit inceptum", lo ribadiscono gli "Annales Cremonenses" ed é scritto sulla lapide che ancor oggi si può vedere sulla facciata. Traduco: "Al tempo del signor Giacomo De Bernardo, cittadino bolognese, Podestà di Cremona, si costruì questo edificio". E la data: anno domini 1206.

Il Comune a Cremona, come istituzione, esisteva già da più di cent'anni.

Il più antico documento che attesta, secondo gli storici, l'inizio della prima età comunale, quella dei Consoli e dei Consigli che li eleggevano, é del 1097, quando il "Comunem civitatis" di Cremona viene investito dell'Insula Fulcheria.

Le riunioni dei Consigli, il “maggiore” ed il “minore”, e dei Consoli si tenevano prevalentemente in Cattedrale.

Si discute ancora, tra gli storici, sulle caratteristiche dell'associazione che diede origine, tra l'XI ed il XII secolo, ai Comuni, intesi come risultato di un patto giurato ("conjuratio") fra abitanti di un centro urbano, patto che non riguardava, sul piano degli impegni contratti e dei relativi poteri decisionali, tutti gli abitanti di quei centri, bensì solo alcuni: di solito le famiglie più ricche e potenti, che si stringevano attorno al Vescovo-Signore.

Mentre Oltralpe, però, fin dall'inizio ebbero un ruolo decisionale mercanti ed artigiani, in Italia ed a Cremona per lungo tempo la vita cittadina fu egemonizzata da coloro che detenevano contemporaneamente il potere delle armi e la proprietà delle terre: i "milites", i cavalieri.

E ciò fu fonte di infiniti contrasti!

Le famiglie dei "milites", rafforzate da alleanze matrimoniali con ceti socialmente più modesti ma economicamente più forti, monopolizzarono saldamente il potere cittadino.

Ma mercanti, banchieri ed artigiani, a lungo subalterni, si organizzarono in "universitates" (o "societates", "consortii", "fraternitates", "confratriae", "scholae", o "arti" o anche "gilde" nel centro-nord Europa: questi i nomi corretti di quelle che impropriamente chiamiamo "corporazioni") ed imposero anche agli altri di iscriversi ad una “arte” e di assoggettarsi dunque alla disciplina “corporativa” e lottarono per riformare le istituzioni comunali in modo che fossero l’espressione diretta delle varie associazioni.

Le resistenze dei “milites” a questi tentativi causarono scontri e grandi contrasti.

Naturalmente lo scontro tra “milites” e “populares” (così si chiamarono i rappresentanti dei ceti che potremmo definire imprenditoriali) non ha nulla di simile, o ben poco, nonostante il nome (“populares”) alle lotte otto-novecentesche fra i ceti popolari ed i detentori del potere e della ricchezza.

Le “universitates” tutelavano gli imprenditori, impedendo gli effetti distruttivi della concorrenza ed imponendo regole, ma certo non i lavoratori subalterni né tantomeno i consumatori.

Tant’è vero che nel secolo successivo, il Trecento, secolo di grandi crisi (favorite anche da terribili carestie, epidemie, guerre), vi furono ovunque feroci rivolte dei ceti più modesti e deboli della società urbana (piccoli artigiani, operai, lavoratori a giornata ecc), altrettanto ferocemente represse.

Da queste crisi nacquero Oltralpe i moderni Stati assoluti, da noi le Signorie ed i Principati, mentre l’arte e la letteratura riflettevano un senso d’incertezza ed instabilità e poi diffusero risposte di assolute verità e di fermissime convinzioni.

***

Quello che si apre con la costruzione del palazzo comunale é dunque per Cremona un secolo travagliato: il governo comunale, passato dai Consoli ai Podestà (gli storici indicano convenzionalmente il 1183 come anno di passaggio del Comune dal regime consolare a quello podestarile ma, a Cremona, come vedremo, il passaggio fu particolarmente travagliato), evolverà sempre più verso forme di potere personale; ma soprattutto é il secolo, la prima parte almeno con la fine di quello precedente, in cui la concordia civile, che mascherava l'egemonia di fatto del patriziato, viene meno, scossa dalle lotte, spesso violente, tra "milites" e "populares".

Meno di venti anni prima era stata terminata la costruzione della nuova cinta di mura, che includeva sia la Città Vecchia (abitata e dominata stabilmente dal patriziato, dai "milites") che la Città Nuova, attorno a S. Agata (chiesa dotata, non a caso, di identità spirituale e giurisdizionale particolari), borgo fino ad allora esterno alle mura. Questo quartiere, nato come accampamento nei lontani periodi bizantino e longobardo, era cresciuto nel corso dei secoli grazie soprattutto alla presenza di artigiani e ad un commercio fluviale molto vivace.

Anche se documenti del 1209 dimostrano che vi erano "milites" in Cittanova e mercanti nella Città Vecchia, la divisione topografica era anche divisione sociale e politica: da una parte soprattutto il patriziato, dall'altra i nuovi ceti mercantili, rappresentati nella “Societas populi”.

L’unificazione della città entro le mura non portò affatto alla pacificazione, anche se la divisione non era più materializzata dall’antico muro di cinta ma solo da un piccolo corso d’acqua, la Cremonella.

Addirittura, cinquant’anni esatti dopo la prima pietra di questo Palazzo, nel 1256, i “populares” costruirono il loro Palazzo comunale, che ancora si conserva, il Cittanova appunto.

La presenza di governi separati per ciascuna delle due parti della città è una realtà per buona parte del Duecento, mitigata nel periodo di Federico II dall’autorità di questi e dalla fedeltà a lui da parte dei maggiorenti di entrambi i partiti e conclusasi (più o meno) nel 1270 con un compromesso che portò in sostanza all’accettazione delle istanze dei “populares” ed alla condivisione del potere con loro da parte dei patrizi.

Ma negli anni dell’edificazione di questo Palazzo lo scontro fu aspro, con vittime e violenze da una parte e dall’altra. Le cronache cremonesi del tempo parlano addirittura di guerra civile: “civile sturmum sive bellum”.

A lungo vi furono due Podestà, indicati dalle due fazioni in lotta, in un periodo di turbolenze anche istituzionali: a Cremona vi furono molte incertezze e tentennamenti nella sostituzione del sistema podestarile a quello dei Consoli, qualche ritorno indietro, e solo nel 1233, grazie all’autorità di Federico II, si stabilizzerà la scelta del Podestà, forestiero ed unico.

Questa interminabile esitazione cremonese ad allinearsi al regime del governo podestarile, che nel frattempo si era imposto in tutti gli altri Comuni, ad eccezione di Milano, si spiega proprio in buona parte con la discordia civile particolarmente accentuata di cui abbiamo parlato: ognuno dei due partiti sospetta che il Podestà forestiero ed unico favorisca l’altro e cerca, dal canto suo, di impadronirsi del maggior numero possibile di leve del potere. La ricorrente scissione in due Comuni indipendenti è la conseguenza di tale condotta.

***

Ma gli storici hanno individuato anche un altro motivo per spiegare la riluttanza cremonese ad accettare il Podestà forestiero ed unico. Non a caso, dicono, sono i due Comuni più potenti del Nord, Cremona e Milano, a mostrare tali titubanze. Prima di tutto, le loro posizioni dominanti nei rispettivi sistemi di alleanze permettono a Cremona e Milano di fornire alle città alleate Podestà senza contropartita. Ma soprattutto, i gruppi dirigenti di questi due Comuni, pur divisi e contrapposti, hanno maturato una cultura di governo più avanzata di quella degli altri Comuni.

Non dobbiamo farci trarre in inganno dalle discordie e dalle violenze, che potrebbero dare l'immagine di una città paralizzata ed inattiva! La città é vivacissima: la "piazza maggiore" ed i vicoli attorno sono sempre pieni di gente, per le feste, i riti religiosi, i grandi eventi straordinari (l'arrivo di personaggi illustri, i "trionfi" ecc.) ma anche per la vita quotidiana, con botteghe e banchetti dappertutto (anche sotto i portici della Cattedrale). La gente viene dal contado, dalle altre città, da paesi stranieri. Si mescolano mercanti, pellegrini, prostitute, miserabili, giocolieri, soldati. Le guerre sono degli intervalli ricorrenti, in qualche modo previsti ed accettati. I maggiorenti della città sanno fare il loro dovere: regolano e controllano, ma permettono tutto ciò che favorisce la ricchezza e lo sviluppo della città.

Lo dimostra l’organizzazione dell’Amministrazione comunale, come risulta dallo studio di ciò che resta del ricchissimo Archivio (diviso in due: i documenti più antichi e preziosi in Cattedrale, il resto in Palazzo comunale). Non dimentichiamo che il Comune, allora, era di fatto ed in buona parte di diritto, un piccolo Stato, che batteva moneta, prelevava le imposte, aveva una politica estera ecc.

Gli uffici comunali di quegli anni producevano una quantità impressionante di scritture, preparate da decine di scrivani. Migliaia di pagine, ben classificate, utilizzabili e consultabili.

Proprio negli anni di costruzione del Palazzo si passa dall’utilizzo caso per caso degli specialisti necessari all’amministrazione alla dotazione di servizi amministrativi permanenti, per la manutenzione di strade, lavori pubblici, polizia, zecca, gestione dei beni comunali, rifornimenti ecc.

A parte i Podestà (e, prima, i Consoli) e pochi altri, non c’è una distinzione rigida tra (per usare termini di oggi) amministratori e dirigenti. I capi degli uffici erano cittadini scelti dai Consigli, cittadini che a rotazione (quasi mai per più di un anno, ma con possibilità di reiterazione), con una remunerazione, ricoprivano a tempo pieno questi ruoli. Al termine del periodo poteva esserci un sindacato del loro operato, obbligatorio per le magistrature finanziarie.

Erano cittadini istruiti, con una certa precedente esperienza negli affari pubblici (maturata in genere nelle “societates”), di solito proprietari di terre e talvolta di signorie o dediti ai commerci o al maneggio del danaro (dalla banca all’usura). Quasi tutti pronti anche, spessissimo, ad esercitare l’arte della guerra, uno degli obblighi civici del tempo.

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La difficoltà dell’amministrare era accentuata anche dalle dispute di carattere religioso ed ecclesiastico.

Le questioni religiose erano allora strettamente legate a quelle civili. A Cremona e Milano aveva avuto nei secoli precedenti un grande sviluppo la “pataria”, un movimento religioso contro Vescovi e preti simoniaci e corrotti, forte anche in Toscana, grazie soprattutto all’azione dei monaci di Vallombrosa.

Un movimento che in buona parte si affermò e vinse, che godette spesso del sostegno dei Papi, quando si manteneva entro certi limiti, che si intrecciò stabilmente con le aspirazioni all’autonomia ed all’affrancamento dall’autorità del Vescovo-Signore proprie di buona parte della classe dirigente comunale.

Un movimento che coinvolse, a Cremona, Milano, Firenze, anche le donne. Non fu cosa dappoco in secoli in cui, come dicevamo, la condizione femminile era segnata da feroce sottomissione.

A Cremona addirittura, lo ricorda come motivo di scandalo un fiero anti-patarino, Pietro Grasso, verso la fine dell’XI secolo (quindi agli albori dell’età comunale) una “muliercula”, una “donnicciuola”, di nome Albizia, predicava spesso al popolo dall’ambone del Duomo!

Fermenti religiosi continuarono per il XII ed il XIII secolo. Erano sopratutti i “populares”, a ragione o a torto, ad essere accusati di eresia e di civettare con essa.

In realtà non sempre è facile distinguere fra appelli ortodossi alla riforma della Chiesa e forme di aperta contrapposizione.

Sia l’eresia che i movimenti ortodossi di riforma nascevano dalla stessa esigenza di personalizzare la religione, di esprimerla ed istituzionalizzarla in forme nuove, di espellere dalla Chiesa mondanità e corruzione.

A Cremona, come altrove, in quei secoli molte questioni che noi oggi consideriamo di carattere sociale o civile, si ponevano anzitutto a livello religioso.

C’è da dire che la classe dirigente comunale seppe gestire abbastanza bene questi contrasti, cogliendo ogni occasione per rafforzarsi ma comportandosi in genere con moderazione ed equità (se pensiamo ai tempi ….).

***

Le continue guerre, contro i nemici esterni ed interni, ed il conseguente “clima” di violenza ed odio che si respira consultando i documenti e le cronache del tempo, colpiscono il lettore moderno. E sembrano contrastare con quanto dicevamo prima circa la diplomazia e la cultura dei ceti dirigenti. Ma contrasto non c’è, se non per noi. In quel mondo, in quella “visione del mondo”, tutto si tiene e sta.

La violenza e l’odio fra i partiti e le casate, che si tramanda di generazione in generazione, sono realtà onnipresenti. L’apparente indifferenza con cui gli annali e le cronache (quella di Salimbene de Adam è forse la più famosa) enumerano i massacri e gli assassinii, non solo a Cremona ovviamente, è la prova del loro carattere quotidiano e, diciamo così, “normale”.

Lo stato di guerra è accettato proprio perché ricorrente. Quasi ogni anno, a primavera e nella bella stagione, vi sono spedizioni militari contro i Comuni vicini, soprattutto contro Crema. I Cremonesi avevano fama di particolare crudeltà. Ci sconcertano episodi di brutalità, da tutte le parti, narrati dalle Cronache, tra persone che indubbiamente condividevano gli stessi valori di fondo, soprattutto la concezione cavalleresca della guerra e la carità cristiana, che certo condannavano tali comportamenti.

Ma studi recenti (ben riassunti recentemente in un libro di alta divulgazione da M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri) dimostrano come un ben preciso orientamento, in quegli anni maggioritario nella Chiesa, giustificasse la guerra e le sue conseguenze.

Ed altri studi chiariscono che anche la concezione cavalleresca della guerra aveva caratteristiche di violenza e crudeltà per noi inaudite.

Teniamo conto, poi, che gli obiettivi in gioco nella lotta per il potere erano grandi e spesso “mors tua, vita mea”: la sconfitta poteva segnare la morte o, forse peggio, nei casi di guerra civile, la confisca dei beni e l’espulsione dalla città.

Il controllo del territorio e delle vie di comunicazione era questione di sopravvivenza per una città: voleva dire rifornimenti, prosperità dei commerci, entrate di pedaggi ecc.

Ed, all’interno, il controllo delle leve politiche significava pure, ovviamente, il controllo delle principali leve economiche: la ripartizione delle imposte (che erano altissime!) e più in generale la spartizione della ricchezza, che giungeva sempre più abbondante a Cremona sotto forma di rendite fondiarie, di profitti commerciali, di bottini di guerra.

In ballo, nello scontro tra Cremona, Crema e Milano, come all’interno tra “milites” e “populares”, non c’era solo il potere politico ma concrete ragioni di interesse economico.

Giustificazioni ideologiche e motivi di interesse, dunque, congiuravano insieme a creare una società nello stesso tempo civile e violenta. Civile e tollerante in certi ambiti, violenta per tanti altri aspetti. Violenza che si esercitava regolarmente, al di là delle guerre e delle discordie civili (fenomeno essenzialmente urbano), nella campagne.

***

Non dobbiamo dimenticare infatti che la ricchezza di Cremona era in parte risultato dello sfruttamento del Contado.

Cremona fu la prima e la più grande fondatrice di “borghi franchi” in Italia.

Soncino, San Bassano, Pizzighettone, Ticengo, Castelleone e molti altri. Per ragioni difensive, essenzialmente. I gruppi dirigenti di questi castelli, eretti in “borghi franchi”, hanno poco di locale e nulla di contadino: si tratta di “milites” venuti in buona parte proprio dalla città. Cremona controlla direttamente la vita di questi borghi, che pure godevano di precise franchigie.

Ben peggio era la vita nei villaggi che gravitavano attorno a queste minuscole capitali locali o direttamente attorno alla città: obbligo di inviare contingenti armati dietro semplice convocazione, multe pesantissime in caso di ogni inottemperanza, tasse ed imposte gravosissime.

Nel Duecento si assiste nelle campagne cremonesi a quella che gli storici hanno chiamato “reazione signorile”, non particolarmente osteggiata dal potere cittadino. Si assiste cioè alla tendenza, in disuso nel secolo precedente, a “fissare” il contadino alla terra o alla persona del suo signore, prendendo in prestito norme del diritto romano.

Questa tendenza a fidelizzare la dipendenza contadina, in contrasto con la crescita demografica e l’abbondanza di manodopera, era determinata dal desiderio di impedire la fuga dalle campagne ai “borghi franchi” o alla città, dove le condizioni di vita e di libertà erano infinitamente migliori. “L’aria di città rende liberi” è un motto che da allora a tutto l’ottocento ha avuto grande significato.

La domanda che gli storici si pongono attiene al perché nel Cremonese, nel ‘200, quando il Comune si affermava, quando molte terre si bonificavano e la ricchezza cresceva, le condizioni di vita dei contadini addirittura peggiorassero.

Cito per tutti François Menant: “I contadini di Cicognara, di Alfiano o di Sospiro continuano a subire l’autoritarismo della badessa di S. Giulia e del vescovo di Cremona proprio quando in tutta la Lombardia i loro simili vivono per lo più liberi ed hanno tutta la libertà di partire verso le terre nuove che li circondano e verso i borghi franchi dove li attende uno statuto infinitamente più favorevole. Perché questa condizione depressa dei contadini cremonesi perdura malgrado tutto? La questione rimane aperta”.

Perché il Comune di Cremona non favorisce più di tanto l’emancipazione dei contadini, la loro venuta in città o nei borghi franchi? “La questione rimane aperta”, come dice Menant.

Potremmo cercare la risposta nelle divisioni interne alla città di cui abbiamo parlato ma soprattutto – io credo – nella necessità, da parte dei governanti la città, di non alienarsi le simpatie dei signori locali e nella comune estrazione sociale di questi e dei “milites”, del legame tra potere politico cittadino e proprietà della terra.

Fatto sta che il contadino continuava a non avere diritti, ad essere considerato poco più che l’ “homo bestialis” di cui parlavano i cantari. Vittima di tutte le violenze ed i soprusi possibili.

***

Non che non vi fosse chi a ciò non si opponesse! Pochi anni prima della fondazione del Palazzo comunale, nel gennaio del 1199, era stato canonizzato, a poco più di un anno dalla morte (13 novembre 1197), Omobono Tucenghi, uomo del popolo e di pace quant’altri mai.

Ed abbiamo visto che, ad Assisi, nello stesso 1206, Francesco inizia la sua meravigliosa avventura.

A dimostrazione, le vicende di S. Omobono e di S. Francesco, che il mondo del tempo era percorso anche da straordinari fremiti di spiritualità, da desideri insopprimibili di pace e di giustizia. Certo, minoritari ed in fin dei conti perdenti, in quel contesto, ma ripresi più e più volte nel corso dei secoli successivi (a loro volta, Omobono, Francesco e tanti altri nobili spiriti del loro tempo svilupparono idee e posizioni precedenti), in modo tale da rappresentare comunque una mitigazione del potere e delle violenze.

La storia, non sembri una bestemmia (oggi è convinzione largamente diffusa anche tra gli studiosi più tradizionalisti), si fa anche non solo studiando i “perdenti” nei vari periodi, gli utopisti, i “predicatori nel deserto”, gli “ostaggi della speranza” (per usare un’espressione cara all’attuale vescovo di Cremona, monsignor Lafranconi), ma studiando anche i “se”, le alternative possibili e quelle impossibili.

Tutto serve per capire meglio il passato e quindi noi stessi oggi e magari (ma raramente la storia è stata “magistra vitae”) progettare meglio il futuro.

L’età comunale non costituì quell’età dell’oro che scrittori nostalgici dei secoli successivi (pensiamo a Carducci) descrissero. Ma nemmeno, i Comuni, furono quei regimi arbitrari ed oppressivi “in toto” che qualche recente storico nazionalista ha creduto di vedere.

Con le loro Assemblee, con i loro Consigli (il “maggiore” ed il “minore”, quando la crescita stessa impedì di assumere tutte o quasi le decisioni in Assemblea), con i loro Consoli ed anche all’epoca dei Podestà, i Comuni furono gli Stati che, prima delle grandi Rivoluzioni americana e francese, garantirono al maggior numero di cittadini di partecipare, in un modo o nell’altro, alla gestione degli affari pubblici.

Certo, la democrazia comunale non fu né si propose di essere egualitaria e totale; si basava sull’esclusione dei ceti subalterni e delle donne, sullo sfruttamento del contado.

Ma, rispetto ai Regni, la partecipazione di certi ceti alle decisioni era maggiore e la mobilità sociale pure. Se il povero si arricchiva, se il soldato poteva comprarsi le armi ed il cavallo, se il contadino fuggito dalle campagne faceva fortuna, aveva la possibilità di contare. Senza miti e con equilibrio dobbiamo quindi guardare all’età comunale, anche a Cremona.

***

Per tornare alle origini del nostro Palazzo, resta da dire che, quando forse non era ancora del tutto terminata l’edificazione, nel 1209, la città rischiò la frattura definitiva.

Come siano andate davvero le cose non sappiamo. Sappiamo però che, toccato probabilmente il fondo delle divisioni ed avvertito il pericolo della dissoluzione di tutti, nel 1210 si arrivò ad un accordo fra le parti, il “lodo Sicardo”, dal nome del Vescovo Sicardo, uomo di grande autorevolezza (nominato dal Papa suo delegato per stabilire la pace in Lombardia), proclamato solennemente sui gradini della Cattedrale, davanti all’Assemblea generale dei cittadini, al suono delle campane e delle trombe.

Proclamato per quattro anni, resterà in vigore fino alla fine del regime comunale. Prevedeva, in sostanza, che il “Populus” avesse diritto ad un terzo di tutti gli uffici e le cariche comunali. A volte violato, fino agli anni ’30 del Duecento non pienamente accettato, rimesso in discussione quando venne costruito il Cittanova, servì comunque alla città a superare uno dei momenti peggiori delle sue divisioni.

Ma non sarebbe bastato e le divisioni avrebbero forse davvero portato alla dissoluzione della città se di lì a poco non fosse apparso sul cammino di Cremona il grande Imperatore, Federico II.

Ma con Federico II siamo già oltre gli anni di fondazione del Palazzo e di stretta pertinenza di questa relazione.

***

Il Palazzo comunale è rimasto sempre, dopo, al centro della vita cittadina. All’interno di questo poderoso edificio – che, rimaneggiato più volte, ha però conservato sempre l’impianto originario, di broletto lombardo, a pianta rettangolare anche se leggermente inclinata – si sono svolte le principali vicende della storia politica, civile, sociale ed amministrativa della nostra città. Sempre in stretto legame con la piazza principale, quelle minori e le vie circostanti. E con la Cattedrale, in un intreccio tra mondo laico e religioso che fa parte della nostra storia, che costituisce parte delle vicende sociali e culturali di Cremona.

Anche dopo Federico II, dopo le crisi del Trecento e la fine della civiltà comunale, all’epoca delle Signorie dei Cavalcabò e di Cabrino Fondulo, Cremona fu città di grande rilevanza ed il suo Palazzo comunale centro di storie importanti.

Nel periodo dei Visconti e degli Sforza, Cremona svolse un ruolo particolare ed il suo municipio fu fatto segno di molte attenzioni. Legatissima a Bianca Maria Visconti ed a Francesco Sforza, e dopo la di lui morte ancora alla vedova (tant’è che quando Bianca Maria morì, nelle cancellerie europee corse voce fosse stata avvelenata dal figlio, oltre che per i continui contrasti, per avere cercato di staccare Cremona dallo Stato di Milano), fu destinataria da parte loro di investimenti e di grandi cure.

Nello Stato di Milano, dal 1535 passato stabilmente al Regno di Spagna (unione solo di “corone”, non una fusione o un’occupazione), Cremona occupa pure un posto di eccellenza.

La “più cortese, magnanima e liberale che sii in Lombardia” dice della città di Cremona nel 1569 l’incisore Giovanni Maria Cipelli. E un personaggio di lui assai più influente, don Luis de Requesens, governatore dello Stato di Milano, scrive al Re di Spagna Filippo II, nel 1573: “la città di Cremona è la prima di questo Stato dopo Milano e una delle migliori d’Italia”.

Ed in effetti era così.

Popolosa per i criteri dell’epoca, era pur sempre fiorente per attività manifatturiere e mercantili di grande rilevanza, favorite dalla presenza del Po, ancora utilizzato come via di comunicazione, e dall’essere ubicata ai confini dei Ducati indipendenti di Parma, Modena e Mantova e della Serenissima Repubblica di Venezia.

Il contado, poi, era fertile e nelle annate non di carestia arrivava ad esportare fin quasi la metà dei propri raccolti.

Certo, le condizioni di vita dei ceti bassi, in città come in campagna, erano difficilissime e spesso scoppiavano rivolte, come quella in città dei tessitori, nel 1531-32, o quella a Castelleone, nel 1576, contro la tassa detta “sulle bocche”, quasi contemporaneamente ad una terribile invasione di cavallette e ad una piccola epidemia di peste.

Ma altrove, in Italia per non dire del resto d’Europa, le condizioni erano peggiori. Nelle aree pedemontane, ad esempio, la miseria era maggiore, o nel centro e sud del Paese. Nell’Italia spagnola, comunque, le rivolte maggiori, quasi sempre contro questa o quella tassa, avvennero a Napoli e nel sud.

Cremona però era “periferica” rispetto alla capitale. Non autonoma e quindi con poco peso nelle decisioni. Mantova e Parma, ad esempio, con minori potenzialità, erano però capitali di piccoli Stati. E questo significava molto. Specialmente per quanto riguardava la capacità di richiamo di artisti ed intellettuali, grazie alle straordinarie committenze dei Signori.

Paradossalmente (ma non troppo), quanto più lo Stato era piccolo, tanto più il Signore aveva necessità di affermare il proprio prestigio attraverso lo sfarzo della Corte e le committenze artistiche.

A Cremona questo non poteva avvenire e le committenze diciamo così “di Stato” mancavano. Tanto più che nessun Governatore spagnolo avrebbe mai osato tenere a Milano “Corte” propria o svolgere una politica autonoma di prestigio: il Re di Spagna temeva spinte autonomistiche a Milano ed il “prestigio” e “l’onore” erano conquistati, oltre che a livello militare, con il mecenatismo.

Da Cremona quindi la “fuga dei cervelli” fu intensa. E meno verso Milano che direttamente verso la Spagna. I casi più noti sono quelli di Janello Torriani, Sofonisba Anguissola, più tardi il Bertesi. Ma tanti furono i “minori”, gli sconosciuti, che presero la via dell’emigrazione. Oppure se ne andavano a Mantova e Venezia. Pensate a Monteverdi o al figlio di Stradivari.

Ma se se ne andavano, vuol dire che c’erano, direbbe Monsieur de La Palisse!

E infatti gli storici hanno notato lo straordinario sviluppo culturale, musicale ed artistico della Cremona del ‘500.

“Quanto e come fossero colti i diversi strati sociali cremonesi del Cinquecento rispetto, poniamo, a quelli milanesi, o pavesi, o padovani o bresciani” è oggi impossibile sapere con certezza, afferma Giorgio Politi. E continua: “Qualche indizio, però, può essere trovato, e questi elementi rendono plausibile l’ipotesi che l’aristocrazia cremonese dell’epoca fossa assai colta, con una preferenza spiccata verso due ambiti disciplinari: la musica, vocale e strumentale, e la pittura”.

Di più: colta era, dimostra Politi, anche la “categoria” degli amministratori, dei “politici” diremmo oggi. Colti erano i Podestà, ma anche i membri del Consiglio cittadino, in grado di seguire ed apprezzare discorsi ufficiali in latino letterario. In questo contesto raffinato e colto non poteva non fiorire anche una scuola di abili intagliatori del legno (ne abbiamo prove eccelse già nel ‘400) e di provetti maestri liutai.

***

Poi iniziò la crisi, nella seconda metà del ‘600, così bene indagata nel 4° volume, test’è uscito, della “Storia di Cremona”.

I secoli più recenti, il Settecento, l’Ottocento, il Novecento, non sono meno interessanti da studiare.

Sempre, il Palazzo comunale è stato al centro delle varie vicende.

Come centro della vita pubblica cittadina e del governo cittadino, ha ospitato nel contempo attività disparate, alcune di carattere privato, subendo continue modifiche degli spazi interni per le varie esigenze che, con il passare del tempo, subivano mutamenti.

Una evoluzione che ha contrassegnato in maniera significativa anche l’aspetto esterno, al punto che da palazzo integrato con altri edifici che si affacciavano su quella che un tempo era la platea parva, più o meno l’attuale Piazza Stradivari, è stato alla fine isolato, così da costituire una sorta di grande blocco quadrato di mattoni rossi.

Il Palazzo comunale però è rimasto l’edificio pubblico simbolo per eccellenza della vita politica ed amministrativa di Cremona, con il passare degli anni non più svolta da pochi maggiorenti, ma da rappresentanti eletti direttamente dal popolo, al quale sono chiamati a rispondere, ed il cui compito è di amministrare la cosa pubblica sulla base di principi di onestà, giustizia, legalità.

La predisposizione di un volume dedicato interamente a questo edificio è perciò un evento di grande valenza civica. Ma anche di alto significato e di indubbio valore scientifico, in quanto costituisce una chiara messa a punto delle attuali conoscenze ed è nel contempo un’occasione di ricerca e quindi uno strumento fondamentale di lavoro per ricerche future. E certo non è stata un’impresa da poco, considerata la scarsità di documenti, soprattutto riferiti ai secoli più antichi.

Oltre alla storia degli edifici e degli spazi che essi delimitano, il libro riporta numerosi dati, in buona parte inediti, sulla vita delle istituzioni e sul funzionamento degli uffici. La storia di un “monumento”, quale è un palazzo comunale di origine medievale, non può infatti essere limitata alla restituzione delle vicende costruttive ma deve tener conto anche della struttura amministrativa che il Comune ha assunto di volta in volta nel corso del tempo, innanzitutto perché proprio questa, molte volte, ha determinato gli interventi di modifica o di ampliamento dell’edificio, ma poi anche perché è attraverso essa che il palazzo ha assunto un significato ed un valore, anche simbolico, nella vita della città.

Nel libro vengono illustrate le riforme successive subite dall’intero complesso, dagli interventi rinascimentali fino agli importanti lavori affidati al progetto di Luigi Voghera, nella prima metà dell’Ottocento, per giungere poi agli interventi post-unitari, con la sistemazione delle nuove sale di rappresentanza, fino alle ultime riforme che datano intorno agli anno 50-60 del XX secolo.

Sulla scorta della documentazione d’archivio, vengono riportati anche dati curiosi, circa l’utilizzo del Palazzo (oltre al mercato nei portici, all’esterno) negli ambienti interni, per usi privati. Oltre all’attività, già nota, di uno stampatore, con il proprio laboratorio, e di un libraio, abbiamo la presenza di un maestro di scherma, che in alcuni locali del palazzo teneva la sua “schola”, di un “boia” a cui erano state affittate alcune camere, di “commedianti”, che si servivano di alcune stanze per esercitarsi nella loro arte, non senza schiamazzi ed altri motivi di disturbo per vicini e passanti, di una “scuola di ballo”, in epoca più recente di una “Accademia letteraria”. Talora capitava che venissero richiesti in affitto alcuni locali, anche per poche ore o per una giornata, per organizzarvi delle feste private.

Il grande valore storico, scientifico, ma anche civile che riveste quest’opera è facilmente comprensibile, soprattutto se si pensa che sino ad ora – fatta in parte eccezione per la pregevole opera realizzata a suo tempo da Elia Santoro – chi ha voluto conoscere la storia del Palazzo comunale è dovuto ricorrere ad alcuni brevi profili complessivi, validi ma troppo sintetici per rispondere a quelle esigenze di informazione ampia ed organica richiesta da tempo e da più parti. Abbiamo rimediato a questa lacuna grazie anche al contributo della Banca Cremonese di Credito Cooperativo, alla quale va la riconoscenza dell’Amministrazione per la sensibilità e l’attenzione dimostrata ancora una volta a favore delle attività culturali cittadine.

E grazie agli studiosi, coordinati da don Andrea Foglia con la collaborazione di Ivana Iotta, che con dedizione e pazienza, si sono cimentati in questa sfida, una sfida che rende giustizia alla ricchezza della nostra storia e, in particolare, ad uno degli esempi più significativi di broletto lombardo. Molti poi hanno contribuito alla realizzazione del libro. Li ringrazio tutti davvero sentitamente.

E’, quello che oggi affidiamo alla città, anche un atto d’amore per Cremona, la sua storia, le sue bellezze, le sue istituzioni.

Amiamole! Non chiediamo sempre e solo che cosa può fare il Comune per noi, ma sempre di più che cosa possiamo fare noi per il Comune, cioè per la collettività, per tutti.

In una celebre prolusione del 1805, all’Università di Pavia, Ugo Foscolo esortava gli Italiani alle “historie”.

Ebbene, anche noi torniamo alla storia, non in modo localistico o campanilistico ma con serietà e spirito critico.

Troveremo in essa molte spiegazioni del nostro presente. E, forse, potremo trarre da essa ragioni e convincimenti per maggiori virtù civiche, più reciproca tolleranza, rispetto ed amore per i luoghi in cui ci troviamo a vivere e per le persone che vi risiedono.

prof. Gian Carlo Corada, Sindaco di Cremona

Cremona, 17 dicembre 2006

 


       



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